Dante muore a Ravenna settecento anni or sono, la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Un anniversario importante, che su queste pagine non può passare inosservato. «Poetarum Silva» intende commemorarlo, il 14 di ogni mese, attraverso le pagine di autori che gli hanno reso omaggio, trasformandolo in personaggio della loro scrittura critica, narrativa, poetica.
Balzac e la creazione di un Dante apocrifo
Siamo abituati a pensare Balzac come il grande maestro del romanzo realista francese (cosa indubbiamente vera), ma c’è un altro Balzac – esoterico, sognatore, mistico – che era rimasto affascinato da Swedenborg[1] e sognava una continuità ideale tra spirito e materia. Da un Balzac realista ci si aspetterebbe che, qualora decidesse di scrivere un romanzo storico, lo scriva solo dopo aver accuratamente indagato su date, luoghi, persone, leggi, città, campagne, economia, usanze personali e sociali. Una specie di Manzoni, insomma, che non lasciava niente al caso e si documentò minuziosamente prima e durante la stesura de I promessi sposi. Certo, se con I proscritti Balzac avesse voluto scrivere un romanzo storico o una reale biografia di Dante, è innegabile che non sia stato molto accurato. La narrazione storica si fonda essenzialmente sulla capacità di rispettare le coordinate spazio-temporali – e questo in I proscritti non avviene quasi mai. Nell’incipit del romanzo, ad esempio, Balzac comincia la sua opera con un riferimento storico talmente arbitrario: «Nel 1308 esistevano poche case sul Terrain formato dalle alluvioni e dalle sabbie della Senna, nella parte alta della Cité, dietro la chiesa di Notre-Dame.»[2] Peccato che nel 1308 Dante fosse molto probabilmente a Lucca, altrettanto probabilmente non avesse mai messo piede in Francia in vita sua e che Sigieri di Brabante, altro personaggio-chiave della vicenda, fosse morto da un pezzo, intorno al 1281. Questi piccoli accenni alla temporalità arbitraria del romanzo ci servono a dimostrare che più che ricreare un reale spaccato della società del tempo e della biografia dell’Alighieri, con I proscritti Balzac intendesse piuttosto dar vita a un personaggio mitico e simbolico, solo in parte sovrapponibile al Dante storico. Una sorta di Dante apocrifo che, al pari dei vangeli apocrifi, non era vero ma doveva comunque mantenere le caratteristiche di una verosimiglianza mistica e sacra, in modo da poterlo caricare – in quanto creatura solo parzialmente esistente – di arcani significati che andassero al di là delle sue reali vicende biografiche. Soprattutto doveva essere l’apoteosi (e il prototipo) dell’esule per eccellenza, sia dalla patria che dalla poesia – tema, questo, molto caro a Balzac nel periodo della stesura del libro, successivo alla rivoluzione del 1830 (periodo in cui molti intellettuali si trovarono a dover emigrare per le loro idee politiche) e contemporaneo ad alcune vicende editoriali dell’autore che lo fecero sentire come un paria ed un emarginato nel mondo delle lettere.[3]
Questo gioco di disvelamento mitico di Dante è il punto di forza del romanzo, che punta sulla suspance e sull’attesa numinosa del protagonista. La presentazione del personaggio non avviene una volta per tutte, ma è un lento incedere, ammantato di mistero, alla scoperta dell’identità dei due sconosciuti affittuari del gendarme Tirechair. Essi non si sa da dove vengano, dove vanno, quali siano le loro vere intenzioni e, soprattutto, se si tratta di due creature umane o diaboliche. Il loro strano modo di essere e di comportarsi convince il gendarme di aver affittato la propria casa a uno stregone e al suo famiglio. Preoccupato per un eventuale intervento della giustizia, egli dipinge alla moglie un ritratto singolare del più anziano dei due ospiti:
