Su una poesia di Hotel Dieu di Irene Santori: Dal greco
di Pietro Cagni
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Attraverso
Ogni poesia ci costringe a navigare a vista. Apparentemente, senza punti di riferimento. Così impariamo che sempre dobbiamo essere contemporanei al testo – noi ad esso –. Questa chiamata non possiamo disinnescarla con nessuna pagina di critica. Se saremo fedeli a questo compito, scopriremo che le poesie sono in grado di sostenere un rapporto presente con noi, quell’affondo faticoso di senso e di bellezza che chiederemo loro.
Ogni nuova raccolta è la propria storia, vive di una forma inedita, incarna l’esito della sfida percorsa: l’attraversamento della tradizione, cioè il suo recupero e il suo superamento. A ogni passo, le poesie rivivono tutto il passato, per superarlo. È una medesima contemporaneità, plurale, contraddittoria, discorde, a legare tra loro gli occhi e le mani di chi ha scritto e di chi legge. Molte voci ignorano questa scommessa e scivolano senza troppe preoccupazioni nell’informale; altre recuperano strutture antiche, intatte, eburnee, rendendo lode al proprio sacro, terso, lavorìo poetico. Ma la poesia oggi ci chiede il lavoro del grande pittore bolognese Lorenzo Puglisi: attraverso Caravaggio, alle costole di Francis Bacon, per attaccarsi alla sua gola profumata e fare un passo in avanti, nel nitore che viene dal buio. Così, a volte, i poeti.
Si diceva di una navigazione: spegnere i motori, affidarsi al vento. Impone dei limiti: non sarà possibile illustrare “la poesia di Irene Santori, poetessa romana” e nemmeno “la poesia della sua ultima raccolta, Hotel Dieu”. Troppo vasto l’orizzonte e troppo brucianti i versi. Potremo, però, fermarci una volta, leggere e sgranare un testo, affrontando almeno una volta la sfida a cui siamo chiamati sempre.
Irene Santori, Dal greco. Il verso, le strofe
La poesia Dal greco si oppone con forza alla parafrasi. Questi versi disinnescano, raffreddano, anestetizzano i nostri tentativi di lettura. Il commento è respinto fortemente, e siamo immessi in una danza. Dunque qual è la misura del verso della Santori? Da cosa è governato, che cosa gli dà forma? Sembra che questa danza sia impossibile, e che l’autrice non conosca “lo fren de l’arte”. Eppure, la stessa poetessa poneva in esergo al libro una formula di Arturo Martini: «ogni frammento è scultura». Ma ogni verso qui sembra irrelato, una tessera dispersa e straniante: troviamo un verso (il più ampio, mi pare) di 17 sillabe e uno costituito da una sola sillaba. Inoltre le sette unità strofiche in cui la poesia è divisa sono assai ineguali: alcune sono molto ampie – la prima è la più lunga (di 37 versi) – mente altre sono più brevi – la seconda strofa è di soli tre versi, e tre versi per di più molto esili -. Ma non vige un assoluto arbitrio, il non-senso, forza disgregante e centrifuga. Perché a ben vedere le strofe (che sono, sì, di diversa lunghezza) non sono disposte casualmente e danno vita a una precisa alternanza: strofe “più pesanti” e strofe “più leggere” si alternano, e questo è certamente significativo. Si potrebbe riconoscere un suggestivo richiamo a passi di danza, larghi e stretti. Ma occorre proseguire, per mettere a fuoco la versificazione qui operante: a scandire il movimento apparentemente scomposto e arbitrario dei versi appaiono qua e là dei nitidi endecasillabi: «le ginocchia sbucciate sotto il mento», «riapro gli occhi sul palmo della mano», «bruciate vive dai fidanzatini», «piuttosto fondare le città d’arte», «bambina mia, dentino, acquasantiera», «sulla rotta dei suoni ritorno a te». Questi endecasillabi hanno, a mio avviso, due precise funzioni: una “funzione strutturante” che fornisce una misura di riferimento da cui ci si diparte per somma o sottrazione, e una “funzione distensiva” che allenta la tensione, facendo trovare un ritmo limpido, più quieto, per riprendere fiato. Sono frequentissimi, inoltre, intensi legami fonici, sia all’interno del singolo verso che tra versi contigui (non si contano le assonanze, le allitterazioni, e si trovano anche intere parole in anafora). Questa tessitura sonora conferisce solidità al corpo testuale, ne contrasta la dispersione, la disconnessione che abbiamo descritto e che è suggerita, non si era detto, anche da fortissimi enjambements. In alcuni passi questa musicalità spiccata emerge con più chiarezza: l’esempio più evidente è quello splendido verso «Anima mia, Anna mia, Anna fame mia» che cita Rimbaud ed è tutto retto dalla omofonia delle sillabe, ripetute e tramutate in una vera e propria litania. Ma ogni verso ha una sua finitura, è inserito in una comunque dolce tessitura vocale, come in uno spartito.
