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Per Jolanda Insana

Jolanda Insana si è spenta pochi giorni fa, il 27 ottobre scorso. Sulle prime ho provato a scrivere qualcosa a caldo, ma più scrivevo e più capivo che ripetevo qualcosa che comunque avevo già scritto nel 2009, quando il volume Tutte le poesie, pubblicato da Garzanti, mi aveva permesso di attraversare l’allora trentennale parabola di questa splendida e fuori dal coro voce poetica italiana.
Riproporlo qui, dopo averlo riproposto in via quasi privata, vuole essere un omaggio. fm

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Jolanda Insana è certamente uno dei nomi più importanti tra i poeti italiani; malgrado ciò fatica a trovare casa ogni volta che viene pubblicata un’antologia che si proponga di disegnare il panorama attuale italiano. Fortunatamente per altre strade ha trovato consenso e ammirazione, a partire da Giovanni Raboni, il primo sicuramente a riconoscerne la grandezza e lo spessore sin dalla sua prima raccolta data alle stampe.
A dispetto del titolo questo volume degli “Elefanti-Garzanti” non raccoglie “tutte le poesie” di Jolanda Insana; bensì tutte le poesie che la poetessa messinese ha voluto entrassero a costituire il suo canone. Per sua stessa ammissione rimangono fuori «poesie anteriori al 1977, o posteriori o non incluse nei libri pubblicati e dunque extravagantes, così come [poesie] della raccolta di Epigrammi» (p. 9); resta fuori principalmente una vasta produzione di libri inediti dei quali la Insana riporta i soli titoli e le date: Rota alienata (1965), Soltanto inventariare (1966), Camera di combustione (1973), Il maledetto inattaccabile (1975). Titoli e date sono sufficienti comunque a fornire i primi dati di un percorso poetico assolutamente originale e sé stante nel panorama italiano degli ultimi trent’anni.
Jolanda Insana di sé ebbe a scrivere che «conobbe la guerra e i fichi secchi, e dunque predilige parole di necessaria sostanza contro il gelo e i geloni»; così nell’Autodizionario degli scrittori italiani, curato da Felice Piemontese, per i tipi di Leonardo (Milano, 1990), la Insana designava i propri contenuti e confini: tutto quanto non rientra nella rappresentazione, diciamo pure, a pelle della realtà non entra nella sua poesia. Allo stesso tempo il rifiuto di ogni sorta di abbellimento del lessico e dei versi, o accostamento a correnti a lei coeve o comunque tradizionali nella storia della poesia italiana, nel porre un netto distinguo tra lei e i “maggiori” di ogni tempo metteva altresì questo suo modo di scrivere in stretta relazione con certi “minori”, che non essendo in verità tali sono invece i «grandi poeti dell’anima», come li definì Raboni, ossia autori di quelle produzioni che si pongono ai margini dei canoni letterari. Il plurilinguismo della Insana, coi suoi frequenti eccessi dialettali, il ricorso a espressioni scurrili, ricordano non solo Dante, ma ancor più Jacopone, Pulci, Folengo, Michelangelo Buonarroti e, più vicino alla poetessa, Giovanni Testori.
Dagli esordi delimitati dalle due raccolte arrabbiate, Sciarra amara (1977) e Fendenti fonici (1982), fino a quello che potremmo considerare il suo vertice, ossia La stortura (2002), la poesia di Jolanda Insana è cresciuta tra giochi d’invenzioni lessicali e veementi attacchi frontali ai mali che attanagliano l’uomo e la società. Se le invenzioni lessicali che non di rado sfociano in neologismi sono l’indice riconosciuto d’un’espressione necessariamente fisiologica, poiché «quel che linguisticamente è masticato le [alla Insana] diventa suo cibo e se non trova da masticare, inventa» (sempre dalla pagina dell’Autodizionario già ricordata), è altrettanto necessario il mantenimento di una tonalità monocorde per questa poesia, presentatasi tale sin dal suo tardo esordio e ripropostasi nelle tappe successive senza avere mai smorzato i toni.
Del resto già nel 1982 Nadia Fusini notava come la Insana lavorasse «esattamente nella ferita che si apre nella sciarra come nell’ironia. Lavora cioè in quella fenditura che scava una distanza tra l’io e la vita, distanza del resto irreparabile» (il brano è riportato nell’antologia critica che chiude il volume). In Niente dissi, componimento che apre Fendenti fonici, dice: «mi specchio e sgravo con dolore/ figliando famiglie di parole/ immagini pargolette e sorelline maggiori// lo specchio sono io/ sono io il mio stesso io/ e tu ci sformi [..] e a chi mi vuole spogliare svergognare/ e pubblicare/ io dico/ ti do la lana non la pecora» (frammenti 4 e 19, pp. 119 e 123). Non c’è quindi una proiezione verso l’esterno atta a cercare un rimedio al male; c’è semmai una lotta continua con sé e per sé, per mantenersi pura contro le contraddizioni esterne, l’ipocrisia diffusa, l’abbassamento morale.