Il signore coricato sopra di noi è sicuramente più stregone che cristiano. Parola di ufficiale, ho i brividi quando quel vecchio mi passa vicino; di notte non dorme mai; se mi sveglio, la sua voce risuona come il rintocco delle campane, e lo sento fare i suoi scongiuri nella lingua dell’inferno; gli hai mai visto mangiare un’onesta crosta di pane, una focaccia fatta dalle mani di un fornaio cattolico? La sua pelle bruna è tutta cotta e abbronzata dal fuoco dell’inferno. Per il giorno del Signore! I suoi occhi esercitano una strana malia, come quelli dei serpenti.[4]
Nella descrizione che l’uomo fa del suo locatario abbondano, in effetti, gli elementi diabolici – o quantomeno stregoneschi: l’assenza di sonno, la voce cavernosa, l’eloquio in lingua sconosciuta, l’anoressia, la pelle molto bruna, lo sguardo fisso e penetrante. Con questa descrizione Balzac accresce abilmente la suspance attorno alla figura del personaggio che ancora non è comparso sulla scena. Tirechair ha appena finito di parlare che la moglie incrocia lo sguardo singolare del più anziano dei loro ospiti e, vinta dalla suggestione, avverte anche lei un che di sovrumano e diabolico:
In quello stesso momento guardò meccanicamente la finestra della camera in cui alloggiava il vecchio, e fremette di orrore incontrandovi all’improvviso il volto cupo e malinconico, lo sguardo profondo che facevano trasalire l’ufficiale, benché fosse abituato alla vista dei criminali. […] La moglie dell’ufficiale pensò d’un tratto che non aveva mai visto i suoi due ospiti comportarsi da creature umane. […] Si sovvenne di essere rimasta giornate intere senza aver sentito il più leggero rumore nelle camere dei due stranieri. Dov’erano, durante quelle lunghe ore?[5]
Appena un paio di pagine dopo, l’ospite misterioso scende dal piano di sopra, turbando i coniugi Tirechair e una donna che si trova in quel momento nella loro casa. Il suo incedere e tutto il suo modo di essere non fanno che confermare nel lettore i sospetti che l’ufficiale e la moglie hanno esternato poco prima. Le pennellate che usa Balzac nel descrivere questa numinosa apparizione sono magistralmente consone a creare una sorta di deificazione mitologica del nuovo arrivato:
Lo straniero rimase qualche istante sulla soglia della porta per esaminare le tre persone che erano nella sala, come a cercarvi il suo compagno. Lo sguardo che vi gettò, per quanto fosse indifferente, turbò i cuori. Era davvero impossibile a chiunque, e persino a una persona salda, non confessare che quella natura aveva dotato di poteri esorbitanti quell’essere apparentemente soprannaturale. Benché i suoi occhi fossero profondamente infossati sotto le grandi arcate disegnate delle sopracciglia, erano come quelli di un nibbio incastonati in palpebre così larghe e circondate di un cerchio nero così vivamente segnato in alto sulla guancia che i loro globi parevano prominenti. Quell’occhio magico aveva un non so che di dispotico e di penetrante che afferrava l’anima con uno sguardo greve e colmo di pensieri, uno sguardo brillante e lucido come quello dei serpenti o degli uccelli; ma che sconcertava, che schiacciava con la rapida comunicazione di una immensa sventura o di qualche potenza sovrumana. Tutto era in armonia con quello sguardo di piombo, fisso e immobile, severo e calmo. Se in quel grande occhio d’aquila le agitazioni terrene parevano in qualche modo spente, il volto magro e asciutto portava però le tracce di passioni infelici e di grandi eventi realizzati. Il naso cadeva diritto e sembrava trattenuto dalle narici. Le ossa del viso erano nettamente accentuate da rughe lunghe e diritte che solcavano le guance scarne. Tutto ciò che nel suo volto formava un incavo appariva cupo. Avreste detto il letto di un torrente ove la violenza dello scorrere delle acque era attestata dalla profondità dei solchi che tradivano lotte orribili, eterne. Simili alla traccia dei remi di una barca sulle onde, larghe pieghe che partivano da ogni lato del naso marcavano fortemente il suo viso e davano alla bocca, decisa e priva di sinuosità, un carattere di amara tristezza. La fronte tranquilla si slanciava con una sorta di baldanza al di sopra dell’uragano dipinto sul volto, e lo coronava di una cupola di marmo. Lo straniero conservava l’atteggiamento intrepido