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Riletti per voi #27: Anna Maria Carpi, “E io che intanto parlo” (a c. di Giulia Bocchio)

 
(foto di Dino Ignani)
Anna Maria Carpi, purché tutto ci descriva
a cura di Giulia Bocchio

La poesia di Anna Maria Carpi è una poesia che non desidera essere né classica, né perfetta e nemmeno leale. A morte Talleyrand dunque, a morte le buone maniere, le impressioni patinate, le illusioni che raccontano gli altri, baldanzosi, pretendendo di illuminare le coscienze altrui con l’intento di instillare in realtà un’ombra o un dubbio in chi ascolta. A morte gli insuccessi, quelli capitano. A morte anche i successi se poi si è soli, se non si possono celebrare insieme al piacere.
Anna Maria Carpi è una poetessa senza timori in questo senso, approdata alla scrittura poetica tardi – ma tardi per chi? Rimbaud forse? – i suoi versi hanno il ritmo di un viaggio ma anche di un racconto, un poema epico personalissimo in cui il lettore è il suo fedele seguito, il lettore è scudiero di quei frammenti di vita altrui.
A morte Talleyrand è una raccolta episodica di sadiche consapevolezze, ispirate e viscerali le sentenze emotive che affiorano fra una rima e l’altra. Eccolo il lettore-scudiero, lì a osservare una coppia che si sgretola, una diade amorosa che sembrava una promessa di paradiso e di sole e che si perde. E dire che uno è un artista, ma anche questo ha i suoi lati bui, le sue taglienti vanità. E poi c’è il sangue, sembra non mentire quello quando si tratta di origini lontane e nomadi. A tavola non è mai ora di cena, è ora di bufera e di colpe da attribuire al fato, alla noia, all’inerzia, al sesso.
Anna Maria Carpi non si risparmia, non ci risparmia: tutto ci descrive. La vanagloria non serve in poesia, è ridicola e non ha nulla di poetico.
In Compagni corpi le parole, le esperienze, la condivisione e le amicizie sono una steppa infinita, sono emozioni che sanno di nomadismo e mai di diaspora, eppure è l’inquietudine di chi sa d’esser vivo a dettare confini e conquiste.
Il lettore-scudiero deve ora decidere se essere il generale Aezio da un lato, o il ruggente esercito unno dall’altro. Quel che importa è l’impresa tentata, è la volontà d’accaparrarsi qualcosa di vero in questo fuggevole lasso esistenziale. Il proprio impero sensibile, l’impronta, la traccia, la storia e, quando Anna Maria Carpi scrive, a tratti sembra urlare: «io non sono per la verità,/ io sono/ figlia del giorno in cammino,/ da est a ovest,/ figlia della Conquista».[1]
E noi crediamo a quella sua scrittura che sembra una Salomè danzante. Siamo lì seduti in cerchio a lasciarci ispirare.

DICONO TUTTI:
ah, ma la voluttà del proibito!
Io non capisco.
Io non ho mai cercato che il permesso,
le porte aperte,
le stanze calde
e come arrivare alla sala del trono.

Per fortuna gli altri non lo sanno,
i cari altri
che tutto possono
da cui tutto dipende:
io sono peggio del cucciolo che sbrana
il cuscino, la cuccia
se lo lasciano a casa,
io sbrano anche me stessa[2]

 

 


1 Anna Maria Carpi, E io che intanto parlo. Poesie 1990-2015, Marcos Y Marcos, 2020, p. 72.
2 Ibidem, cit., p. 42.

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