Una frase lunga un libro #99: Michele Mari, Leggenda privata, Einaudi 2017, € 18,50, ebook 9,99
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Nacqui d’inverno, e mi è già passata la voglia di proseguire.
Come fosse un racconto.
Nella mia cameretta c’è un poster sulla parete di fronte al letto. È la tigre di Mompracem, no, non è Sandokan, ma la tigre contro cui combatterà. Ho sette, forse otto anni, forse nove, mio padre mi ha regalato quel manifesto perché sa quanto io ami Salgari e i suoi personaggi. In Tv hanno dato da poco lo sceneggiato, e quindi Yanez e Tremal–Naik, e quindi il terribile Brooks (interpretato dall’immenso Adolfo Celi) e Lady Marianna. Per amore mio padre mi compra la tigre, ma la tigre ha le fauci spalancate; e si badi, io so che è una foto, che non esiste, che non devo averne paura, eppure io ogni notte ne ho terrore. I mostri non hanno motivo di non essere, e infatti sono. Dopo qualche settimana vissuta nel terrore ho il coraggio di confessare ai miei quella paura e la tigre sparisce.
Da piccolo io ho sempre detto «Ho fatto un incubo», e sempre mi sono sentito correggere: «Casomai avrai avuto un incubo». Lascio la questione ai linguisti.
Per anni ho sognato, o creduto di sognare, ho pensato, oppure è accaduto, che qualcuno mi tirasse i piedi mentre dormivo; e avevo paura e tacevo. Pensavo si trattasse di un demone, un Gesù, un morto al quale non avevo voluto abbastanza bene. Mentre urlavo senza parole pregavo che non ritornasse, che non venisse più (ma chi?) a tirarmi i piedi (va detto che il piede tirato era sempre il destro), e per qualche notte davvero non veniva. Se tornava, nel sonno (allora era un incubo?) scappavo, ma a ogni passo il pavimento si smaterializzava, allora via in fretta verso le scale, ma i gradini sparivano a ogni balzo, i pianerottoli erano piccole voragini, spariva la strada dinanzi all’ingresso del condominio. Precipitavo di baratro in baratro. Capivo che sarebbe stato meglio che il demone tornasse a tirarmi il piede destro, se si trattava di una punizione era meglio pagare. I bambini credono nella giustizia e nei mostri.
Da quando avevo sette o otto anni i miei mi mandavano a fare qualche piccola commissione come a comprare le sigarette o il pane; o addirittura a farmi spingere ancora più lontano, fino a casa delle zie che stavano nel Rione in fondo alla piazza principale del paese. I miei genitori si raccomandavano di non parlare con gli sconosciuti, e di non farmi avvicinare da un uomo in particolare. «È un po’ strano.», dicevano. Si trattava di un signore sui sessanta, abbastanza distinto, portava gli occhialini neri, montatura alla Peppino Di Capri, era leggermente stempiato. Lo si incontrava spesso in giro per il paese, sorrideva a chiunque, a me non pareva strano. Un bambino si fida ciecamente di quello che gli dicono gli adulti e perciò gli camminavo distante. Me ne stavo sull’altro lato del marciapiede, stando attento ad attraversare solo ad altezza tabaccaio. Un giorno, però, già vinto dalla distrazione che sempre mi accompagna non mi accorsi della sua presenza a pochi metri da me. Sorrise e disse: «Ciao ragazzino, come va?», accarezzandomi leggermente la testa. Avvertii come una puntura di spillo e corsi via. La paura e la suggestione fanno tanto, e da allora ogni volta che ho visto quell’uomo ho avvertito la stessa puntura di spillo sulla testa. Paura è quando ce l’hai, scriveva il mio caro amico Luigi Bernardi.
Poi, ragazzino, incominciai a trasferire particole di anima nei libri che leggevo, fino a dislocarvela compiutamente: in questo modo potevo circolare nel mondo come un insensibile golem senza patir troppi danni, e quando mi prendeva vaghezza di recuperare un po’ della mia anima andavo a cercarmela là dove l’avevo nascosta, nei libri: soprattutto in quelli d’avventura e nei più spaventosi: finché presa l’abitudine di recuperarne troppa, di roba, per far prima a nasconderla ho incominciato a sbatterla in grandi quantità dentro a libri che mi sono messo a scrivere io, appositamente. Ecco, fine della dinamica.
