I primi di giugno di quest’anno, Guido Barbieri, voce storica di Radio Tre e Coordinatore artistico della Società Aquilana dei Concerti “B. Barattelli”, mi ha proposto di scrivere un testo per i “Cantieri dell’Immaginario”, la rassegna di eventi culturali nata per valorizzare il centro storico dell’Aquila, in via di ricostruzione ma ancora ferito dal terremoto del 2009, e insieme per restituire quella vivacità artistica e intellettuale che caratterizzava la città prima del sisma.
Sarei stato coinvolto in particolare in uno spettacolo, fissato per l’8 agosto e intitolato “L’orologio della città nuova”: un misto di letteratura-teatro, musica, danza e immagini attorno al tema del tempo, in cui ognuno degli autori coinvolti si sarebbe dedicato a un’ora, e in quell’ora avrebbe descritto la vita della città (dunque i segni del disastro, ancora visibili, imprescindibili, ma anche la determinazione a rinnovare il tessuto di relazioni danneggiato, il desiderio di tornare comunità coesa e solidale, l’impazienza di riprendere a godere della bellezza dopo aver tanto penato dietro all’emergenza).
Nella mente di Barbieri, il progetto, ambizioso, quasi visionario, prevedeva il coinvolgimento di tanti scrittori quante sono le ore del giorno; il numero dei partecipanti è stato poi ridotto drasticamente a tre (Francesco Niccolini, Maurizio Cerini e il sottoscritto), immagino per questioni di budget, ma non è escluso che in futuro l’idea originale venga ripresa.
Lo spettacolo itinerante, sotto la regia di Maria Cristina Giambruno, si è tenuto dapprima nei cortili di tre importanti palazzi storici di recente restaurati (Palazzo Cappa, Palazzo Cappa Camponeschi, Palazzo Paone: al mio testo credo sia toccato il secondo): un luogo per ognuna delle ore prescelte tra le ventiquattro del giorno. Barbara Esposito e Fabrizio Croci hanno letto i testi; la parte musicale, che non si limitava a un semplice accompagnamento delle parole, era affidata ai componenti dell’Ad Hoc Ensemble.
Alla fine della serata, i tre momenti sono stati ripresi all’Auditorium del Parco, in una sintesi spettacolare in cui alla musica e ai testi si sono uniti anche il racconto per immagini realizzato da Roberto Grillo e le coreografie curate da Alessandro Certini e Charlotte Zerbey.
Insomma, quello che segue è il mio contributo. Non nego di aver lavorato di fantasia, nel situare all’Aquila le mie pagine, dal momento che mi era impossibile raggiungere l’Abruzzo in tempi brevi da Aosta. Non nego nemmeno di aver curiosato nel materiale che il web mette a disposizione, soprattutto in mezzo a centinaia di fotografie, e di avere fatto tesoro dei consigli dell’amica Fabiana Piersanti, che all’Aquila lavora, oltre che dello stesso Guido Barbieri. Per trarmi d’impaccio, ho lasciato che un paio dei miei soliti personaggi un po’ sfuggenti un po’ petulanti percorresse quegli spazi al posto mio andando per così dire alla deriva – e mi sono concesso qualche sterzata verso il fantastico, che non guasta mai.
Pare che gli aquilani che hanno assistito allo spettacolo si siano ritrovati negli aspetti, nei dettagli, nei colori, nello spirito insomma del mio piccolo contributo. Qualcuno, mi si dice, si è pure commosso.
(Le foto che corredano la presentazione sono di © Massimo Denaro)
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La musica dalle finestre
di Claudio Morandini
Ore 19.00 – Dopo tanto tempo, mi imbatto nell’amico Fabrizio in Corso Vittorio Emanuele. Mi saluta di fretta, butta lì una scusa e si defila subito – capisco che non vuole fermarsi a parlare. Pazienza, mi dico, lo seguirò di nascosto, giacché a quest’ora non ho mai niente da fare.
Fabrizio è un vecchio aquilano in pensione, che si è sempre mosso tra ponteggi e barriere come in una passeggiata, anche quando non avrebbe potuto farlo. Ne ha viste tante, è solito dire ridendo, e da qualche annetto cerca di rendersi utile. Utile a chi, ho fatto in tempo a chiedergli una volta. Ma lui ha subito cambiato discorso.
