In un racconto uscito qualche mese fa, dal titolo in apparenza desolato, Tre orfani (Edizioni Casagrande 2021), Giorgio Vasta si dimostra innanzitutto un bravo prosecutore di una certa linea di scrittura che parte da Kafka e attraversa la grande letteratura sudamericana sotto l’etichetta di “realismo magico”. La storia si apre infatti con un evento assolutamente straordinario, impossibile, accolto però dal protagonista con una naturalezza quasi routinaria («[…] quella che all’inizio avevo percepito come l’increspatura di un quotidiano sempre identico a se stesso si era subito ripianata», p. 10). Il fatto inaudito è l’apparizione nella sua nuova casa di due grandi personaggi di Melville, lo scrivano e il capitano: «[…] ognuno seduto su una sedia ai lati del tavolo, ho trovato Achab e Bartleby» (p. 9). Lo sconvolgimento del lettore è quindi attenuato dalla familiarità delle due figure, magari al punto da pensare che l’autore si appresti ad affrontare i propri fantasmi letterari e tormenti di scrittore, in un confronto teatralizzato con due capolavori del passato. E invece non accade nulla di questo, il metaletterario è pressocché evitato, e i due personaggi entrano pienamente, con le loro caratteristiche, nel gioco della narrazione. Conosciamo bene Bartleby, eroe della rinuncia, che qui rinuncia anche per conto del protagonista, prima deselezionando le mail in attesa di risposta e perfino cancellando quelle non ancora lette (p. 12); poi depennando con un frego nero tutti gli impegni dall’agenda, «le cose da fare che un giorno dopo l’altro, agglomerandosi, avevano formato un endoscheletro» (p. 16); infine bloccando e rimuovendo i contatti di WhatsApp, cancellando la lista dei messaggi, eliminando l’interminabile archivio delle foto (p. 20). Di fronte a questa inarrestabile disciplina della cancellazione dei dati, il lettore non può non percepire, insieme allo sbigottimento della pagina e dello schermo bianchi, anche un qualche sollievo, altro non essendo quel gesto che un I would prefer not to trasferito nell’epoca del virtuale, della messaggistica istantanea, dell’esser sempre pronti alla chiamata. Vale ormai per tutti noi la sensazione che, nel pozzo nero dei nostri cellulari, un archivio di memoria indistinta, caotica e smarrita possa diventare in definitiva un archivio senza memoria. Ed ecco invece che tutto quel togliere sembra consentire «il ricomporsi di una naturale verginità del tempo» (p. 16): preferirei di no, moltitudine di cose da fare, infinite trascurabili cose da rimpiangere e ricordare. Quanto ad Achab, non meno famoso, anzi di più, gli riconosciamo caratteristiche opposte rispetto a quelle dello sbiadito scrivano, la sua determinazione e ambizione di andare oltre i limiti dell’umano, pur di sfidare nuovamente la Balena. Intorno a lui il testo si sconvolge e increspa di metafore marine: «strofinava il polpastrello del pollice sul marmo del tavolo, come a riordinare lo scompiglio delle venature, quei minuscoli marosi che si scuotevano immobili sulla superficie minerale» (p. 9); «Achab se ne stava affacciato alla ringhiera come alla tolda di una nave, le mani serrate al ferro battuto» (p. 13); «[…] strofinava il polpastrello del pollice sulle striature del marmo, levigando quell’oceano rettangolare» (p. 21); «[…] la ripeteva facendo delle parole onde, inventando il mare con la voce» (p. 24); «i profili delle palazzine che si diradavano lungo le pendici del Monte Cuccio, e che nella lontananza di incurvavano come scafi, ogni scafo nitidamente incrostato di cirripedi» (pp. 24-25); «e avevo avvistato i tentacoli rigidi delle antenne televisive, quei loro corpi di mostri marini, e i pannelli solari grigio scuro, inclinati come lastre d’acqua buia, e le cisterne azzurre in cima ai tetti, simili a cuccioli di capodoglio» (p. 25). Eppure proprio il suo agonismo lo avvicina a Bartleby, risultando in definitiva un agonismo dell’immobilità, e cioè un’ossessione. Insomma, questi due inquilini imprevisti ed inquieti, che si aggirano liberamente per la casa, Achab ritmando il suo passaggio con i colpi sul pavimento della gamba matta, di legno, fanno a un certo punto capolino nella vita del protagonista, e in qualche modo gliela rivelano.
