Raffaele Castelli Cornacchia
L’alfabeto della crisi
(Italic Pequod, Ancona, 2013)
Non è certo un azzardo fare il nome di Ezra Pound ancora prima di cominciare a parlare di questa raccolta di Raffaele Castelli Cornacchia: i Cantos e soprattutto il XLV, quel With Usura che in alcuni di noi forse risuonerà nelle orecchie per averlo ascoltato a qualche ora insolita alla radio, o ripescato più banalmente nella rete di Youtube, rimbalzano più volte nel fitto tessuto di questa nuova raccolta di Castelli Cornacchia. L’alfabeto della crisi, un alfabeto inverso, dalla Z alla A, è canto civile, è fotografia dei tempi. Con questa raccolta il poeta rivendica il suo ruolo nella società che da decenni ormai ha relegato lui e la poesia in un angolo buio, per pochi cultori eletti (spesso senza primarie), e racconta la crisi in ogni sua sfaccettatura; perché non è solo l’economia a essere in crisi: è la società, è l’uomo a non saper più trovare un punto di riferimento, una paio di coordinate utili, quasi non ci fossero più macerie da puntellare e con le quali ricominciare a costruire presente e futuro.
Ma è proprio la poesia a sgretolare i pochi muri rimasti in piedi, scindendo ogni singola parola per ricomporla in flussi continui di parole che si inseguono in componimenti a catena; perché non ci troviamo di fronte a singole poesie assemblate, ricomposte in una silloge, bensì a componimenti articolati in più parti/movimenti (da un minimo di due, Vero, a un massimo di dieci, Zero parole; ma i più tripartiti) nei quali sembra a volte di riconoscere un procedere simile a quello della canzone morale classica, dove si annuncia il tema nella prima stanza per poi svilupparlo nelle successive.
E se tutto questo può far venire il sospetto di essere posti innanzi a una poesia raziocinante, cerebrale, affatto lirica, sappiate che non c’è spazio per il lirismo puro quando la poesia è un’invettiva costata l’estremo sacrificio dell’io, spersonalizzato per effetto di una spoliazione discesa dall’alto («Quanto costa caro, tutto quello che se ne sta nascosto/ sotto questa terra/ così battuta dalla pioggia/ di questa notte veglie e fresca di città/ […] / e si potessero immaginare/ quanto costano i frutti della terra e dell’acqua e quanto costa/ il profumo dei pini svettanti e dei prati senza pietre quanto/ quanto rendere ai padroni dei guardiani i loro favori/ chiamati prestiti/ quando non richiesti così/ con un sorriso amaro e un po’ di farina nell’acqua/ giornate che lievitano come pane e l’autografo di idoli e di eroi», Zero parole, I).
Con una lunga requisitoria Raffaele Castelli Cornacchia sbatte in faccia a tutti la realtà dei fatti, così come non avveniva dai tempi di Franco Fortini – e, anche in questo caso, non è scomodare un altro mostro sacro per dare una patente di nobiltà a questa raccolta di poesie.
Versi potenti, dilatati oltre ogni misura se è il discorso a richiedere tutto lo spazio necessario, incalzano il lettore e lo costringono al silenzio e alla riflessione («come se la storia non insegnasse che la storia si ripete/ sempre giunge all’appuntamento sempre col vestito giusto/ sempre come un costume…», Zero parole, II), a valutare anche le incongruenze tipiche della poesia, e perciò anche di questa poesia.
© Fabio Michieli
Vero
– la demagogia –
I
. Che forme faranno, quei sassi lanciati nell’acqua
quando scorre veloce e forma degli anelli
che partono dal lago di che forma, che diametro
di che colore e per quanto tempo la promessa
quella di un lancio propiziatorio e casuale
presente nell’orecchio di chi gli s’avvicina
negl’occhi speranzosi e illusi di chi passa
e si china, a cercarne fra i canneti l’impronta
la prova circolare del voto d’una promessa
che corre veloce verso valle, senza memoria
sprecando lanci pieni di Atene e di Sparta
cercando di corromperne il flusso della corsa
l’odore naturale di una falsa libertà
di un falso amore di muschio e di schiuma.