e serio che contraddistinguer gli uomini abituati alla sventura, che la natura ha dotato di impassibilità nell’affrontare le folle furiose e nel guardare in faccia i grandi pericoli. Sembrava muoversi in una sfera che gli era propria, dalla quale planava al di sopra dell’umanità. Al pari del suo sguardo, i suoi gesti emanavano una potenza irresistibile; le sue mani affilate erano quelle di un guerriero; se si dovevano abbassare gli occhi quando i suoi affondavano nei vostri, altrettanto si doveva tremare quando la sua parola o il suo cenno si rivolgevano alla vostra anima. Camminava circondato di una silenziosa maestà che lo faceva scambiare per un despota senza guardie, per qualche Dio senza raggi. Il suo abito dava ancora maggior rilievo alle idee ispirate dalla singolarità del suo portamento o della sua fisionomia. L’anima, il corpo e l’abito si armonizzavano in modo da impressionare le immaginazioni più fredde.[6]
Questa descrizione suggestiva e accurata è degna del miglior Balzac. Il suo fine è continuare a creare intorno all’uomo un alone di inarrivabile misticismo, come si addice a «un Dio senza raggi». Tutto questo non fa che accrescere, nei coniugi Tirechair, la convinzione che si tratti di un pericoloso essere demoniaco. È la terza ospite della casa che riporta tale grandezza entro parametri umani, disvelando la propria identità e dando al contempo degli indizi sullo sconosciuto: «‘Sono la contessa Mahaut – disse alzandosi con una dignità che lasciò sconcertato l’ufficiale. – Guardatevi da causare la minima noia ai vostri ospiti. Onorate soprattutto il vecchio, l’ho visto dal Re vostro signore, che lo ha accolto cortesemente, sareste malaccorto se gli causaste il minimo inconveniente. Quanto alla mia permanenza da voi, non fatene parola se amate la vita’.»[7]
Se l’impressione dei due popolani è adeguata al loro scarso livello sociale e culturale, permeato di assurdità e di superstizione, ben diversa è l’accoglienza che i due stranieri ricevono in ben altro consesso, l’Università di Parigi, durante una lezione tenuta dal grande dotto Sigieri di Brabante:
Il passo dei due sconosciuti che arrivarono in quel momento attirò l’attenzione generale. Il dottor Sigieri, pronto a prendere la parola, vide il maestoso vecchio in piedi, gli cercò un posto con lo sguardo e, non trovandolo, tanto era grande la folla, discese, gli si avvicinò con aria rispettosa, e lo fece sedere sul gradino della cattedra prestandogli il proprio sgabello. L’assemblea accolse questo favore con un lungo mormorio di approvazione, riconoscendo nel vecchio l’ero di una tesi mirabile sostenuta di recente alla Sorbona. Lo sconosciuto lanciò sull’uditorio, sopra il quale spaziava, quello sguardo profondo che raccontava tutto un poema di sventure, e coloro che ne furono raggiunti provarono fremiti indefinibili.[8]
Tuttavia, anche in queste pagine, Balzac continua a giocare a rimpiattino con i suoi lettori, fornendo sì degli indizi puramente umani sulla grandezza di quello che sembra essere un altro studioso dei massimi sistemi, ma non ancora rivelandone l’identità. Si dovrà aspettare il finale, un finale impossibile in cui a Dante viene annunciata la possibilità di rientrare a Firenze, affinché venga finalmente pronunciato il suo nome e sia noto a tutti qual è il grande uomo che ha attraversato le pagine di I proscritti al solo scopo di incarnare il tipo umano dell’esule per eccellenza.[9]
© Paola Deplano
[1] Sebbene il romanziere lo conoscesse in maniera indiretta, attraverso l’Abregé des ouvrages d’E. Swedenborg di Daillant de Touche, il pensiero del teosofo svedese ha profondamente influenzato Balzac; cfr. Daniela De Agostini, Introduzione a Honoré de Balzac, I proscritti, Salerno editrice, Roma 2003, pp. 29-30.
[2] Honoré de Balzac, I proscritti, cit., p. 39.
[3] Cfr. Daniela De Agostini, Introduzione a I proscritti, cit., pp. 8-14.
[4] Honoré de Balzac, I proscritti, cit., p. 45.
[5] Ivi, p. 46.
[6] Ivi, pp.48-49.
[7] Ivi, p. 52.
[8] Ivi, pp. 57-58.
[9] Cfr. Ivi, pp. 78-80.