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La morte in comune: cinquemila battute (o quasi) sul dolore (degli altri). Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi

Questo è un focus sul primo di tre documentari di Alina Marazzi, di cui vi parlerò anche nelle prossime settimane. Li voglio segnalare o ricordare, perché lo meritano.

Assenza

Assenza, 
più acuta presenza. 
Vago pensier di te 
vaghi ricordi 
Turbano l’ora calma 
e il dolce sole. 
Dolente il petto 
ti porta, 
come una pietra 
leggera.  

Attilio Bertolucci, Sirio, 1929.

Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi* è ben più di un film: è un atto di coraggio vitale nei confronti di una perdita, un processo di accettazione ed auto-accettazione, la postuma elaborazione di un lutto con cui non si sono (quasi) mai fatti i conti. A dieci anni dalla sua realizzazione – e a vent’anni dal suo concepimento, o per meglio dire gestazione perché sì, è a tutti gli effetti un’opera filiale – Un’ora sola ti vorrei è ancora uno di quei documenti che pongono chiunque ne fruisca dinnanzi a quella condizione di ‘riconoscibilità’ nel manifestarsi del dolore che è di tutti, quel partecipare ‘privato’ che si fa pubblico, in linea con l’allerta nei confronti del ‘noi’ espressa da Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri. Parlare della vita così com’è significa anche valicare quel confine complesso, amplificare il ‘collettivo’, metterlo a fuoco e sfocarlo allo stesso tempo, per porre alcune vite in relazione.

Luisella (Luisa) Hoepli, per tutti Lìseli, nasce il 4 giugno del 1938 e muore suicida nel maggio del ’72, dopo alcuni anni di clinica forzata e cure antidepressive. Bellissima nipote dell’editore Ulrico Hoepli, appartiene ad una nota famiglia borghese di Milano: trascorre un’infanzia protetta al riparo dalla guerra ed un’adolescenza agiata alla scoperta del mondo; poi, un amore canonico anche se sentito nel profondo, il matrimonio con l’antropologo Antonio Marazzi, e la nascita dei due figli Martino e Alina. A testimonianza di tutto ciò foto, diari e soprattutto pellicole d’epoca conservate nella soffitta Hoepli per trent’anni: un’eredità destinata ad Alina (oggi regista molto apprezzata nel panorama italiano), affinché condensasse l’esistenza materna in qualcosa che ancora non si sapeva, per spiegarla e spiegare a se stessa quella mancanza.

Catalizzare i sentimenti e le emozioni, tramite una narrazione per immagini che somiglia al processo psicanalitico in sede d’analisi: il film vivifica repertori d’epoca attraverso una scelta affettiva, rimaneggiandoli in un montaggio frutto di associazioni mentali inconsce, istintive; la voce che ci accompagna in questo viaggio è quella di Alina, “doppio della madre” che sposta anche sul piano dell’ascolto il desiderio di capire chi si è attraverso il corpo (materno), frammentato, lontano, diviso, sconosciuto, come lo è il proprio già. Un’allucinazione acustica dunque, le parole di Lìseli e la voce della figlia:

Mi guardo bambina e cerco un indizio, una traccia della donna che sarei diventata. Forse quello che diventiamo lo siamo già da subito.

Questa frase da sola esprime la vitalità di una donna che delinea la propria vita con la scrittura (potrebbe averla detta ogni donna), che capisce il sé e il rapporto con gli altri e gli “antri del sé” attraverso lo scrivere, pratica che le permette dunque di perimetrarsi, di dire chi è, una logica che sembra aderire a quella dei diari – ancora una volta – di Susan Sontag:

Il diario è un mezzo per darmi un senso d’identità. Mi rappresenta come emotivamente e spiritualmente indipendente. Perciò (purtroppo) non registra semplicemente la mia vita concreta, quotidiana ma piuttosto – in molti casi – ne offre una alternativa.

