Quella che segue è la prima parte di un saggio breve di Gianluca Wayne Palazzo sui legami tra il cinema e la letteratura. Ci interromperemo, oggi, alle soglie degli anni ’50; vi aspettiamo domani qui, alla stessa ora, per un’analisi fino agli anni ’60. Buona lettura.
Il cinema è l’ultima grande forma d’arte che l’umanità abbia dato alla luce. La sua comparsa sul palcoscenico del mondo ha avuto un impatto senza precedenti nell’immaginario collettivo, certamente mai avvicinato nel secolo abbondante trascorso da allora. Nemmeno l’avvento dell’elettronica e del web è paragonabile all’urto che i film – le immagini in movimento – provocarono nel panorama culturale dell’epoca, approfittando della crisi delle strutture narrative del romanzo e del racconto, terremotate dalle avanguardie artistiche di inizio Novecento.
Ma la storia del cinema è anche la storia di un rapporto ininterrotto con le strutture letterarie che lo hanno preceduto, persino con quelle forme meno blasonate di intrattenimento – fumetto, musica pop, riviste scandalistiche e “dime novels” – alle quali generalmente veniva rifiutata la qualifica di arte.
Anche una breve ricognizione delle relazioni fra gli intellettuali italiani e il nuovo mezzo espressivo mostrerà dunque un processo di adattamento darwiniano, che parte dalla totale subordinazione culturale del film al romanzo, passa per una fruttuosa serie di interferenze reciproche, e giunge al contesto odierno, in cui la narrazione per immagini domina quale specie incontrastata. Ed è grazie a questo processo di selezione naturale che i narratori contemporanei, cresciuti in un reticolo mediale composito – fra tastiere, homevideo, web e serialità televisiva – possono saldare quel debito pregresso che il cinema aveva accumulato nei confronti della letteratura.
L’esplosione del cinematografo non ottenne un vero e proprio benvenuto nel mondo letterario italiano: fu piuttosto percepita come una volgare aggressione. Certo, la consapevolezza dell’innovazione e dell’impatto sociale provocato dal cinema fu subito evidente, ma in un comprensibile gioco di forza, e tutela dei propri interessi e privilegi, gli ambienti della cultura tradizionale restarono a lungo trincerati nella tenace negazione di ogni statuto artistico al nuovo fenomeno di massa. Anzi, tanto più la massa apprezzava, tanto meno gli intellettuali mostravano di gradire.
Vi furono, sì, critiche mosse con intento costruttivo, per lo sconforto e il rimpianto di veder sprecate le potenzialità messe a disposizione dal cinema in riduzioni di scarso livello; e a fianco dei detrattori non mancarono personalità capaci di intuire la rivoluzione che si preparava, in patria come all’estero: ma per ogni Tolstoj che si diceva pronto ad afferrare l’occasione di un confronto stimolante, per ogni Joyce consapevole dell’accelerazione irreversibile che la scrittura avrebbe subito a causa del cinema, e più avanti per ogni Thomas Mann che invitava i romanzieri a imparare dalle tecniche narrative cinematografiche, decine di protagonisti dell’intellighenzia – non soltanto nostrana – considerarono svilente la meccanica superficialità della narrazione filmica, e si limitarono a constatare il rapporto parassitario che nei primi decenni si andava sviluppando nei confronti della letteratura.
Romanzi e racconti divennero un serbatoio inesauribile cui attingere per scovare soggetti pronti all’uso, con un approccio che avrebbe rapidamente cannibalizzato il sistema letterario. In origine anche chi destinò attenzione al cinema commise l’errore di sottovalutare l’importanza della “scrittura” che soggiaceva al film, e focalizzò la critica sulla questione presto logora della fedeltà al testo originale, sull’impatto sociale del divismo o sui prodigi tecnici della nuova invenzione. A cavallo del primo decennio del Novecento all’intellettuale si chiedeva un lavoro di spremitura da poemi, romanzi o melodrammi, un canovaccio che avrebbe funzionato da spina dorsale e niente più.
L’incontro cruciale fra cinema e “cultura” in Italia fu innescato solo con la collaborazione diretta di Gabriele D’Annunzio, e segnatamente nel 1913 con la realizzazione delle didascalie di Cabiria da parte del poeta. Poco importava che si trattasse di una trovata commerciale o che le ragioni a monte dell’adesione da parte del Vate fossero – e sarebbero a lungo rimaste per tutti gli intellettuali che andavano accostandosi alla nuova arte – esclusivamente di carattere economico: il cinema pagava bene, e sovvenzionava una larga parte degli scrittori italiani. La maggior parte dei quali, poi, non si sarebbe fatta scrupolo di sputare nel piatto in cui mangiava, o persino di battersi affinché tale collaborazione non venisse esplicitata, negando fino in fondo la dignità di prodotto artistico alle opere da loro stessi concepite.
L’influenza estetizzante di D’Annunzio segnò a lungo un’ipoteca sul gusto del cinema italiano del primo Novecento. Il Verismo non riuscì a esercitare altrettanto fascino nell’industria cinematografica, ma lasciò tracce seminali che sarebbero sfociate nel grande dibattito sulle origini del fenomeno neorealista: lo stesso Verga ebbe rapporti continuativi col cinema, col pudore di chi si accosta ad ambiti compromettenti dai quali teme di uscire contaminato.
A ogni modo i tempi erano maturi perché sorgesse in Italia e in Europa un corposo dibattito fra intellettuali – in particolare a opera degli entusiasti teorici della scuola dei formalisti russi e dei più importanti cineasti sovietici dell’epoca – e si sviluppasse un interesse di carattere linguistico ed estetico, col quale il cinema si garantì i primi quarti di nobiltà. Sui quotidiani cominciarono ad apparire con una certa frequenza meta-riflessioni sul ruolo dell’intellettuale di fronte alle nuove sfide poste dal cinema, con articoli e rubriche affidate a scrittori o poeti di vaglia.
