
Le donne i cauallier’: l’arme gli amori
Le corteſie: l’audaci īpreſe io canto
Che furo al tēpo che paſſaro i Mori
D’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto
Seguendo l’ire, e i giouenil furori
D’Agramante lor Re, che ſi die vanto
Di vendicar la morte di Troiano
Sopra re Carlo imperator romano..
Diro d’Orlando in vn medeſmo tratto
Coſa non detta in proſa mai ne in rima
Che per amor venne in furore e matto
D’huom che ſi ſaggio era ſtimato prīa...
Non so se esista una classifica degli incipit più fortunati, folgoranti e immediati delle patrie lettere; sicuramente dopo il primo verso della Commedia del sommo Dante, nella mia personalissima classifica, Ariosto segue a ruota, scalzando (e scalciando) di gran lunga il primo verso del primo sonetto dei Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca. Ovviamente il gioco finisce qui, ma è innegabile che quel primo verso, tutto chiuso nel più bel chiasmo che poeta italiano abbia mai partorito, dove chiare si palesano subito sia le direttrici della «poetica del diletto», sia direttrici di segno opposto che consegnano il poema invece a una lettura ben più critica della civiltà rinascimentale, sospesa appunto tra sogno cavalleresco e guerre sanguinose (il 1527 non è poi così lontano dal 1516), sia uno dei motivi che hanno reso immediatamente l’Orlando furioso un classico tra i classici.
È vero e noto che a tanto bel verso Ludovico Ariosto arrivò soltanto nel 1532, con la terza e definitiva edizione del suo poema (portato da quaranta a quarantasei canti), con le Prose della volgar lingua del Bembo pubblicate da sette anni e una nuova idea di lingua e stile che ancora, fortunatamente, non s’era fatta manierismo, ma che Ariosto sente necessaria per la sua opera, e non solo in virtù della moda petrarchista già impostasi sul piano teorico con gli Asolani, sempre del Bembo, e sul piano poetico con gli Amorum Libri Tres di Boiardo.
Eppure quel primissimo attacco che compie oggi 500 anni, quel «Di donne e cavallier li antiqui amori» annunciava già nel 1516 tutta la modernità del poema, portando, e non solo accogliendo, le donne in primo piano, come protagoniste-eroine, e come lettrici-uditrici, con uno scatto in avanti ben più lungimirante degli illustri precedenti, dei quali il più illustre rimane il Decameron di Boccaccio; Ariosto metteva sullo stesso piano, in modo paritario, i due filoni della tradizione alla quale si attingeva a piene mani: quello delle gesta dei paladini carolingi, tutto incentrato sulla guerra contro l’infedele, e quello arturiano, legato agli amori, ai sentimenti, che per tutto il Medioevo mai aveva trovato casa in un’unica narrazione. E tutto già nel chiasmo del primo verso, in quel «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori» che unisce felicemente l’esordio di Boiardo («Signor e cavallier che ve adunati»), tutto rivolto ai fieri uomini di corte, e necessario tributo da pagare immediatamente con il diretto predecessore di cui si vuole continuare la narrazione, con un sorprendente, e forse inatteso, rinvio dantesco, che non si limita al solo recupero della figura retorica: «le donne e’ cavalier, li affanni e li agi» (Purgatorio, XIV 109).
Si pensi a come dovette risultare spiazzante il personaggio di Angelica, dotata dall’autore di una tale libertà di azione e pensiero da sfuggire quasi sempre agli invaghiti e tenaci contendenti che di volta in volta duellavano per lei; lei capace di negarsi grazie al suo anello incantato, che le permetteva di sparire e apparire all’occorrenza; lei infine sposa a un fante di umili natali; una donna, insomma, capace di tenere testa a questi cavalieri a volte fin troppo cavalieri, in quanto antiqui (dove l’aggettivo si pone apertamente e polemicamente in antitesi con i “moderni”, ossia i cortigiani, destinatari dell’opera), incapaci di reggere la presenza di Amore.
Ed è proprio nel segno di Amore, o meglio della follia d’Amore che Ludovico Ariosto compie ciò che Boiardo lasciò in parte sospeso, assegnando ad Amore il ruolo totalizzante di civilizzatore, riscattando di fatto l’uomo rinascimentale dalla feritas per consacrarlo alla humanitas: quella fusione degli antichi cicli brettoni e arturiani che, memore della lezione del Boiardo che volle «racontare il prego e ’l grande onore/ che donan l’arme gionte con amore» (Orlando innamorato, lb. II, VIII 1), ora si spinge fino a far coincidere amore e follia: «Chi mette il piè su l’amorosa pania,/ cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;/ che non è in somma amor, se non insania,/ a giudizio de’ savi universale:/ e se ben come Orlando ognun non smania,/ suo furor mostra a qualch’altro segnale./ E quale è di pazzia segno più espresso/ che, per altri voler, perder sé stesso?» (Orlando furioso, XXIV 1).