Andiamo quindi al protagonista, che risulta essere una foto perfettamente mossa dell’autore. Leggiamo che è il giorno del suo cinquantesimo compleanno, e che è andato ad abitare in una nuova casa, di cui sappiamo perfino l’indirizzo: «Alle sei del mattino di giovedì 12 marzo 2020 sono entrato nella cucina ancora in penombra della casa palermitana in cui abitavo da due mesi e mezzo» (p. 9); «[…] eravamo seduti davanti alla ringhiera del terrazzino che si affaccia sul retro di un condominio di via Re Federico 115, a Palermo» (p. 29). Ci viene confermata anche la fisionomia piuttosto inconfondibile di Vasta: «[…] avevo pensato che si rivolgesse a me, che da quando non ho più i capelli – sono trascorsi sedici anni – percepisco la mia testa come qualcosa di esorbitante» (p. 13). L’elemento magico-realistico è così accolto e assorbito nel quadro di un’autofiction paradossale: Giorgio Vasta, nato a Palermo il 12 marzo 1970, residente nella stessa città in via ecc., ci racconta di quando un giorno, nella penombra mattutina di una cucina palermitana, ha visto apparire Achab e Bartleby. Malgrado la straordinarietà dei due ospiti (e al tempo stesso: proprio grazie al riuso che l’autore fa dei personaggi di Melville), non viene mai meno un qualche sentimento di adesione alla realtà e al vero, all’attualità e alla Storia. Tanto più che i due eventi privati che riguardano il protagonista (la casa nuova, il compleanno) si incrociano con il grande evento recente occorso su scala mondiale, la pandemia, trattata peraltro in modo piuttosto tangenziale. È il capitano che assiste al bollettino della Protezione Civile, con crescente irrequietezza: «Achab era seduto sul divano, il tablet sul baule davanti a lui. Mi ero avvicinato: collegato al canale YouTube della Protezione Civile, ascoltava il bollettino che quotidianamente, da un paio di settimane, forniva gli aggiornamenti sul coronavirus. I guariti – annunciava in quel momento Angelo Borrelli – erano duecentotredici, i nuovi contagiati duemiladuecentoquattordici, i positivi erano in totale dodicimilaottocentotrentanove; millecentocinquantatrè persone in terapia intensiva, centottantotto i deceduti […]. Quando aveva preso la parola il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli e, limpidamente nenioso, aveva cominciato a rispondere alle domande dei giornalisti, Achab, che fin lì si era limitato ad annuire piano, teso e concorde, battendo sul pavimento con la gamba inorganica, come a tenere il conto dei morti, si era ferocemente concentrato sulla interprete della lingua dei segni, sul moto ampio e perentorio – curvo o spezzato – di avambracci e braccia, su quello più minuto delle dita, e aveva allungato una mano verso lo schermo, fino a toccarlo con la punta di indice e medio, cercando di contrastare i movimenti della donna o, al contrario, per assecondarli» (pp. 17-18). Al 12 marzo, il lockdown nazionale era iniziato già da tre giorni: i tre personaggi si trovano quindi per così dire racchiusi in un’unità di luogo obbligata. Tutti noi abbiamo sperimentato come l’isolamento potesse rendere le nostre abitazioni straordinariamente piccole e straordinariamente grandi. La casa del protagonista, per di più nuova, è così percorsa nella sua dispersiva vacuità dai due ospiti frenetici: «Bartleby aveva percorso l’infilata di camere di questa casa enorme inalterabilmente vuota» (p. 10); «non avevo trovato il capitano – nel frattempo svanito in qualche periferia di questa casa paradossale» (p. 15); «Achab – il suo corpo rabbioso e caparbio – era ancora una volta svanito nel dedalo immenso e vanamente illuminato della mia nuova casa» (p. 18). Nel frattempo, a suggellare lo star chiusi, i suoni elettrici di un fabbro hanno gli accenti misteriosi e struggenti delle botteghe leopardiane, qui potentemente riattualizzate da una condizione in cui il mondo esterno diventa davvero lontano e inattingibile: «Silenzio. E nel silenzio, anzi dal silenzio, proveniente dalla bottega del fabbro lì sotto, il nitrito elettrico, sibilante e nevrotico, di un flex, che per qualche secondo si era inarcato imbizzarrito, si era ridotto e fatto querulo, per spegnersi poi in un bisbiglio» (p. 14).
