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Goliarda Sapienza: scrivere per il teatro

Goliarda Sapienza, Tre pièces

Goliarda Sapienza,
Tre pièces e soggetti cinematografici
Introduzione e cura di Angelo Pellegrino
La Vita Felice, 2014

€ 14,50

in libreria dal 16 ottobre 2014

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«Non ti spaventare, animella tenera e smarrita! Non ti spaventare! Tutto questo è per noi: i morti sono per noi. Non ti spaventare: per voi è tutta un’altra cosa in questa vita e dopo la vita.»[1]

Recita così una battuta di Anna, protagonista di La grande bugia, prima delle tre pièces teatrali di Goliarda Sapienza, fino a oggi inedite. In questa battuta e nella locuzione che la precede, «voi del Continente», si palesa tutta Goliarda Sapienza e il suo rapporto sia con la morte sia con la scrittura che è la manifestazione della gioia di vivere. So che può sembrare un paradosso ciò che ho appena affermato, eppure basterebbe soffermarsi un solo istante sulla prima poesia scritta da lei, quella A mia madre che, seppur seconda nell’ordine, apre in verità Ancestrale perché è la prima poesia a essere stata composta in assoluto dalla scrittrice, nella piena consapevolezza di volersi concedere alla scrittura poetica. E ora, ancora una volta, la scrittura si apre con una riflessione sulla morte.
Ciò che però possiamo scoprire grazie a questo nuovo volume, che insieme ai tre testi teatrali raccoglie pure tre soggetti cinematografici e il canovaccio per un quarto dramma tratto da L’Università di Rebibbia, è un elemento in più del profilo complessivo (e complesso) della scrittrice, poiché il primo amore vero che fu per lei il teatro (e per il quale lasciò la Sicilia per spostarsi a Roma nel 1941), seguito dal secondo amore che fu il cinema, si uniscono ora col grande amore della sua vita: la scrittura. E se grande fu la sorpresa, poco più di un anno fa, per l’uscita delle poesie raccolte in Ancestrale, pubblicate dopo decenni dalla loro stesura e sistemazione, immenso è ora lo stupore nel ritro­varsi tra le mani quest’altro capitolo della creatività di Goliarda Sapienza.
Affidato alle cure di Angelo Pellegrino, che fu suo marito, e che da sempre si spende affinché di lei si possa conoscere ogni sfaccettatura, il volume si apre con una breve, ma ricca di notizie accuratamente selezio­nate, introduzione che ha il difficile compito di fare luce su queste pagine totalmente avvolte dall’oscurità. E così veniamo a sapere che La grande bugia è un dramma in due atti pensato e composto appositamente per Anna Magnani, e a lei dato in lettura confidando, forse ingenuamente, in una reazione entusiasta che avrebbe comportato rapidamente all’allestimento. L’effetto ottenuto invece fu di segno nettamente oppo­sto, con una Magnani indignata nel vedersi ritratta probabilmente con elementi che appartenevano al suo privato – noto a Goliarda in virtù di una conoscenza diretta e di un’amicizia non profonda, ma nemmeno così superficiale – frammisti ad aspetti che appartenevano al carattere e al vissuto della scrittrice siciliana. La pièce segnò, perciò, sia la fine di un’amicizia sia la condanna all’oblio (uno dei tanti) del testo stesso. Evi­dentemente, come detto prima, la Magnani scorse qualcosa di troppo personale, se non addirittura biogra­fico, che l’amica aveva riversato direttamente nel testo; qualcosa che si rifletteva nel rapporto messo in scena tra il personaggio della protagonista, l’attrice Anna, e il figlio sacrificato alla fama; qualcosa che a prima vista non s’allontana molto, o quanto meno va oltre al banale richiamo di un famosissimo film in cui la Magnani stessa recitò, Bellissima.
