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proSabato: Anna Banti, Un sogno

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Un sogno

Attraverso le persiane chiuse il mare arriva con una brezza leggera e, smorzando le fiamme mattutine del sole d’agosto, si china a lambire, sul pavimento, le lame dei riflessi. Nell’aria pulita della cameretta quella brezza batte sulle mura bianche e rimbalza al soffitto, sollevando invisibili riccioli che s’impennano e ricadono a risucchio silenzioso sul letto dove Paola dorme supina, coperta fino al mento dalle lenzuola fresche. Frustatine di piuma, quelle colate di vento sulla fronte: il sonno ne diviene più liscio, quasi trasparente.
Il sole è già alto, ma nel sonno di Paola albeggia appena: bianco riposo che accoglie le immagini ma non se ne lascia guidare ancora e non le lega. Vi compare la sabbia grigia, e quella cara lievissima orma dell’onda; né mancano il brivido dell’acqua verdolina e il sospetto, dietro quel vetro, del sasso che brilla, della tellina, della sogliola opaca. La mano ricorda, da sola, come si scremi il pelo dell’acqua, e il peso denso che all’immersione si fonde in freschezza e in vacuità. Il respiro tranquillo batte il tempo al sonno e alle immagini.
Quelle larve si illuminano a un tratto, in prospettiva. Una pupilla mascherata si è scoperta, un sipario si è rialzato: nell’aria suonano le campane. Il sogno appena nato scivola sulla gran pianura marina che allarga e distende il suono. Coll’eco tocca la spiaggia deserta, la timida lingua delle onde e sorpassa le prime limpidità, scorrendo poi sul verde e sull’azzurro. E incontra quattro vele bianche, ma le guarda già vicinissime, di sotto in su, non cogli occhi del vento e del suono. Sono vele di forma strana, rigide e delicate, intatte e sensibili. «Sono ali bianche» riconosce Paola, convinta dalla realtà della sua posizione di dormente, dirigendo cauta il suo sogno. Due angeli che sorvegliano il mare, a prua e a poppa, e hanno i dorsi nivei ripidi come montagne. La legge del sogno ha già tolto alla dormente la vista delle acque. Distesa, essa ha gli occhi sul cielo tagliato da quelle grandi ali; e la mano appoggiata al bordo del vascello, riconosce lo scabro di un margine marmoreo. Del resto la memoria lavora per conto suo, liberamente, e suggerisce in un cantuccio: “San Giuliano traversò il mare in un sarcofago, portato dagli angeli alla sepoltura”: ma ormai il sogno è gonfio di verità e sfida ogni controllo.
Viaggia così, nel marmo miracoloso, una martire inedita, convinta, attentissima. Nel sogno è possibile esser martiri senza ricordo di martirio, e senza merito sentirsi su una palma divina, scelti per merito certo; e intanto distinguere con occhi di spettatore, nella tomba eccezionale, un nobile corpo di alabastro, un sangue che è corallo schietto, le lagrime, perle fine. Attenti a non muoversi, a respirar piano e profondo come in convalescenza. Il privilegio è sicuro, il trionfo solenne, ma la percezione di questi beni ha una pienezza un po’ fragile e tesa, un po’ pericolosa. E infatti: ecco la coscienza della brevità del sogno tingere di umana melancolia l’estasi della viaggiatrice: soltanto una viaggiatrice, ormai, turbata al pensiero del porto. Navigando navigando in qualche luogo si arriva sempre, ragiona la ragazza che si deve destare; e la memoria a insistere “portato dagli angeli alla sepoltura”. Allora il brivido della mortale allarma la sicurezza della martire che, ferma nella sua morte, si mette angosciosamente a pregare. Non prega Dio; prega gli angeli che son vicini e forse le daranno retta come due marinai obbedienti. Dice: “Angeli, voltatevi un pochino, anche senza guardarmi, e manovrate le ali verso il largo. Sento che la riva è vicina perché le onde si fanno più grosse. La sabbia sarà infocata, e sotto l’altare dove mi metteranno non c’è un filo d’aria. Voi che volate, queste cose non le sapete. Portatemi ancora un po’ per questo mare verde come i campi del paradiso: fatemi vedere il brillio del mezzogiorno, la bonaccia delle tre e un bel tramonto: un bel tramonto solo. Di notte ci si potrà anche fermare sotto la luna. E poi non ho visto bene, stamani, come si leva il sole…».
Gorgogliano le parole, opprimendo il silenzio; ma il vento si fa denso e attrae le vele con un risucchio sonoro. Un urto definitivo: e l’immobilità del primo istante è già durata un secolo.

