
Quello che so dalla Merulana l’ho imparato da Gadda e dalla passeggiata che compio ogni giorno, come la consegna a rifare il letto di un soldato. Il breve avvallamento dopo San Giovanni, quando crocia i binari della Labicana, poi la risalita verso Santa Maria Maggiore, la piena di grazia e la bella delle belle, con la sua larga facciata complessa e il campanile più alto della città. Sembrerebbe breve, la Merulana, a cominciarla, ma è una delle vie più lunghe di Roma. Per un trucco dell’ottica ogni isolato rischia di sembrare metà strada, ma non lo è quasi fino al ninfeo di Mecenate, che in tempi passati era un posto gentile.Anche adesso la Merulana ha dei posti gentili. Per “gentile” io intendo l’attitudine dei gatti a svegliare i padroni picchiettando il naso senza sfoderare le unghie. Intendo la cartina spessa, tra quelle che uso per fare le sigarette, che mi segnala che ne mancano solo dieci. Intendo anche l’aceto di riso con cui si agglomera il sushi, che può non piacere e infatti a me non piace ma rende il sapore fresco e acidulo come una lastra di vetro brillante.
È gentile, lungo la Merulana, poter chiedere di andare al bagno al bar e non essere guardato con delusione come se il decaffeinato fosse stato solo una subdola scusa. È gentile il modo in cui i supermercati si danno il cambio sulla merce da scontare – sono precario, e tanto, quindi seguo una dieta di legumi e compro il maiale al posto del manzo. Sono gentili i volontari delle ONG che non mi accolgono come se avessimo mangiato assieme un’ora prima ma con la schietta domanda se posso fare qualcosa con loro. Sono gentili i platani: la gentilezza che hanno anche da spogli a dare ombra con il reticolo dei loro rami dovrebbe essere premiata con una targa al loro nome.
Ogni giorno passeggio fino allo stesso isolato, fino alla stessa vetrina che fa angolo con la stessa traversa di sempre. Ogni giorno, lo stesso divano mi guarda dall’angolo del negozio, quasi appoggiato contro il vetro nella sua struttura di legno prezioso e i suoi cuscini rifiniti di velluto, le gambine strette a simulare un divano d’epoca con gli sbuffi delle zampe leonine ad artigliare il pavimento. Ai suoi piedi c’è un cane di porcellana, un cane di taglia piccola, col muso in alto, arriverà poco più sotto del mio ginocchio. Non conosco la sua utilità, probabilmente – se esiste un oggetto del genere – è un fermatappeto. Ma è bello, e il bello non è mai fatuo, e merita di costare lo sproposito che costa. È chi non può permetterselo a non meritare l’ingiustizia di non poterlo avere per una pura questione di denaro.
Il cane di porcellana che guardo ogni giorno costa esattamente quanto io ho in banca fino al prossimo mese. Potrei cedere all’impulso qui, adesso, e comprarlo senza pensare a come pagherò l’affitto il mese che verrà. Potrei uscire con il suo corpicino accartocciato nei giornali e portarlo a casa, finché ne avrò una. Potrei metterlo sul tavolo, fin quando sarà il tavolo di casa mia, e rimanere a guardarlo senza chiedermi con quali soldi dovrei mangiare. Arriverei a conoscerne ogni venatura, scoprirei un difetto nella sua fattura pregiata. Poi uscirei per la strada e porterei in braccio il mio fragile cane di porcellana, come i senzatetto abbracciano i loro grossi cagnoni di carne e pelo.
© Giovanna Amato