E qui capiamo subito come anche la scrittura teatrale attingesse da quel grande e unico palcoscenico che fu la vita per Goliarda Sapienza. Sia chiaro, non vita vissuta recitando un personaggio diverso ogni volta da sé stessi: ma vita ritratta nel suo più intimo essere e divenire, senza distinzione che si trattasse della sua vita o di quella d’altri, perché di vita si trattava e di essa sola si doveva, poteva, parlare con massima onestà e massima (forse troppa) fedeltà. Nessun compromesso con la finzione, perciò, nel teatro; nemmeno se que­sto avrebbe permesso di superare la rigida struttura del teatro classico, sicché le unità (aristoteliche) di luogo, di tempo e di azione si ritrovano rispettate prima ancora che come scelta stilistica, come espressione connaturata all’idea di teatro che Goliarda Sapienza portava con sé per eredità degli anni catanesi: un vero e proprio imprinting. Non sono poche del resto, da quel che mi è parso di capire, le pagine dei taccuini, uti­lizzati anche da Giovanna Providenti, biografa della scrittrice,[2] in cui ci viene descritta una poco più che bam­bina alle prese con interi copioni, o estasiata innanzi al teatro dei pupi; per non parlare dei molti aned­doti su di lei intenta a “recitare” i film appena visti dal cinematografo per quegli amichetti che non vi pote­vano entrare, film che inevitabilmente si appiattivano nell’unica dimensione dell’azione recitata, e perciò nella forza della voce.
Ed ecco allora che acquistano una luce ancora più intensa le parole di Peppino Sapienza custodite in una lettera alla figlia, prossima a salire sul palco nei panni di Dina, dal pirandelliano Così è (se vi pare), nell’inverno del 1942: «Vedrai, avrai un trionfo, se la parte, come dici, è bella e si presta: se no, parla tu, creala tu!– Dalle la tua anima»[3] (mio il corsivo).
Sempre divise in due atti si presentano pure le altre due pièces: La rivolta dei fratelli e Due signore e un che­rubino.
Difficile, per ammissione dello stesso Pellegrino, datare con esattezza La grande bugia e Due signore e un cherubino; mentre risalirebbe al clima generale degli anni della contestazione (non solo giovanile) La rivolta dei fratelli, la cui «favola si svolge nel lontano 1969», come riporta un’indicazione volutamente inserita nel testo; e dove quel “lontano” non dovrà essere inteso come indicatore di una distanza temporale (e perciò di una composizione avvenuta molti anni dopo), quanto piuttosto della lontananza dagli ideali portati in scena dai personaggi del dramma, la stessa lontananza che, a ben vedere, aveva assunto Goliarda Sapienza rispetto alle contestazioni mentre lei era intenta a comporre e rivedere il romanzo L’arte della gioia.
Risalirebbe, infine, alla seconda metà degli anni Ottanta, o al massimo ai primissimi anni Novanta, Due si­gnore e un cherubino, ossia la pietra tombale sopra ogni velleità mondana di un’ormai isolatissima scrit­trice, tutta presa dal riempire pagine e pagine di taccuini, capace però di rappresentare ancora una volta uno spaccato della società che lei osserva da distante, quella spenta mondanità decaduta di una ricca si­gnora, forgiata sulla figura di Marta Marzotto, e una povera ma più che talentuosa scrittrice. Insomma, an­cora una volta una finestra che guardava a qualcosa che proveniva direttamente dalla vita di Goliarda Sa­pienza, nel crepuscolo della luce sulla sua vita.

© Fabio Michieli

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[1] Goliarda Sapienza, La grande bugia in Ead., Tre pièces e soggetti cinematografici. Introduzione e cura di Angelo Pellegrino, Milano, La Vita Felice, 2014, p. 25.
[2] Giovanna Providenti, La porta è aperta. Vita di Goliarda Sapienza. Con un saggio di Stefania Mazzone, Catania, Villaggio Maori Edizioni, 2010 (rist. 2014).
[3] Goliarda Sapienza, Tre pièces e soggetti cinematografici, cit., p. 5.

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