Vediamo poi come tutto il racconto proceda inesorabilmente nel diventare una sfida contro qualcosa di immane e di invisibile. Seduto sul divano, Achab ha fin da subito ottenuto un rudimentale rampone intagliando un bastone di scopa: «Estratto da una tasca un coltello a falcetto, aveva iniziato a trattare un’estremità della pertica; procedendo per colpi brevi e secchi della lama che penetrava nella polpa fibrosa, aveva assottigliato la materia ricavandone un puntale acuminato» (p. 11). Dal terrazzo si rivolge misteriosamente alla «testa enorme e venerabile», balena degli spazi attoniti e silenziosi: «“Tu che sebbene non abbia una barba”, aveva continuato, “pure ti mostri tutta brizzolata di muschi, parla, o testa poderosa, e rivelaci il segreto che si nasconde in te”» (p. 13). Quando fa buio, indica al protagonista un punto che affonda nella «natura cetacea di Palermo», non più Palermo ma «l’Atlantico magnifico» (p. 28), abissale, dove lo scheletro della tenebra replica all’infinito la sagoma del mostro marino: «quel frammento di oceano dove si incurvava, nero nel nero, la massa secolare della balena, quel cosmo animale che era esito di una miracolosa delicatissima combinazione di sviluppo e atrofia, e nel calibrare il movimento del braccio Achab, di nuovo, non mi stava segnalando la bestia nella sua interezza, ma lungo la fusoliera distingueva secondo esperienza e strategia il blocco della testa, l’organo concavo dello spermaceti, la breccia apicale dello sfiatatoio, i due lobi simmetrici della pinna caudale, la coda orizzontalmente disposta, e la mascella, con un brandello della quale anche in questo momento Achab si teneva in equilibrio accanto a me: lo spettacolo portentoso, radicale e lucente, dello scheletro – ecco cos’è la realtà, mi ero allora ritrovato a pensare contemplandolo: la realtà è una cosa ossea» (pp. 26-27). Sarà il protagonista a scagliare infine il rampone artigianale di Achab contro la notte cittadina, atlantica e illimitata: «il bastone di scopa intagliato aveva lasciato la mia mano e lungo la sua traiettoria, prima verso l’alto e poi verso un punto il più possibile esatto e lontano, era diventato un rampone che trapassava senza suono, uno strato dopo l’altro, il cielo nero e i suoi arcipelaghi stellari» (p. 28). Al buio degli spazi profondi si oppone però l’intimità di un compleanno improbabile e soave, che i due ospiti celebrano in onore del festeggiato con un tortino di formaggio e biscotti allo zenzero, attorniato dalle foglie del gelsomino. Ma tutto è sostenuto dalla consueta scrittura di Vasta, elencatoria, spiraliforme, che sembra fare per l’ennesima volta i conti con la sua città, Palermo, che è come farli con tutta la realtà, con la resistenza inanimata di «una cosa ossea», attaccare la materia del mondo, scavarci dentro. Andiamo invece al titolo, Tre orfani. Orfani di che? Di tutto e di niente. «[T]re figurine consunte, tre reduci non si sa da cosa e da dove: tre reietti: tre relitti» (p. 22); «tre orfani misantropi che sotto un cielo dove adesso gridavano le procellarie stavano finalmente per mangiare un tortino di formaggio, zenzero, acqua e fuoco» (p. 29). Tre personaggi che hanno superato insieme una soglia dopo la quale tutto è cambiato, qualcosa si è perduto per sempre. I cinquant’anni del protagonista, «la balena di Achab, il muro di Bartleby» (p. 28), e fuori la pandemia che lentamente stava già trasformando il nostro rapporto con gli spazi e con il Tempo, e con la paura di morire. L’orfanità è questo sentimento di essere mutati in modo irreparabile, ma con il coraggio finalmente di guardare dritto in fondo nella notte cetacea.
Una replica a “Un’idea abissale di Palermo: “Tre orfani” di Giorgio Vasta”
L’ha ripubblicato su A proposito di un cane in livrea.
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