Le parole
È nella tessitura delle parole che risiede la forza “linguistica” di questa poesia: Santori dà vita a una intensa stratificazione lessicale, con continui picchi espressivi. Lingua diverse si intrecciano all’italiano, senza soluzione di continuità: il dialetto grico salentino, in due versi; l’incontenibile discorso diretto, che si incardina dentro le sequenze strofiche in almeno cinque occasioni; il greco biblico, a cui la poetessa affida addirittura il culmine conclusivo della poesia. Questa chiusa è, inoltre, particolarmente mirabile perché consiste in un passo del Nuovo Testamento innestato sull’Antico. La stratificazione è, evidentemente, un elemento centrale sin dal titolo: a dare avvio alla poesia-racconto è la “traduzione” del farmacista, paradigma di quell’unità comunicativa realizzata. Qual è lo scopo, d’altronde, di ogni traduzione, se non rendere contemporanei (mostrare la contemporaneità di) atti linguistici lontani tra loro? Così comprendiamo le numerose ed esibite citazioni disseminate in tutta la raccolta, non limitate all’ambito letterario: Rimbaud, Virgilio Amelia Rosselli, Joyce, Pascal, Tarkovskij, Piero della Francesca… E in questa stessa dinamica leggiamo i nomi, le vicende, le parole che sgorgano dalla “vita privata” dell’autrice, e le opere di Vasco Bendini che accompagnano queste poesie sin dalla copertina. Ma non si dà mai una apparente fusione, non si dichiara mai la piena realizzazione dell’incontro. La traduzione raduna i tempi, certo, ma le distanze non possono essere eluse, soltanto accolte: il corsivo e i trattini, in questa poesia, segnalano sempre l’incursione dei diversi registri mantenendone evidente lo stacco, che è anche visivo. Questo vero e proprio popolo di artisti e di amici che sta alle spalle dell’autrice non è muto: le dona l’abbrivio della poesia, sostiene il dialogo, affronta la sua inquieta ed inesausta richiesta.
L’esperienza
Dicevamo all’inizio che Dal greco cerca un andamento poematico, narrativo. Dunque siamo autorizzati a cercare quale sia l’esperienza racchiusa in questi versi. L’esperienza contenuta, riconosciuta nel vissuto. Qui si proverà l’inadeguatezza inevitabile del commento. Quattro movimenti si snodano nell’arco delle sette strofe: ne consegue che alcune strofe, da un punto di vista del senso, risultano agglutinate tra loro (le prime due, la terza e la quarta, le successive quattro e le ultime due).
Le prime due strofe delineano “la scena”: familiare, di festa. Riconosciamo un intero paese in festa, il folklore del popolo, la sua religiosità innervata di paganesimo («il dio erbivoro»). Emerge la questione, il quid che dà sostanza alla poesia: la bambina, la figlioletta si perde nella folla, scappa, ci sembra di vederla correre come corrono i bimbi: «gli ultimi nati / saltano la corda e sfuggono».
