
La madre è seduta al margine della sedia. Penna e taccuino mangiano spazio alla tazzina del caffè, mentre il libro da cui prende appunti è disteso, aperto, sulle sue ginocchia. Ha provato a tenerlo dritto contro il tavolo sostenendolo con le mani, ma il libro è così pesante da averle indolenzito il polso. Ed è strano, pensa, se è vero che da un mese quel tendine è allenato a reggere un essere umano.
Così la madre sta, tranquilla, china. Lo sguardo a volte corre alla bambina; se potesse spiegare il movimento con cui suggerisce all’occhio di spostarsi, la madre direbbe che somiglia alla gittata con cui i serpenti sibilano la lingua. Ma la verità è che non è lei a dettare legge all’occhio. L’occhio sibila verso quel viso piccolo quanto una mano, quel naso minimo ma già definito e le ciglia lunghe, perfettamente umane, e non c’è niente che lei possa fare per impedirgli questa discreta, sibilante sorveglianza. Le avevano detto che una volta che avesse avuto un figlio il suo corpo, ogni molecola dentro il suo corpo, non avrebbe avuto altra occupazione che custodire il suo bene: e allora lei aveva immaginato quel bene come un panetto da stringere contro il vestito, e se stessa brancolante contro minacce temibili e improvvise. Nessuno l’aveva avvisata che invece ogni minuto si sarebbe riversato nell’altro, ciascuno completamente dotato di senso se lei avesse fatto il gesto giusto, se avesse ascoltato un impulso di sopravvivenza dieci volte più potente a quello cui era stata abituata dovendo preservare la sua sola vita. Nessuno le aveva detto che la sua mente si sarebbe gonfiata fino a inglobare la tenera, scapestrata autoconservazione e l’istinto superbo di tenere inchiodato al mondo quello che fino a un mese prima era stato parte del suo corpo. Il senso di colpa la assorda dalle due direzioni del tempo (avrà fatto? potrà fare?) come una ventata sbalestra il tragitto di un’ape operaia, e lei scende a patti con quella convivenza ogni centimetro che sua figlia conquista, ogni sutura del cranio che si prepara a saldarsi. Ora legge, mentre niente può distrarla, nemmeno la semplice verità del fatto che i suoi occhi a volte guardano altrove. Il suo corpo è un radar, un soldato lungimirante e addestrato. Sa che quello su cui poggia i piedi è un terreno, come sa che il lastricato sveglierà la bimba quando vi passerà con la carrozzina; quei giganti castani attorno a lei sono dei platani, e già si chiede se lei, cresciuta, apparterrà a quel popolo buffo che starnutisce a primavera; l’eco lontana di un pallone definisce il tracciato da evitare al rientro; la sua guancia misura l’intensità del vento per calcolare l’opportunità del ritorno.Ha l’istinto delle gatte ed è rimasta umana. Niente può distrarla dalla lettura mentre il mondo plasma la maniera migliore – sopravento, ecco, alla sigaretta dei vicini – per avere cura di lei. Può leggere come su una carta la corrente ascensionale che attraversa la carrozzina e coprire la sua fronte con un lembo della trapunta.
Solo ecco, improvvisamente, uno schizzo di colore le copre la visuale e la costringe ad alzare il naso dal libro. Un pappagallo verde, grande quanto un avambraccio, ha attraversato il parco per posarsi sulla cima del nespolo e adesso si piega per affondare il becco nelle piume del torace, come un umano che si tolga la giacca tornato dal lavoro. La donna spalanca la bocca e si imbarazza, perché per un attimo crede di star osservando qualcosa di intimo; ma subito pensa che la bambina deve guardare con lei, non può perdersi lo spettacolo di un pappagallo di città che torni a casa dal lavoro e si tolga la giacca.
«Guarda! Guarda il pappagallo verde, è sul nespolo, guarda!»
Le ha messo una mano sul petto, al di sopra del lenzuolo, e la piccola, ancora addormentata, cerca il contatto agitando tutto il corpo. La donna sa che non c’è niente che la bimba, a un mese, possa guardare. Sa che il suo sistema nervoso regola la fame e il sonno, e manda a volte piccole scariche alle braccia per segnalare che si sta svegliando. La sua vista è ancora appannata, inizia adesso a distinguere le ombre e ad adattarsi alle profondità. Se anche fosse interessata, non potrebbe guardare dove la donna le indica. E non potrebbe godere della stranezza di un pappagallo in città perché le è estraneo il concetto di città e soprattutto non ha la minima idea di cosa sia un pappagallo.
All’improvviso al donna si rende conto che esisterà un momento, un momento preciso, in cui sua figlia passerà dal non sapere cos’è un pappagallo al saperlo definitivamente. Accadrà con le tazze, con i libri, con il suo lenzuolo. Sua figlia saprà i colori e la terza dimensione. Sua figlia saprà che lei è sua madre. Quando sarà grande e le racconterà di aver visto con lei un pappagallo verde grande quanto un avambraccio svolazzare in città, sua figlia risponderà che è davvero strano incontrare in città un pappagallo verde grande quanto un avambraccio. Forse preferirà vivere in campagna, dirà la città è troppo caotica per me, vorrei degli animali. Addestrerà pappagalli, forse. Ci sarà un momento in cui imparerà a leggere, e alla donna sembra improvvisamente titanico arrivare a un punto in cui scorrere gli occhi su dei segni sulla carta permetterà di formare il loro equivalente in pensiero. La porterà a passeggiare in questo parco e avrà ancora paura che lei possa sbucciarsi le ginocchia. Starà ad ascoltare i suoi piccoli deliri da bambina come la più complessa delle conferenze. Essendo umana, si stancherà di ascoltare le sue continue lamentele sulle amiche che non la invitano a uscire. Fingerà di non ridere di lei quando lei si proclamerà la prima donna a essere innamorata, e quando lui o lei non la vorranno (sarà possibile un abominio del genere?), si sgolerà a ripetere che tutti prima o poi guariscono da questa ferita. Intuirà i suoi talenti e si sforzerà di scoprire per cos’è predestinata. Lei dirà: non mi va di portare l’ombrello. Dirà: ho preso una settimana di ferie, scendiamo a trovarti. Dirà: ma perché, perché non posso avere il motorino?
La donna spalanca gli occhi e toglie la mano dal torace della bimba. Lei si stiracchia. A volte, quando sta per svegliarsi, sembra quasi che sorrida.
Potrebbe giocare d’anticipo, adesso, e raccontarle tutte queste cose come se la sua mente potesse inguainarle in attesa di poterle elaborare. Potrebbe addirittura, pensa, leggere ad alta voce da libro che ha portato con sé e da mille altri che ha in casa e fare di lei l’embrione di un filosofo, di uno storico delle religioni, di un critico musicale. Oppure potrebbe azzerare i suoi impegni e restare a contemplarla, come altri fanno con le luci dell’albero di Natale.
Torna a leggere, invece, il libro steso sulle ginocchia e l’occhio pronto a lasciarsi distrarre. Lancia solo uno sguardo alla cima del nespolo da cui il lampo verde ha già migrato. Legge, e fa solo in tempo a stupirsi di come la sua concentrazione sia perfetta mentre una parte della sua mente appartiene a quella creatura addormentata, capolavoro senza seconde stesure, morbida pietra filosofale.
© Giovanna Amato