
La New York di Goffredo Parise e, più in generale, il suo rapporto con l’America, costituiscono una parte importante dell’opera dell’autore veneto: la selezione di scritti autobiografici e giornalistici che oggi vi invitiamo a leggere lo testimonia e si collega, in parte, a quanto esprimeva Italo Calvino (da rileggere qui) negli stessi anni. Si entra così in alcune fra le pagine più interessanti del Parise non romanziere, attraverso alcuni reportage diversi fra loro: del 1961 i primi tre testi − lettere e appunti sparsi usciti postumi −, mentre risale al ’75 l’articolo in cui si accosta New York a Venezia e che apre a una serie di altri pezzi importanti apparsi sul «Corriere della Sera». Parise guarda agli Stati Uniti e in particolare a New York due volte (anche se nel ’61 il suo viaggio lo portò in Florida e in California) e la sua visione muta nel tempo. Una traversata di lavoro quella intrapresa per il produttore Dino De Laurentis nei primi anni Sessanta; di piacere o di esplorazione la seconda. L’abbuffata statunitense, tuttavia, e il desiderio di non perdere tempo, di vivere il più possibile l’esperienza newyorkese (non può non ricordare Emanuel Carnevali o Mario Soldati, in questo) si placherà in seguito: viene meno, cioè, l’urgenza di conoscere la città, i bar, gli angoli, di intraprendere relazioni fugaci; anche l’età è differente: nel ’61 Parise ha trentadue anni, nel ’75 ne ha quarantasei. L’approccio è, tuttavia, coerente: quello di un letterato che opera una re-visione. Parise si pone come un attento osservatore, in grado di cogliere negli “oggetti” al centro delle sue opere dagli anni Settanta – come riferisce anche Silvio Perrella nella prefazione al volume Rizzoli – gli strumenti per interpretare un luogo ma anche un sistema culturale. Per rifiutarlo e confutarlo, ripensarlo e aggiornarlo ai tempi (anche ai propri tempi letterari), Parise si serve di “dettagli”: è lì, infatti, che alberga il senso da restituire al lettore successivamente, con l’acutezza di chi è in grado di leggere le cose ma soprattutto − e prima − di chi sa leggere i sentimenti umani, le persone (i suoi Sillabari risalgono a quel periodo). Gli anni Settanta e Ottanta sono quelli dei viaggi nel mondo e dei reportage più significativi tra cui vi è anche L’eleganza è frigida («Corriere della Sera» e poi Milano, Mondadori, 1982), in cui protagonista è invece il Giappone, scorciato sempre da una prospettiva personale. Parise parlava già di America nei racconti de Gli americani a Vicenza (del 1956 ma pubblicato da Scheiwiller nel 1966) e, fra gli altri, anche in alcuni scritti critici di Quando la fantasia ballava il «boogie» (Milano, Adelphi, 2005. Qui, ad esempio, un pezzo su Robert Altman incontrato alla Biennale Cinema presumibilmente nel 1982).
New York “caput mundi”: la città desolata, assorta nella propria “cultura pop”, è il simbolo e il cuore del paese, il punto di partenza e d’arrivo per comprendere gli Stati Uniti in quel momento (e, forse, anche dopo). La relazione con gli spazi, le persone, la sessualità, ma anche il vuoto e soprattutto l’oggettivazione che l’autore fa della realtà sono cruciali in queste pagine. Restano esclusi dalla scelta pubblicata qui alcuni passi su Harlem, che meritano uno spazio a sé stante. Il lettore incuriosito, tuttavia, potrà trovare nel volume le considerazioni sull’incontro con la popolazione afroamericana, il graffitismo e molto altro ancora. In coda a questo post anche un’intervista RAI che si riallaccia ai temi accennati. Segnalo infine il volume di Pino Dato, L’ultimo anti-americano. Goffredo Parise e gli Usa: dal mito al rifiuto (Roma, Aracne, 2009).
© Alessandra Trevisan
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N.Y., 20 marzo
Caro Vittorio,
arrivati ieri in questa folle città […] L’idea migliore è stata quella di venire in questo albergo che, come tutta la città ha l’aspetto babilonico di una tomba. Subito fin dall’entrata mi sono imbattuto in due donne di mezza età che parevano finte: vestiti finti che assomigliavano a quella carta crêpe dai colori inesistenti in natura: azzurrini, rosa fragola chiari, rosso lacca, rosso rossetto, e nel fondo dominante il nero. Un nero lacca da bara, come le porte della stanza, che si presentano veramente come quelle porte bronzee delle tombe di famiglia, sempre socchiuse nei grandi cimiteri. La serratura è d’argento, o di metallo argentato, con piccoli bassorilievi di sfingi o cose del genere, così da far pensare a una reale persistenza del macabro in tutte le cose: mi spiego sommariamente che questo macabro derivi da una mancanza di aggressione erotica, in sostanza da mancanza di eros. Infatti, passeggiando ieri a Broadway ho trovato un mucchio di bottegucce con aria di bazar in liquidazione, piene di oggetti di gomma o di plastica: tette finte, donne intere di gomma, da gonfiare, col buco tra le gambe, salamini di gomma rossa, che si chiamano “sigari di gomma” ma il cui uso è fin troppo chiaro, perfino cinture di castità all’uso antico ma fatte di latta ignobile e dorata, con relativa chiavetta: per uomo e per donna l’allusione erotica è continua ovunque, ma fa veramente pensare alla morte perché non un volto, non una espressione, non un corpo di donna, una bocca, degli occhi esprimono sensualità autentica, ma alienazione evidente di questa sensualità e quindi impotenza, frigidità.