Più volte cercando di decifrare la poesia della Insana la critica è ricorsa alla categoria della follia, vuoi perché autorizzata dalla stessa poetessa, usa a giocare col proprio nome, vuoi perché effettivamente questo suo fiume in piena di parole ha un che del folle che nel bombardare con raffiche continue e costanti nel ritmo il lettore lo pone pure di fronte a verità incontestabili come la malattia del mondo (Medicina carnale, 1994) alla quale, però, il poeta non si oppone, «ma si consegna “devotamente” a questo mondo […] dando voce alle sue alterazioni», secondo Alba Donati. E se il folle fosse l’insán di L’occhio dormiente (1997) ovvero la creatura vivente della lingua araba? Jolanda Insana è un nuovo Abû Nùmìs che si fa scannare; ma diversamente dal poeta di Bagdad, lei si fa scannare dalla poesia, dalla lingua che da essa scaturisce, per sopravvivere al mondo e raccontarlo per ciò che è, senza soccombere a esso.
Si arriva così a La stortura (2002) libro fondamentale tanto per l’autrice quando per l’intera poesia italiana degli ultimi anni poiché mai come in quest’opera si è posto l’accento sull’immensa difficoltà incontrata dalla parola nel pronunciare: «non c’è altra parola che la semplice parola/ ma s’infinse di non sentire/ e mi lasciò con le braccia aperte/ credendosi il padrone che s’abbuffa di libertà/ e sputa servi incatenati / sono qui e non sono ammutolita e sciacquo il tempo/ per acquistare tempo/ commisurando le proposte sgradevoli/ all’incanto sottile delle sete» (p. 361); e ancora: «non ho accesso alla parola/ e quando con fatica dico fame/ faccio vento e non posso masticare// è un’ossessione la bocca/ poi che si mangia i denti e fa sputazza» (p. 418).
I versi-servi incatenati sono sputazza, conseguenza di un male che storcendo la bocca impedisce due funzioni legate alla bocca: il parlare e il mangiare. E siccome da sempre la parola è cibo per la Insana, essere colpita da un male che impedisce l’uno e l’altro significa essere colpita nella vita stessa che per estensione è vita dell’uomo. È una sofferenza fisica quella inflitta al poeta, una pena indicibile che comunque trova la maniera di essere detta proprio nel raccontare ogni difficoltà: parola e corpo, verbo e uomo, sono un’unica creatura che lotta contro il decadimento delle relazioni, della comunicazione, dell’isolamento messo in essere nei confronti di chi cercando la verità cerca pure di uscire dalla massa informe sempre pronta ad assentire col capo senza porre mai una sola domanda. Jolanda Insana, invece, non è ammutolita.
La tagliola del disamore (2005) è l’ultima raccolta pubblicata dalla poetessa messinese che prosegue nella nuova fase più distesa e narrativa del libro precedente raccogliendo le memorie attorno alla figura centrale della madre. La sua scomparsa è motivo e causa del riaffiorare di eventi che però non guardano al passato, bensì si muovono tra presente e futuro, nel tentativo di ricollocare i tasselli di un’esistenza, di una vita che ora di scontra con l’assenza, con la morte. «Queste memorie – scrive Emanuele Trevi – non “procedono” in nessuna direzione; semmai sembrano ruotare intorno a un perno fisso, una figura di madre-chioccia che consuma e sfibra la sua esistenza per proteggere e sostentare i suoi piccoli, evocata nel suo aspetto fisico e nel ricordo di una saggezza amara, votata all’autosufficienza e al disinganno, da trasmettere ai figli con la stessa premura del cibo» (p. 610).
La bestia clandestina raccoglie una trentina di testi nuovi, anticipazione di un libro che è ancora in fase di composizione; quella fase raccontataci da Emanuele Trevi dove i testi composti vengono appesi a delle cordicelle e fissati con delle mollette, come fosse un bucato steso al sole, o come dice Trevi «le banconote appena stampate» dei falsari. Questo mazzetto di poesie proviene da queste cordicelle e ci presenta ancora una volta una cifra arrabbiata: «biliosa concima orti chiusi/ sotto tettoie affumicate/ e quando si rifugia in cucina/ brucia i piselli e battibecca/ con il suo doppio condiscendente// affetta e rosola tranci di cuore/ e frattaglie palpitanti/ si sente in colpa e fa manfrina di lacrimeria/ ma nessun increspamento smuove/ la coltre di ovatta/ e per troppa fantasticheria sale sul patibolo/ sfascia ferite maleodoranti/ e s’affloscia/ fantasma» (p. 561).
La Insana non ha deposto la rabbia con la quale affronta la sua vita in versi; ora lotta col suo doppio e lo smaschera, lo spoglia di frattaglie e fantasticheria; lo mette a nudo e lo sconfigge fantasma.

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[pubblicato in alleo.it/SUN, gennaio 2009]