.
II
. Hanno la forma dell’ombra d’un corpo sulla riva
le onde cullanti che s’allontanano dall’idea
fissa, che ogni buco nell’acqua faccia rumore
e una fetta di pane bianco a ripararli
i trapezisti e i pagliacci del grande circo
sulle rive d’un fiume che non è certo un lago
non è l’infinito mare di praterie d’acqua
mossa dal vento di pensieri con il passo svelto
portata da una brezza di buoni propositi
increspati come sono certe discussioni
e folli come tutti i geni inascoltati
le prede nelle reti, i raggi senza riflesso
che vanno vicino al mare. Ma solo vicino.
.
Quale
– il lavoro –
I
. Pagami alla fine del mese, mia regina a ore
leccami la mia faccia con la tua lingua amaranto
che non vivo per altro lo sai che per il mio di turno
il mio nascere spossato dal travaglio del tuo ventre.
. Sputami dal suolo che aro strisciando solchi di tacchi
ondulati come vermi che divorano il passaggio
di chi mi segue come bandito dalla sua tavola
e allora lasciami nudo, nella schiuma giù al fiume.
.
II
. Occupami tutto il tempo col vendemmiare la tua vigna
disseminata diritta per la strada in fila indiana
e dammi tu il senso che altrimenti io non avrei
che altrimenti non potrei, e che non vorrei, mai avere.
. Annegami nelle lame dei tuoi coltelli affilati
nelle colate del fesso fuso che prendeva le forme
delle gemme di un tempo e gambi di fiori nei cannoni
e lasciami nudo, fra i vapori dalle ciminiere.
.
III
. Afferrami i bicipiti, rassettami i capelli
custodisci negli anni il nostro tesoro di leggi
di regole e di soldi tuoi che altrimenti non avrei
e che altrimenti non dovrei, consolarmi mentendo.
. Accarezzami con le parole suadenti che crepitano
come foglie d’autunno o come orologi a cucù
delle valli che soffiano il calore secco dei forni
e lasciami nudo, così, come fossi fatto di pietra.
.
Baciami su quello che ho di più caro
– le banche –
III
. Dolce sarcofago ozioso l’usura
che è soltanto l’immorale intento
d’approfittare del bisogno altrui
nel non avere più campi e lucciole
allo scopo d’abusare di quei corpi
che fanno le sanguisughe nei fossi
e i vecchi che s’orinano sui piedi
per ottenerne per prima la promessa
e poi i vantaggi e le prestazioni
i latrati e gli amplessi repressi
e ci sono mute porte scorrevoli
che accolgono a braccia spalancate
le ricchezze, le paure, le povertà
le aspirazioni da Sacra Famiglia
allo scopo di diluire il sangue
del vostro lavoro e dei vostri furti.
Raffaele Castelli Cornacchia (Castiglione delle Stiviere 1964) vive a Brescia; è insegnante, poeta e autore di testi teatrali. Oltre a L’alfabeto della crisi, ha pubblicato le raccolte di poesie Via Milano (Lampi di stampa, Milano, 2012; secondo classificato al Premio Letterario Nazionale Anna Osti 2012), A meno che (Ennepilibri, Imperia, 2008). Ha pubblicato il romanzo breve Il pacco di Durante (Robin Edizioni, Roma, 2006) e il libro per piccoli lettori Gli abitanti di Colle Bianconero (EdiGiò, Pavia). Suoi lavori appaiono in lavori collettivi e antologie (Lampi di stampa, Giulio Perrone, LietoColle, Fiori di campo) e riviste (Inciquid de iQuindici della Wu Ming Foundation).
Una replica a ““L’alfabeto della crisi” di Raffaele Castelli Cornacchia (Italic Pequod, 2013)”
L’ha ribloggato su asSaggi critici.
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