[…] ho trovato quasi subito una stranissima consolazione: devi pensare che in questa città il rumore è pressoché eterno e quasi astratto; è un rumore ininterrotto, di clacson, di motori, un rombo cupo di sotterranea che i primi momenti ti stordisce, poi finisce per annebbiarti il cervello in una sorta di torpore cupo simile alla sbornia: ebbene, in tutto questo rumore, compresso tra le altissime mura dei vecchi grattacieli, più forte di tutti i rombi di motore e di subway perché più caro alle orecchie, un cinguettio diffuso, di migliaia e migliaia di uccelli nascosti nei cornicioni degli edifici, nei buchi, sotto le finestre, che so io.
[…] dopo cena, siamo andati al Village: niente di niente; luoghi, case, bar, ritrovi, di evidentissima derivazione europea (parigina) una specie di Saint-Germain des Prés, locale.
……Ma quale squallore, quale solitudine e quale provincialismo! A Parigi il Quartier ha un senso, come Pigalle, mentre il Village, con le sue strade deserte, qualche bar con qualche brutta puttana (ma due o tre, non centinaia) non ne ha alcuno. Solo gli edifici che ospitano questi bar sono uguali a quelli di Parigi, ma molto più vecchi, cadenti e sporchi. Tutto sommato N.Y. è una città veramente sporca e vecchia. Ad eccezione dei grattacieli (quelli nuovi, perché i vecchi sono ricchissimi e cupi e spaventosi come non ho visto uguale – stazioni termali di infiniti piani -) tutto il resto della città ha casette, casette di due o tre piani, vecchie, logore, annerite di fumo e fumo e fumo.
[…]
Ieri a spasso per il quartiere italiano e di nuovo intorno alla Bowery, dove ho visto la cosa più assurda e più allucinante della mia vita: un enorme palazzo, quasi un grattacielo, costruito forse venti anni, trenta anni fa, completamente vuoto, abbandonato e in rovina. Era un albergo a poco prezzo. Siamo entrati in una sorta di cortiletto interno, ingombro di vecchie reti arrugginite, vecchie molle di divani, di poltrone, tutto abbandonato da chissà quanto tempo. L’edificio, forse trenta piani, è intatto, se non per l’usura del tempo della pioggia e dell’abbandono. A Milano sarebbe una casa di lusso. […] Un falansterio enorme di buchi, stanze, bagni, cessi, un immenso cadavere di Gulliver lasciato a marcire sulla strada. Impressione veramente sinistra. Ma del resto basta lasciare i grattacieli del centro per avere questa impressione. Basta non lasciarsi abbagliare dal falso fasto dei grandi edifici di Park Avenue, della Fifth Avenue e girare un poco fuori da questo centro per rendersi conto di quale enorme tristezza offra questa città. Il quartiere italiano per esempio, vicino a Chinatown, non è altro che un immenso blocco di queste case di cui ti parlavo all’inizio, tutte uguali, grigie, rossastre, coperte di fuliggine, di polvere e di sporcizia: una immensa sporcizia, quale non ho mai visto in nessuna altra città al mondo nemmeno nei quartieri arabi: perché alla sporcizia si aggiunge la miseria morale, i giorni che seguono i giorni in schiavitù assurda e inconoscibile, che non si spiega; in una nera e tetra malinconia senza speranze.