La processione danzante nelle vie del paese diventa un’altra cosa: dapprima è la folla è la “catena umana” a cui si appartiene e che lega, poi diventa all’improvviso separazione, distacco. A questo punto occorre riconoscersi, prendere le proprie misure, pesarsi.
Terza e quarta strofa: accade un fatto nuovo, doloroso. È «un tamburello in volo» che colpisce «dritto in fronte», e che fa perdere i sensi: «Scusa, è tutta colpa mia!» dice una voce. Insieme a questo urto, anzi, forse da questo urto veicolata, irrompe la cronaca, giungono le notizie terribili del mondo: «Aleppo brucia! leggo, / orrore, e vado a terra, de- / capitati / due bam…». “Due bam…” è una parola che non si può finire, che non si ha la forza di finire. A segnalare questa impossibilità, questo mancamento stanno i puntini di sospensione. Alla fine della poesia, quando torneranno questi stessi brandelli di parola [che noi, nel nostro disanimato e stramorto commento possiamo dire per esteso senza difficoltà, senza avvertirne il peso: due bam.bi.ni] non saranno più seguiti dai puntini di sospensione. Che cosa è accaduto perché questi puntini di sospensione, cioè l’attestazione grafica delle forze che vengono meno, della realtà letteralmente indicibile, alla fine non sono più necessari?
Quinta strofa. Con un gesto, «gli afferro i polsi», partecipa alla danza. Di conseguenza: sesta strofa. Tutto si allarga, tutto si approfondisce, perdendo i contorni astratti del pensiero, nell’esperienza di chi sa che dolore e speranza procedono di pari passo. «Allora vedo chiaramente, / risalire su dai pozzi le bambine / bruciate vive dai fidanzatini», e con più forza la madre cerca il figlio piccolo su cui, a causa dell’impatto, non ha potuto più vigilare: “cerco mio figlio / scioltomi in vita”. Settima strofa: «tutto matrizza», si fa simile alla madre. La bimba che corre, il figlio piccolo che si perde. Il fatto diventa visione: tutta l’esperienza umana (la festa, il dolore) si ricapitola come distacco dalla propria origine, nell’esperienza dolorosa di allontanamento dalla madre, e successiva misteriosa approssimazione. Ottava: è un grido di speranza, il comandamento di «fondare città d’arte», il divieto di «recidere […] le trecce» ai defunti.
Segue un’invocazione alla “bambina acquasantiera”, luogo che contiene il sacro, che ne è “capace”. Per alcuni versi non si capisce se sia la Madonna di Otranto o la figlia: l’ambiguità è feconda, perché è entrambe le figure, la Madonna e la figlia, acquistano spessore nell’altra. Viene così portato a compimento il riconoscimento di una misteriosa identità che percorre questi versi, l’intuizione di una quasi perfetta corrispondenza tra i «due bam» siriani, vittime della guerra, i due figlioletti nella festa, Anna e Nicola, le bambine che risalgono dai pozzi, e il divino che si è fatto ospitare dal corpo di una «madonnina dell’osteoporosi», piccola, della grandezza delle braccia materne: «bambina mia…»
Ultima strofa: «Sulla rotta dei suoni ritorno a te». Permane l’indicibilità. Ma vengono meno i puntini di sospensione: «e quando l’uomo osa dividere ciò che la donna ha unito / con perizia incollo due bam / due / bam / eis ton / kolpon Abraàm.» In nota l’autrice dà la sua traduzione del passo biblico: «Nell’utero di Abramo (Luca 16, 22)». In questa traduzione la chiave di tutta la poesia: discostandosi dalla versione comune della parola kolpos, generalmente “petto, grembo, seno”, Santori scrive kolpos come “utero”. Qual è il compimento, quale l’approdo finale? La ricomposizione. Il ritorno alla propria origine, misteriosa, materna, all’utero di Abramo.