Del resto, come notò a suo tempo Gioacchino Paparelli, tra il conte di Correggio e Ludovico Ariosto si pone in mezzo Machiavelli, sul piano intellettuale, e, aggiungo io, Carlo VIII in quello storico; tradotto significa che è cambiato il ruolo del letterato a corte, e l’animo dell’autore nei confronti della materia che si è scelto di trattare. La modernità non passa più attraverso l’esperienza delle liriche amorose raccolte negli Amorum Libri Tres, come in Boiardo, che poi abbandonò il suo Orlando innamorato dopo i primi canti del terzo libro, preannunciando in qualche modo la discesa in Italia di Carlo VIII e la fine di un periodo di pace per la penisola, bensì attraverso un atteggiamento maggiormente critico nei confronti della società stessa, come dimostrato dall’Ariosto autore di Satire, iniziate a comporre subito dopo avere licenziata la princeps del Furioso e proseguite fino al 1525, con la seconda edizione del poema già pubblicata (1521) e le Prose della volgar lingua di Bembo fresche di stampa, ma sicuramente note in parte ad Ariosto manoscritte.
Se osserviamo, non senza fatica, vista la mole dell’opera, nel suo insieme il poema non possiamo non notare come Ludovico Ariosto abbia offerto un vasto affresco della sua società, quella cortigiana, nel momento in cui, toccato l’apice, già sfioriva (un po’ come accade con il messaggio finale consegnato dal Sannazaro alla sua Arcadia): l’età dell’oro è irrimediabilmente perduta, e Ariosto ha ben compreso tutto questo assistendo a due momenti storici la cui portata tragica sconvolse la delicata stabilità politica italiana: la già ricordata discesa di re Carlo VIII di Valois in Italia nel 1494, che seppur fallimentare per il regnante di Francia segnò l’inizio di un periodo di guerre in Italia, e il sacco di Roma del 1527, che di quel periodo di guerre fu il culmine. Salvo poi, per tenere fede al disegno primigenio dell’opera, non voler guastare l’armonia raggiunta sin dalla prima stesura con il gravare il poema di funesti presentimenti, rinunciando nell’ultima revisione a inserire quei nuovi elementi che si possono leggere nei Cinque canti.
Sicché, afferma Lanfranco Caretti, «nel poema è proprio la sostanza morale dell’esistenza, illuminata da un sorriso esperto e sapiente, che si trasferisce e si rispecchia nel gioco estroso e solo apparentemente arbitrario delle sorprendenti avventure e delle romanzesche peripezie.»[1] Nel poema, perciò, i cavalieri fanno bella mostra di valori che se ancora avevano una qualche pertinenza in Boiardo (e ancor più nel Morgante del Pulci), ora in Ariosto hanno perso ogni validità, e anzi costituiscono il paradosso di una modernità involontaria: da sognatori a uomini pratici capaci di piegarsi rapidamente alle necessità del momento (Rinaldo e Ferraù sul dorso dello stesso cavallo all’inseguimento di Angelica), come un signorotto è capace di girare le spalle al vecchio alleato per stringere una nuova alleanza con chi fino a un attimo prima era il suo più acerrimo nemico; o il cortigiano che si dimostra ingrato nei confronti di chi l’ha servito con onestà e fedeltà. Pro bono malum, insomma: ricevere in cambio del bene fatto solo del male, e prendere tristemente atto di tutto ciò; prendere atto della perdita dei valori della humanitas conquistata con fatica alle resistenze della feritas; prendere atto di un vuoto morale, e palesarlo nel momento in cui in realtà si cela il tutto nel motto dell’insegna scelta, motto che a sua volta celerebbe – seguendo l’intuizione[2] di Alberto Casadei – una serie di citazioni bibliche tutte relative a un’identica situazione, ossia quella che invita «il giusto» a «difendersi dagli attacchi dei nemici malvagi, che sono soprattutto ingrati, e più specificamente denigratori e menzogneri» (Casadei), ovvero quelle figure negative che nella famosa xilografia di Francesco Rosso si nasconderebbero nelle serpi. Un elemento negativo, in sostanza, capace di incrinare l’armonia positiva del poema, sempre che si voglia continuare a leggere l’Orlando furioso come una distrazione, una lunga digressione inconcludente (una vera fine, per volontà dell’autore, non esiste) su amori improbabili capaci di intrattenere un pubblico avvezzo alla materia trattata.
Ma l’armonia nell’Ariosto è «legge dell’universo», mentre l’amore è «principio conservatore dell’esistenza», come ci ricorda Caretti. Arriveranno poi i venti della Controriforma (quando non le fiamme) a sedare ogni slancio puramente umanistico e ricondurre Amore in seno a un’idea più rispettosa di ortodossia sentimentale, seppur combattuta, come testimonierà l’animo inquieto e combattuto di Torquato Tasso. Saranno gli stessi venti però a portare lontano il seme della follia e a far sì che solo questa sopravviva, senza più cavalieri, paladini, guerriere, e infedeli; sarà allora Cervantes – che morirà esattamente cento anni dopo la pubblicazione del Furioso – e sarà Don Quijote. Dopo di lui saranno Borges, Calvino, Ronconi e Sanguineti e l’ultimo Pasinetti a ricordarci come il fantastico mondo ariostesco sia una continua allegoria dell’uomo moderno che ha bisogno della follia per sopravvivere a sé stesso.
© Fabio Michieli
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[1] Introduzione, in Ludovico Ariosto, Orlando furioso. A cura di Lanfranco Caretti. Presentazione di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1996, vol. I, p. xii.
[2] Alberto Casadei, Il «pro bono malum» ariostesco e la Bibbia, in Banca Dati “Nuovo Rinascimento” (www.nuovorinascimento.org), 23/10/1996 (nuovo formato 30/07/2009).
2 risposte a “Orlando500: pro bono malum”
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