Anche Pirandello si espresse, stigmatizzando l’universo che gravitava attorno alla produzione dei film e manifestando inquietudine per la preponderanza dell’aspetto meccanico su quello umano, per le ipocrisie, l’odore dei soldi, i compromessi. Anche se la conseguenza naturale era la sterilità di ogni pretesa artistica del prodotto che ne derivava, i Quaderni di Serafino Gubbio operatore rappresentarono tuttavia un tentativo di comprendere come stesse cambiando il ruolo dello scrittore con l’avvento del cinema.
Pirandello collaborò a diversi film tratti dalle sue opere, produsse soggetti originali e non fu estraneo a stimoli di ordine economico. L’atteggiamento di sufficienza si aprì col tempo alle possibilità linguistiche del cinema, di cui seppe cogliere le potenzialità espressive per dar corpo e nuova linfa alla propria poetica incentrata sulla dialettica fra l’apparire e l’essere.
E del resto non vi fu praticamente scrittore dell’epoca che poté evitare un rapporto più meno compromettente col cinema, con un’adesione persino maggiore rispetto ad altri paesi. Fra i tanti, significativi furono i contributi di Corrado Alvaro, Guido Gozzano, Edmondo De Amicis, Dino Campana, Luigi Capuana ed Eugenio Montale.
Nacquero le prime riviste di critica cinematografica, come Bianco e nero e Cinema, e vennero esplorati contesti internazionali come quello della narrativa americana, che tanta influenza avrebbe avuto sugli scrittori nostrani e che più di ogni altra risentiva dell’influsso delle tecniche di racconto del cinema. Un momento cardine nell’avvicinamento fra i due fronti fu, nel 1927, la realizzazione di un numero monografico della rivista Solaria interamente dedicato alla questione e intitolato Letterati al cinema, che documentò un tentativo organico di legittimazione artistica del fenomeno.
Con l’arrivo degli anni Trenta il cinema diventò per gli intellettuali un universo di riferimento: in particolare chi veniva dalla provincia sottolineò come il proprio immaginario, la formazione personale e culturale, avessero risentito della frequentazione assidua e costante della sala cinematografica. Si attuò così una progressiva modellizzazione di una lingua propria del cinema, sempre più svincolata dai legami con la letteratura e consapevole delle caratteristiche specifiche del nuovo medium – ormai “nuovo” solo in termini di confronto.
Un ruolo da protagonista lo ricoprì Mario Soldati, che lavorò a lungo come scrittore per il cinema a partire dagli anni ’30 per poi passare alla regia. E a mostrare i segni dell’interferenza furono anche scrittori come Vittorini, Pavese e Fenoglio, che più si erano confrontati con la contemporanea letteratura americana – dove la straripante egemonia di Hollywood era esondata rapidamente nella cultura di massa.
Ma ci volle la fine della Seconda Guerra Mondiale, col Neorealismo, perché il cinema italiano raggiungesse un’indipendenza espressiva, una forza di invenzione tale da lasciare dietro di sé il romanzo contemporaneo, assumendo anzi un ruolo di traino ed esempio di cui la narrativa italiana finì per giovarsi. La potenza sprigionata dai film neorealisti modificò linguaggio e poetiche dell’intero cinema mondiale, ma influenzò anche le altre forme di scrittura artistica.
L’episodio cruciale si verificò nel 1948 col film La terra trema di Luchino Visconti, in cui Neorealismo e Verismo si amalgamarono sotto la direzione di un regista che era prima di tutto un raffinato intellettuale, originando un prodotto artistico affatto nuovo, che tagliava il cordone ombelicale col testo di origine – I Malavoglia di Verga. La stagione neorealista si rivelò ricchissima ma breve e la sua crisi investì sia il cinema che la letteratura. Dalle ceneri di questa parentela spontanea nacquero i frutti di una nuova teorizzazione critica ed estetica che avrebbe portato, nei decenni successivi, allo sviluppo di movimenti letterari e cinematografici in evidente rapporto di contiguità: l’École du regard e la Nouvelle Vague in Francia furono espressione di un’evoluzione convergente nella quale, di nuovo, furono i film a influenzare prioritariamente i romanzi coevi.
Fu in questa fase che il discrimine mai veramente violato fra cineasti e letterati perse di consistenza, e con sempre maggiore regolarità lo scrittore di nuova generazione, figlio della radio e del cinema, si fece sceneggiatore e persino regista – col corollario di un’abbondante adozione da parte della critica di strumenti metodologici mutuati dalla linguistica, dallo strutturalismo o dalla semiologia. Figura fra le più prolifiche e nume tutelare dell’ideologia neorealista fu il poliedrico Cesare Zavattini, che lavorò costantemente per superare la barriera che separava i vari media, utilizzando come referente unico la realtà nella sua semplice e inesauribile complessità. Gli intellettuali dovettero sentire il cambiamento d’aria viziata in stanze chiuse da troppo tempo, e se ne videro le tracce nell’inchiesta sul Neorealismo che Carlo Bo condusse per la Rai nel 1950: certamente gli occhi del mondo si spostarono sull’Italia e forse fu allora che il cinema venne definitivamente sdoganato in ambito culturale. Il terreno era abbondantemente dissodato perché fiorisse una generazione di registi capaci di imporsi con una personalità artistica marcata.
© Gianluca Wayne Palazzo