Tutte queste cose, le paure che mi hanno formato, che spesso dimentico ma sarebbe più corretto dire che spesso nascondo da qualche parte, tutte insieme e con le altre, tutte in un lampo sono tornate con forza incredibile quando ho letto Leggenda privata di Michele Mari ed è per questo che le trovate qui, in quella che ingrossandosi come un mostro marino non è già più la recensione che avrei voluto scrivere, vediamo cosa diventerà.
Non è un romanzo e non sarebbe corretto definire questo libro una biografia. Michele Mari ha scritto soltanto un altro bellissimo racconto, che è anche di fantasia, soltanto che si tratta di fantasia privata. Non conosco scrittore che più di Michele Mari sia riuscito a trasportare i mostri della propria infanzia nei libri; prima cercandoli in quelli degli autori amati e dopo facendogli posto nei propri. I mostri tornano in quasi tutto quello che Mari ha scritto.
Giordano Meacci nello splendido Il cinghiale che uccise Liberty Valance (minimum fax, 2016) ha scritto: «È tutto un abisso di dèmoni privati, la scoperta degli altri». Mi pare la definizione perfetta per quello che Mari fa con Leggenda privata. Sollecitato dai mostri che vengono di notte a domandare Mari mostra a se stesso e poi ai lettori i demoni privati; che sono suggestioni d’infanzia, descrizioni di case, di gente che vive in quelle case, che ha vissuto, che non è esistita. Ragazzine immaginate, una più di tutte veduta e poi rielaborata con l’immaginazione; per cui non sarà la ragazza ma più probabilmente il suo zoccolo, il movimento che fa il piede, o che dovrebbe fare, che Michele (o Danilo come il secondo nome che fa da barriera e difesa, o Gheri ancora temuto, terzo nome sconosciuto) reinventerà nelle sue fantasie. Lei esisterà nel nome che le sarà attribuito, il più probabile. Lei che vende il mottarello, lei a cui – questo è fondamentale – mai sarà rivolta la parola. Dopo i mostri di tutti, come gli amichetti prepotenti e arroganti, come la vergogna per una rivista “presa in prestito” ma che passa come “rubata”, come la pipì al letto temuta e nascosta, come i mostri creati e i mostri dei libri, e un mostro sta nella zuppa e un mostro viene dal sangue, e dopo i mostri più temuti: i genitori.
La bellezza di questo racconto sta anche nel coraggio con cui Mari parla del padre e della madre, due persone geniali e difettose. Il notissimo Enzo Mari, severo – severissimo -, anaffettivo, di rare e pesanti parole. Duro anche con Gabriela, la madre di Michele, matrimonio il loro che durerà molto poco, ma che per certi versi non finirà mai. Mani d’oro, mani che sanno fare, origini diverse, segreti, cose taciute. Baci della buonanotte dati di nascosto. Paura è la certezza di essere altra cosa dal padre (ma cosa?), eppure con la barba sembrarne la copia. Mari mette tutto in tavola, tavola che negli anni è stata ricca ed è stata povera. Quel tutto è di un materiale continuamente modificabile; ogni ricordo dello scrittore pare anche un guizzo di fantasia. Ogni istante di queste vite pare l’ultimo ma anche il primo e appare diverso se, a tradimento, torniamo indietro. Alla luce della pagina 63 la 23 sembrerà altra cosa; solo a pagina 81 avremo ben chiara la 5; come la 5 potrebbe rendere amara la 91; la 91 a sua volta va a braccetto con la 18, e così via.
I mostri interrogano, non si accontentano, e Mari risponde meglio che può e l’ultima geniale risposta è portarsi a casa il frigorifero Algida, quello di quei gelati, di quegli zoccoli, ed è un nome che si raddoppia allo specchio. Questo libro fatto di inventiva, memoria e fotografie e note che rimandano alle nostre note personali, questo libro fatto d’amore e dolore, di puzzle costruiti per le feste, fatto di studio, fatto di genitori, ai quali l’equilibrio viene riconosciuto nel momento in cui vengono catalogate le marche degli attrezzi del proprio mestiere, questo libro non può che rimandare a un’ultima domanda, l’unica per me possibile: «Caro Michele, raccontane un’altra, raccontala, puoi?».
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© Gianni Montieri
Una replica a “Una frase lunga un libro #99: Michele Mari, Leggenda privata”
L’ha ribloggato su gianni montieri.
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