© Pietro Cagni
Dal greco
25 agosto, notte della taranta
il farmacista traduce
il suo apotheke in italiano
questa notte, sulla strada di Melpignano
milioni di cimbali d’argento e di pianeti
mi faranno danzare.
Al convento degli agostiniani
già la terra ventriloqua
si contrae sotto le gambe
si spazientisce e si prepara.
– Tua figlia è pazza di te – ti grido
per come ti inarca
le ginocchia sbucciate sotto il mento
socchiude le ferite
e dilata le narici. Anch’io
farei così.
E ci provo a legarle i capelli,
ma che vuoi, i più teneri,
gli ultimi nati
saltano la corda e sfuggono
come d’estate le bisce
dagli oleandri.
Anima mia, Anna mia,[1] Anna fame mia[2]
tosson orìa
ghenomeni così
ben fatta Anna
chiedimi tutto, tutto
quello che vuoi
io quaggiù
a te
sottomessa
– fa’ presto – mi scuoti e rispondi
– va’ a vedere la facciata, che fra un po’ non si capisce niente –
e come?
Mi lego Nicola alla cintura
e penetro
nell’organo lucente
come il bue condotto alla fiera
io sono
lo stupido dio erbivoro
alla pesa,
da carne.
Scotto, scotto e sono vicinissima
quando un tamburello in volo
mi colpisce dritto in fronte
riapro gli occhi sul palmo della mano
niente sangue solo
acqua dolce,
li sollevo e in lontananza
dove le ombre vanno all’ombra
e la notte inginocchiata
allatta i suoi gemelli,
s’incensano le spalle
scorrendo sotto il palco
come notizie.
Aleppo brucia! leggo,
orrore, e vado a terra, de-
capitati
due bam…
– Scusa, è tutta còlpa mia! – e metto a fuoco una bocca
venirmi incontro mentre
dall’apertura della ò
inalo
antiche saline fenicie
– mi sono fatta niente. Perdi vino dal naso – gli dico
e tra i canti e le spinte
gli afferro un polso,
uno dei due,
vaso costretto.
Sotto i colpi dei bassi la terra viene
e io con lei all’ingiù
cerco mio figlio
scioltomi in vita, mentre intorno, qui
tutto matrizza.
Allora vedo chiaramente,
risalire su dai pozzi le bambine
bruciate vive dai fidanzatini
e scendere per me dal ronzio delle lune
il sovrano imperio dei tafani
che strofinano le zampe seghettate sui portali,
soffiano
e asciugano il colore, soffiano
emanano decreti:
“vietato mettere
le maglie di lana ai defunti
e recidere loro le trecce;
piuttosto fondare le città d’arte
dissotterrare una ad una
le tibie dei fratelli
per i ponteggi della caffetteria
al millesimo piano
della fabbrica del santo”
– invano appiccai il fuoco sulle cime delle torri
nessuno si salvò dopo lo sbarco -.
Otranto,
bambina mia, dentino, acquasantiera
col vestitino bello
madonnina dell’osteoporosi
ottocento teste
e ti presero i turchi[3]
adesso apparecchi il ceppo
con bianco pizzo di cotone
e tutto è censimento.
Sulla rotta dei suoni ritorno a te,
espiri fumo color malva
nei cerchi dei lobi e delle gonne.
E ti prendo girovita
in tutte le mie ò
di tutte le mie otranto,
e quando l’uomo osa dividere ciò che la donna ha unito
con perizia incollo due bam
due
bam
eis ton
kolpon Abraàm.[4]
(da: Irene Santori, Hotel Dieu, edizioni Empiria, 2015)
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[1] Anna Maddalena, mia figlia, sulle spalle di suo padre.
[2] Da Derniers vers di Rimbaud e a seguire canto funebre in grico salentino di una madre alla figlia “così ben fatta”.
[3] Nel 1480, Otranto fu espugnata dai turchi. Ottocento uomini furono decapitati. Il ceppo e le loro reliquie merlettate sono in una cappella della cattedrale.
[4] «Nell’utero di Abramo» (Luca 16, 22).