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Una frase lunga un libro #70: Carlo Bordini, Memorie di un rivoluzionario timido

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Una frase lunga un libro #70: Carlo Bordini, Memorie di un rivoluzionario timido, Luca Sossella Editore, 2016, € 10,00

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Il problema di ogni reduce. Lui crede che ha cambiato il mondo facendo la guerra, e invece il mondo è cambiato in pace, nel costume, ecc.. Ci sono altri dischi, le ragazze portano altri vestiti

All’inizio di questo libro, tra le avvertenze al lettore, Carlo Bordini scrive:

Tutte le irregolarità grafiche, grammaticali, ortografiche e sintattiche sono quindi volute. Mi riferisco ai capitoli che terminano senza punto, all’uso arbitrario delle maiuscole e delle minuscole, alle irregolarità nella punteggiatura, alle parentesi quadre, alle parole deformate; tutti accorgimenti volti al perseguimento di un impasto musicale fatto di dissonanze. Non si tratta infatti di refusi ma dell’uso di un linguaggio deformato, di cui ho creduto necessario servirmi per cercare di superare la piattezza dell’italiano televisivo su cui si basa il linguaggio letterario contemporaneo e per creare un impasto sospeso tra il sogno e la realtà.

Bene, c’è un’altra avvertenza che fa il recensore e che è molto semplice, riguarda il modo di porsi davanti alle pagine di questo romanzo autobiografico, ovvero di abbandonare la rigidità (non solo quella formale e lessicale) che pone l’occhio come primo ricettore delle parole scritte; per leggere bene il libro di Bordini bisogna aprire da subito anche le orecchie, bisogna immediatamente ascoltare la musica che viene già dalla prima parola, bisogna sdraiarsi o stare in piedi, bisogna aver cura della maniera che più ci consentirà di seguire il ritmo, perché se si indovina quel ritmo, il ritmo di Bordini, si comprenderà davvero ciò che questa storia personale rappresenta, un pezzo della storia di tutti noi. Leggere poi è sempre un fatto di ascolto, lo abbiamo imparato anche con le poesie di Bordini, tra gioco e profondità, abbiamo imparato l’ampia visione e la prospettiva, il campo lungo, lo sguardo profondo; le regole di Bordini sono le stesse, per niente rigide, sono flessibili e conducono alla scoperta.

Bordini racconta un numero congruo di anni della sua vita e di questo paese. Racconta senza paura l’incapacità d’amare, la sua. Che poi è comunque una capacità, ma irrealizzabile sulla distanza. Il narratore ama ma è più felice in certi momenti d’assenza, ama ma soffre, a volte non respira. Il nostro narratore non è mai sereno, scappa – naturalmente – ma sempre da se stesso. È in perenne lotta col sentimento e con la lucidità, è un scompenso ambulante, che tra timore e panico fugge, ma comunque non smette di cercare, e se non è l’amore è una carezza, e se non è un letto di una notte è il chiarore di un riparo. La ricerca continua di una spiegazione a ciò che non si spiega, che non è l’amore ma la sua completa accettazione, viverlo senza recare dolore. E invece si fugge la serenità appena la si intravede. E questo è un punto. Ci sono poi i viaggi all’estero, che era un altro viaggiare, un viaggiare sul serio, alla ricerca di tutto e di niente. Sono gli anni cinquanta, sessanta e settanta. «Tanto il romanzo finisce nel ’75. Tra non molto». La Svezia, in tanti a dormire in una stanza, le donne, gli scambi, i lavori nelle cucine, tutto era una continua scoperta. La Germania, avanti e indietro dall’Italia, per amore o altro, non importa. Trovare i soldi e ripartire di nuovo. Gli studi, le difficoltà, l’abbandono e la ripresa. La psicanalisi. L’ansia e il dolore, e poi la politica. Bordini e il Pci, Bordini trotskista, Bordini che raccontando questo aspetto importante della sua vita ci racconta un pezzo della nostra storia politica. La cosa bella, e qui conta la scrittura, è che il punto di vista è sempre personale ma lo sentiamo come collettivo. Comprendiamo Bordini quando abbandona il partito, capiamo le sue critiche ai dirigenti, li vediamo molto chiaramente quando li descrive, riconosciamo quelli che sarebbero venuti dopo, a non concludere come tutti gli altri. Bordini a Roma, Bordini alle manifestazioni, Bordini a Torino vero organizzatore. A Torino dove svolge vari lavori, la Torino delle fabbriche, delle lotte. Le città che cambiavano, le università, le lotte, il ’68.

Il giocattolo lo uccise il ’68 con tutta la sua carica di crudele novità, la crudele carica non prevista da nessuno, che scardinava tutti gli schemi, creava basi per futuri sociologi e futuri rivoluzionari, anche se nessuno se ne accorse perché lo rivestirono subito con un cappottino di vecchio rivoluzionario, gli misero in mano un fucile e una stella rossa sul berretto, cercando di esorcizzarlo e sussurrandogli: è vero che vuoi bene al papà e alla mamma?, e cercando di insegnargli a dire mam-ma, mam-ma, e lui invece a dire parolacce.

Il ritmo, lo vedete, le parole, il suono, la ricerca del linguaggio, il disegno personale che diventa paesaggio di tutti. È un romanzo che ipnotizza e allo stesso tempo ti culla, ti fa venire voglia di svegliarti. Bordini scrive che la sua è la storia di un disadattato, ma non lo siamo tutti? La vita non è altro che la ricerca costante di un equilibrio e molti sono i modi di cercarlo, si procede per tentativi, Bordini ci ha raccontato i suoi, ha richiesto la nostra attenzione, ha messo la sua storia al servizio del lettore, facendo fatica e mostrandoci di nuovo quanto sia mobile il linguaggio, quanto ancora lo si possa reinventare, rispettandolo senza averne paura. Memorie di un rivoluzionario timido è un libro che commuove, e ognuna di quelle frasi spezzate provoca una lacerazione che riguarda ciascuno di noi.

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© Gianni Montieri

Una replica a “Una frase lunga un libro #70: Carlo Bordini, Memorie di un rivoluzionario timido”


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