Il riverbero della spiaggia del sogno s’è mosso da un laghetto di sole che uno spiraglio delle persiane ha lasciato colare sul mento di Paola. Così lo strappo dell’arrivo fluisce in una vaga resurrezione che coincide col salire della addormentata, per falde sempre più tenui di sonno, al risveglio di ogni giorno. Attraverso le palpebre chiuse la luce, per grandi insensibili, è passata dal sogno alla realtà; madreperlacea prima, poi urgente. Ora un moto del capo porta il ciglio sotto il taglio del raggio di sole, e il risveglio è fatto compiuto.
Aperti gli occhi, sente ancora la giovinetta formicolante per le prode del letto quell’urto del sarcofago sul fondo sabbioso, e ne raccoglie l’ultima eco. Spento nella pupilla il barbaglio della spiaggia immaginata, l’occhio gode, nell’ombra, della propria freschezza, meravigliandosene un poco, senza sapere perché; così come il corpo, quasi sopraffatto dal benessere che il sonno gli ha lasciato, non si cura di muoversi, e senza ragione resta fermo, annegato in una calma incantata. Lo sguardo girando per le pareti e sul letto come un ovattato farfallone, apprezza e gusta ogni cosa: la schiumatura azzurra della penombra, le pieghe del lenzuolo di lino, la lucidezza dei legni. “Come tutto è a posto e va bene” ecco il primo pensiero, elementare, di Paola: che è troppo vicina al suo sogno per ricordarselo, ma ne gode ancora il ritmo. Un flutto di attività gioiosa si leva dalla sommaria constatazione: e già le palme aderiscono alla tela, preparando l’atto che darà leva al corpo e inizierà la giornata.
Ma un colpo misterioso – il cuore ha battuto più forte? – ripete come un’eco lunghissima, la causa del risveglio. Lontana, ormai disincorporata, la martire distesa nel sarcofago riacquista per un attimo i contorni, saluta, svanisce; e la memoria non più pendula, trasmette ora con esattezza, restituendo il quadro del sogno e stabilendone la filiazione dalle pagine della Legenda Aurea. Allora, mentre il meccanismo delle idee sta prendendo l’avvio sulla strada del ragionamento, l’animo sprigiona all’improvviso una nostalgia così alta e astratta, da fermare ogni impulso di vita. Le braccia ancora tese si allentano, gli occhi si riempiono di lagrime incontrollate: e il corpo, tranquillo, attende che le lagrime si asciughino, che il cuore riprenda il suo ritmo: con un rispetto non privo di cinismo.
A poco a poco, nella pausa che segue i sussulti della commozione, la mente vuota e attonita riceve gli avvisi della realtà attraverso una nebbia sempre meno opaca. Il grido di un pescivendolo, il chiacchierio di un gruppo di villeggianti mattinieri, i passi della domestica nel corridoio. I pensieri si rimettono per la via normale, un po’ lenti questa volta, quasi stanchi per quelle due lagrime che han contato come un gran travaso di pianto.
E cominciano i primi gesti della giornata, quelli stessi che ancora ieri Paola infilava un dietro l’altro, con una fretta cavallona di scolara ingorda di ricreazione. Ma cos’è, stamattina, questo levarsi posato, questa fluidità che ammorbidisce e distende il movimento, questo sentirsi gli angoli della bocca non più elastici e pronti all’espressione, ma come fissati da una serietà che parla col respiro soltanto: un respiro più profondo, consapevole? Ecco un gesto che invece di compiersi si estingue pian piano, non intorpidito, ma quasi coperto da una nuvole invisibile. Gli occhi, ingranditi, come succede nell’immediato risveglio, paiono denunciare uno sforzo del pensiero, ma la mente è invece, più che vuota, nuova, quasi nata ora, e l’impulso dell’azione, senza comando, vi si arresta, indeciso. Questa lentezza non è pigrizia: alla ragazza par di muoversi con una facilità tale che la fretta non ha più senso. Non c’è bisogno di saltare, stamattina, dal letto al lavamano. Le membra son così leggere che certo volerebbero portate dal venticello che non ha cessato di spirare: ma si deve usarne con discrezione, come per un impegno preso in una circostanza solenne. Sta bene: il polso è sottile, la caviglia snella; ma come son disarmati stamattina i suggerimenti della vanità! Graziosi giochi senza veleno, non hanno, in fondo che un significato di prestazione volonterosa e un apparato di pompa, di esaltazione disinteressata. Paola cammina con dignità come portasse uno strascico dietro le spalle. Gli oggetti più comuni sembrano preziosi, eletti. Il profumo del sapone è raro, va lontano, l’acqua scintillante si lascia cogliere e lasciare, senza peso, dalle mani, grigie nell’ombra: le stesse che hanno toccato, al riparo delle ali angeliche, l’orlo del marmo miracoloso.
Il viso gocciolante si ferma, come una luna, a specchio della catinella. Questa volta il ricordo del sogno è attivo, e cosciente il turbamento che ne consegue. Una soddisfazione segreta, uno struggimento squisito, un trasalire ineffabile per quel sogno che può voler dire tante cose. Inarcando ora la schiena all’indietro, nel pettinare i capelli, Paola si compiace della sua ombra che tremola nel vetro della finestra, esile, altissima. “Più alta ancora” pensa, “se alzo un braccio sopra la testa, così…”
Uno scoppio ovattato. È un nastrino rosa che per lo strappo del braccio si è staccato, sulla spalla, del tessuto che reggeva; e per constatare il malestro Paola alza per la prima volta lo sguardo alla spera del cassettone.
Dal cristallo che sotto il raggio di sole rivela la peluria della polvere, una giovane sconosciuta guarda fissamente. È rosea e bruna, rotonda e solida nel volto e nella carne scoperta. Gli occhi tranquilli son duri e sicuri: occhi d’un corpo che non ha sognato. Dall’animo e quasi dalle membra “vere” di Paola è come se un’onda altissima passasse e sparisse senza frangersi, lasciandola inchiodata a terra, pesante. In terra restano anche gli occhi, ora, col cruccio stupito di chi contempla i rottami d’un vetro prezioso; e sanno bene di appartenere alla ragazza florida dello specchio.
Ma è proprio in quell’istante che attraverso la piega nuovissima che le appassisce la bocca, un lembo del sogno troppo bello rientra per sempre in lei.

© Anna Banti, Un sogno in Itinerario di Paolina, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 2013 (Roma, Augustea, 1937)