da Odore d’America, Milano, Mondadori, 1990 e in New York, Milano, Rizzoli, 2001
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Parecchi anni fa attraversai l’America in automobile e non scrissi mai nulla: era un America d’ordine e non “sonava” come si dice, o il mio orecchio non udì. Più tardi cominciai a viaggiare in Europa orientale, Russia, Cina, nel Sud Est asiatico, e a visitare, in diverse occasioni, i Paesi socialisti del mondo. In ognuno di questi paesi la presenza dell’America sia politica che bellica era molto forte. Ma presenza politica e bellica non vuole dire conoscenza […] in tutti quei paesi socialisti dov’è la presero dell’America esisteva solo politicamente e non tangibilmente (cioè con oggetti dell’industria americana) quel grande paese continuava e continua anche oggi ad essere mito: appunto il mito della macchina, della tecnologia, dei beni di consumo, dei colori e dell’abbondanza. La scoperta dei grandi freezers dove conservare, senza limiti di tempo, un bue fatto a pezzi è uno degli ultimi mesi di materialismo dall’America in Italia: il tempo anche le più dimenticate campagna del nord dell’Italia i contadini chiedono aumento di energia elettrica per mantenere quell’obitorio. […]
Ma altri miti sorgono e debbano sorgere cadere per lasciar posto ad altri ancora secondo, appunto, le leggi del consumo e l’uso dell’energia vitale. Così la spirale si allarga: al vertice di questa spirale sta l’America o per meglio dire il way of life e tutto ciò che l’industria leggera americana produce: è importante l’industria leggera americana perché invade il cuore e le menti degli uomini in tutte le parti del mondo con la sua filosofia dell’utilità e della pratica, cioè della materia: […] i blue jeans, le magliette stampate, i sessi di plastica, gli psicoanalisi, le parrucche contro le calvizie […]
……Se l’America è al vertice di questa spirale, chiamiamola così, coloniale, New York è il cervello del vertice […]
……Ho scelto di stare tre mesi a New York profondamente convinto che questa città, al contrario di quanto dice la convenzione, è la mente radiante, la vera capitale del Nuovo Impero e il cervello e il volto degli Stati Uniti. Che poi altre città e paesi e campagne degli Stati non assomiglino a New York, che New York sia un unicum e sotto molti aspetti una città perfino europea questo non soltanto è ovvio ma rafforza la mia tesi che essa rappresenta tutta l’America così come un solo stilema rappresenta un autore […]
……Due parole sulla città, del resto conosciutissima […] di New York si sa tutto, fotografie di New York si vedono dovunque, charters vanno e vengono, il cinema fa il resto. Ma i sentimenti degli uomini (così io credo) non sempre stanno alla briglia delle immagini fotografiche o cinematografiche o delle parole degli stewards; spesso anzi si fermano e si concentrano su particolari impossibili da catturare in toto, se non con la parola detta o scritta, vecchio rimasuglio artigianale che stenta a morire. Così certi vecchi catrami colanti da strade e rosicchiate porte di New York, dimenticati e ormai inesistenti da anni, dai tempi della guerra, in Europa; o mezza bombola, una mezza gitana anni Quaranta e un letto rotto semisepolti da polvere sottile come talco in un desolato e immenso appartamento disabitato da chissà quanti anni, con tendine verdognole che sventolano su finestre senza vetri; o un revolver mangiato dalla ruggine e deposto da un ignoto omicida (o suicida?) sotto l’arcata d’acciaio di un ponte, sono la vendetta (povera vendetta) che il particolare si prende sul generale.
Così si può dire che, a dispetto della sua funzione (caput mundi) New York è, insieme a Venezia, cui non troppo stranamente somiglia, la città più bella del mondo. Ci sono momenti e ore a Venezia, di luce perpendicolare o radente, prive d’ombre, durante le quali la città si colloca nello spazio nell’aria tale da apparire un oggetto prismatico e non reale, una sorta di astratto diamante trafitto da bagliori interni, puro oggetto di contemplazione. Sono i momenti in cui l’esteta tocca con mano il miraggio. Così New York produce effetti di estetismo puro ma le somiglianze, le affinità figurative e storiche non si fermano qui. Il mare, sulla punta di Manhattan, ha lo stesso odore della laguna; il cielo è spesso annuvolato e rosato, grattacieli e avenue hanno, tra di loro, le stesse proporzioni e armonie (e funzioni) delle alte case e palazzi di Venezia e le calli; la babele architettonica ha uguali origini e ripetizioni; l’amalgama umano, il meticciato bianco e quello nero provengono da origini ed emigrazione equivalenti: la presenza di un porto con immensi traffici commerciali, la richiesta e l’offerta di manodopera, il fiorire di sempre nuovi mercati sotto la bandiera della libera iniziativa e della concorrenza, la fortuna e il declino così delle merci come delle botteghe e dei magazzini, alcuni dei quali stanno lì, neri e vuoti, con qualche macchina da cucire e il vento di mare sibilante da una finestra all’altra. Un afflusso magmatico, disperato e pionieristico di molte razze e gruppi etnici, sconosciuti tra loro e spesso nemici […]
Entrambe le città nacquero su un’isola, sabbiosa, paludosa Venezia; di trachite (la pietra più dura che esiste) New York. Se Venezia decadde ed è ora, da molti anni, nella sua splendente mummificazione, una città in vitro, New York mostra con violenza e grandezza i segni della sua stessa decadenza (nel giro di ben pochi anni) ma in corpore, e l’impasto al tempo stesso fatiscente e brutale della sua vita quotidiana, anni 1975-1976, è il maggior trionfo a cui l’esteta moderno, se ancora ne esiste uno, possa ambire.
Venice in «Corriere della Sera», 1976; New York, Venezia, edizioni del Ruzante, 1977 poi Milano, Mondadori, 1989 e Milano, Rizzoli, 2001.