Ore 19.03 – Allora, partiamo, lui avanti di una ventina di passi, io dietro, furtivo. Bel passo il vecchietto, complimenti. Io, dietro, faccio in tempo a vedere sui lati le impalcature simili a fondali barocchi, dietro a esse i portici bui, come quinte di teatro, e davanti le ruspe e i camion bianchi come statue da fontana berniniana. Di corsa, l’amico imbocca Corso Federico II. Sorrido ai colori incongrui che le altre città non hanno – quelli delle barriere new jersey, delle reti di recinzione – e alle belle facce paonazze delle pubblicità sulle transenne. Fabrizio devia per piazza del Duomo, vasta, vuota, tutta ombre lunghe, e rallentando leva appena il naso sulle facciate di Santa Maria e del Duomo; quindi sparisce in via dell’Arcivescovado, dove non sai più se quello che intravedi è l’antico depositarsi del tempo o l’effetto del recente sfregio. A testa bassa imbocca via Roio, si infila in via Seminario e in via San Marciano, passa per strade che hanno solo facciate solide e mute, finestre sbarrate, portoni chiusi. Poi, inaspettatamente, torniamo su via Arcivescovado, dove lui rallenta, e così faccio anch’io, per sentire il suono dell’aria tra le reti di recinzione e le barriere estensibili – ma non è questa la musica che gli interessa.
Ore 19.15 – «Che fai, mi segui?» mi chiede d’improvviso, e quasi gli sbatto contro.
«No, io…» farfuglio. «Cerco certe cose…»
E lì per lì mi invento che mi attirano le vie da percorrere veloci, magari dopo avere scavalcato una transenna, un reticolato, perché là, proprio là in fondo, ci sta una formella antica, un’edicola rinascimentale, o una vecchia cartoleria in cui da bambino mi rifornivo di quaderni e gomme.
«Sì, sì, va bene» ammicca lui, che non ha nemmeno il fiatone per il gran correre, mentre io sto per stramazzare. E mi invita a stargli accanto, perché non c’è tempo da perdere in chiacchiere.
Riparte a correre poi su via San Francesco da Paola, piena di automobili, come del resto tutte le altre strade, auto di tutti i colori, che quasi mettono allegria, anche se costringono a continue gimkane. Chissà dove andiamo.
Ore 19.25 – «La senti la musica dalle finestre?» si ferma Fabrizio dopo via Garibaldi, in una zona che conosco poco. «Qui si suona ovunque. Già al tramonto si entra nelle case vuote e si tira fuori lo strumento dalla custodia. Una breve accordatura, e via. Si usano le onde sonore dei violini e degli oboi per saggiare la solidità delle pareti. L’ho fatto anch’io, con la mia fisarmonica.»
Chissà chi ha avuto per primo l’impressione che le vibrazioni degli strumenti sanino le ferite delle case, rimarginino gli sfregi, riassestino le masse, riequilibrino le precarietà. Quell’impressione con il tempo è diventata certezza: così in città da qualche tempo suonano proprio tutti, con attenzione, con misura. Alcuni, appena possono, suonano anche fuori, nei cortili, nelle vie, indirizzando gli strumenti verso le piaghe, le mortificazioni. Lo fanno di nascosto, e senza permesso, perché entrano dove non potrebbero entrare, si piazzano in punti pericolosi, se un vigile gli fischia dietro scappano. Altri, che non sanno suonare uno strumento, portano in giro vecchi giradischi a pile, nelle carriole, e sono pronti a coprire il tutto con un telo se qualcuno passa a controllare. Gli abbienti affittano trii, quartetti, li fanno accomodare nei palazzi sofferenti, discutono anche sul repertorio con i musicisti, insistono che Mozart va sempre bene, invece da Stravinskij in su si destabilizzano le colonne portanti. I poveri si contentano di un bambino di prima media con il flauto dolce di plastica, e gli dicono di soffiarci dentro quel che gli pare.
«Che strumento hai con te?» mi chiede l’amico.
«Veramente, nessuno. Non ero pronto, e…»
Lui mi guarda perplesso, scuote la testa, simula un po’ di delusione.
«Prendi questo, allora, io ne ho un altro», e mi allunga uno scacciapensieri. «Non mi farai lo schizzinoso, adesso» ride per la mia esitazione.
Ma non ci si dedica solo ai concertini, all’ombra delle case. Fabrizio mi parla di amici che la sera, giocando in modo un po’ decadente sulle sinestesie, vengono a spargere profumi. Passano con boccette piene, che aprono vicino alle crepe, o con mazzi di fiori appena raccolti, con vasetti di spezie, e lasciano che gli odori si liberino, salgano, cauterizzino.