Il dover essere e l’essere: potere e dovere, due verbi che plasmano il corpo delle donne come fosse creta (si veda a tal proposito Volevo essere una farfalla di Michela Marzano, Mondadori, 2011, di cui si è parlato qui). Un disagio incolmabile, che si dipana nelle pieghe, nel non detto in famiglia e nel detto altrove, in sillabe, sentori, umori; il doppio e il gioco dello specchio. Il ‘corpo universale’ qual è quello femminile è sezionato nella sua interezza, c’è tutto e dunque la memoria è riconsegnata: il dubbio dell’inadeguatezza sin dall’adolescenza e il rifiuto dei codici borghesi; il disagio nelle relazioni familiari e sentimentali; il matrimonio e la maternità psichica (parzialmente) mancata e dunque la frustrazione del materno (si veda Una madre lo sa di Concita De Gregorio e Nell’intimo delle madri di Sophie Marinoupolus); la depressione che porta irrimediabilmente alla fine. La reminiscenza ricucita s’insinua in una figura complessa, incompresa, che sceglie suo malgrado la pazzia come manifestazione del sé, come unico modo d’essere prima delle battaglie femministe, condiviso da molte altre ragazze all’epoca; un’esplosione mal(n)ata degli esiti che di lì a poco si sarebbero avuti. Marazzi, nel volume abbinato al dvd riporta questa testimonianza cruciale:

Una volta, una protagonista del movimento mi disse: Noi eravamo quattro sorelle. Ho visto come sono bastati due o tre anni di differenza per far sì che i nostri percorsi fossero completamente opposti, pur provenendo dalla stessa famiglia, dalla stessa situazione e condizione. Ho visto come quelle subito prima di noi spesso siano cadute nella follia. L’unico modo per ribellarsi anche provocatoriamente, a un ruolo, a un destino di sottomissione, è stato esprimere questa irrequietezza con la follia.

Quante immagini in questo passaggio [che io trovo tra i più interessanti a completamento del documentario]; ognuno pensi ai propri riferimenti, letterari e non, e li riconnetta. Il dolore, quello, è rimosso, poi elaborato, infine affrontato in pieno per affondare nella catarsi, per trasformare “l’assenza in più acuta presenza”, per definirla, darle un nome e un volto (e si legga a tal proposito, infine, il recente volume Così è la vita di Concita De Gregorio). E, per meglio dire, in questo presente scandito dalla crisi delle appartenenze Alina ricostruisce un’appartenenza elementare, qual è quella con il corpo della madre, quale è quella con le persone.

*Un’ora sola ti vorrei, Mikado Film Italia 2002, Rizzoli 24/7 libro+dvd

© Alessandra Trevisan

12 risposte a “La morte in comune: cinquemila battute (o quasi) sul dolore (degli altri). Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi”

  1. Bellissimo il documentario della Marazzi, proprio perché il dolore è “donato”, e laddove crea “imbarazzo”, c’è e lo restituisce, semmai, in sincerità, quasi scavalcando, se possibile, il “discorso dell’arte”, ma comprendendolo. Saluti, Giampaolo

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  2. Ho visto stamattina, casualmente, in tv il documentario e mi sono innamorato di quegli occhi! Occhi e sguardo che hanno pari intensità e assenza; mi ricordano quelli del mio amico Umberto che ha percorso simile vita ed ugual fine. Vorrei carezzare Tua madre ed il mio amico di infanzia, vorrei avere potere divino per far riviverli con il giusto ritmo di una vita normale. Grazie per averci regalato la Vostra intimità facendola diventare nostra emozione. Saluti Giustiniano

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  3. Ho visto per ben due volte il film/documento. Tenero, angosciante, vero. Cosa farei per riportare in vita Luisa. Con le cure di oggi, forse si sarebbe salvata, sarebbe guarita. Dalla depressione se ne esce. Ecco il messaggio per tutti coloro che ne soffrono. Grazie per averci dato la possibilità di farci conoscere una persona così sofferente, malinconica, dolce, indifesa. Chiunque di noi potrebbe trovarsi in simile situazione. Con grande tenerezza si è affrontato un delicato spaccato di vita….

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