«E chi non ha sottomano strumenti, o profumi, ma vuole lo stesso dare una mano, resta a parlare alle case, o ai monumenti» insiste Fabrizio. «Lo fanno con discrezione d’altri tempi, e solo quando nessuno sta guardando. Allora girano per le vie, si fermano accanto alle statue inclinate, consolano e rincuorano le sculture, se ci arrivano con le mani accarezzano i busti, i musi delle statue equestri. Li si sente appena, e solo se si sa che cosa fanno. Se li interrompi, fingono subito di essere lì per altro, si mettono a cercare una monetina per terra, o fingono di avere una pessima vista, di aver creduto di parlare a una persona viva, al cavallo di un calesse, non a una statua. “Capisco adesso perché non mi rispondeva”, dicono, e ridono, prima di andarsene. Si nasconderanno dietro un angolo, dove aspetteranno che tu sia passato, per tornare subito dopo alle statue, ai cippi. L’ho fatto anch’io, sai, un mucchio di volte.»
Ore 19.40 – «Ma le vedi, le erbe che continuano a crescere sui muri, dai muri, dal nulla?» mi dice Fabrizio – dove siamo ora? Non lo so più. «Si nutrono di polvere e sole, mangiano detriti, mettono su famiglia in un niente.»
Così li vedo, attraverso i cancelli forzati, deformati, in certi giardini privati non ancora recuperati che sono diventati piccole selve compatte, i rampicanti impazziti che si protendono ovunque, avidi, verdissimi, e si lasciano scapigliare dai colpi di vento, per tornare subito dopo ad aggrapparsi tenaci ai muri, e a salire, a salire verso i tetti. Se incontrano una finestra rimasta aperta vi entrano, allungano i germogli a spirale sui pavimenti e i mobili fino a ricoprirli, quindi strisciano in altre stanze, colonizzano anche quelle, senza fretta, e solo se dentro è troppo buio rinunciano, solo se dalle crepe dei muri non filtra nemmeno un raggio di sole.
«A volte» mi dice Fabrizio, «nella loro avanzata sui muri delle case, forzano una finestra chiusa, e andando per tentativi la aprono e la scardinano, poi si tuffano dentro, negli androni, nei tinelli, nelle cucine, nelle camere. È uno spettacolo.»
Fabrizio scavalca un’inferriata precaria, entra in quello che una volta era un piccolo orto urbano, si fa strada allegro a manate, verso la porta.
«Per di qua» mi grida, e io seguo il muoversi delle piante, pungendomi tutto.
Ore 19.59 – «Non sono le uniche creature ad avere acquisito una nuova vita, qui in città. Stasera, se vuoi, ti porto in un angolo nascosto da cui possiamo vedere il mostro sfilare.»
«Il mostro?»
«Il coso, l’elefante, hai presente? Non sei qui anche tu per lui?»
Fabrizio mi spiega: pare che di notte lo scheletro dell’elephas meridionalis, dopo essersi ricomposto chissà come, abbia preso l’abitudine di uscire dal Forte e cammini solenne e scricchiolante per le vie dove qualche ora prima gli aquilani si sono dedicati volonterosi allo struscio. Si abbevera poi alla fontana delle novantanove cannelle – o meglio crede o finge di farlo. E se piove, corre voce che si ripari sotto le volte di Santa Maria di Collemagno o a San Bernardino. Chi lo ha scorto lo ha trovato distinto nella sua goffaggine, e lui lo sa. Se si imbatte in qualche nottambulo, l’elephas si acquatta contro un muro e non si muove più, nella speranza che lo si prenda per un escavatore.
«Le hai notate le sue orme?» Fabrizio indica certi graffi regolari sull’asfalto. «Ma mi sembri scettico. Ne riparliamo tra qualche ora, dunque: tu, giovanotto, non hai ancora visto niente.»
Correre gli deve essere venuto a noia, perché l’amico fa un salto, abbranca un rampicante dopo averne saggiato la robustezza e sale sopra i tetti. Lo seguo, che altro posso fare?
La città sembra riposare, da quassù. I tetti caldi, bianchi di sole e di polvere, tengono nascoste le ferite. Sopra di noi, sempre, i bracci ronzanti delle gru, altissime, le benne in attesa di qualcosa da agganciare, qualunque cosa.
«Certe sere i tetti non mi bastano, e allora mi arrampico su una di quelle gru» racconta lui, respirando a pieni polmoni: «mi appollaio su un contrappeso, e ci resto fino alla mattina, quando il manovratore non mi fischia dietro e a gesti mi dice di scendere.»
Claudio Morandini, giugno-luglio 2014