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Fabio Libasci, Notre bêtise si joyeuse. Mathieu Lindon/Hervé Guibert

Hervelino: è cosi che Mathieu Lindon chiamava il suo amico Hervé Guibert ed è cosi che si chiama il libro a lui dedicato e da poco uscito in Francia. Forse al grande pubblico i due non diranno molto; del primo pochi ricorderanno Cosa vuol dire amare, tradotto meravigliosamente da Isabella Mattazzi e dedicato agli anni e all’amicizia con Michel Foucault; del secondo saranno ancora in meno a ricordare il successo scandaloso di À l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie, bestseller in Francia nel 1990 e pubblicato in Italia da Guanda per poi essere dimenticato. Allora perché riparlarne? Perché Hervelino è un libro importante e Hervé Guibert è uno scrittore che meriterebbe più attenzione, perché l’omaggio reso da Lindon commuove e ricorda che l’amicizia scolpita nelle parole supera la morte senza poterla annullare.
Lo scrittore, figlio di Jérôme Lindon, patron delle éditions de Minuit, ripercorre gli anni della loro amicizia, quando appena ventenni si incontrano per la prima volta nella casa di Michel Foucault come ha raccontato già in Cosa vuol dire amare. Guibert presto comincia a collaborare con la rivista «Minuit» diretta proprio da Mathieu e qualche anno dopo, nel 1981, è con le mitiche éditions de Minuit che comincia a pubblicare. Tutto ciò però in Hervelino passa come in secondo piano; è agli anni romani, infatti, vissuti da pensionnaires alla Villa medici, che va il suo ricordo: è a quel biennio 1987-1989 poi prolungato fino al 1990 che cerca di strappare il segreto per consegnarlo alla pagina scritta.
Hervelino somiglia a una parola magica, una madeleine in grado di riportare indietro, intatti, i ricordi, le serate, le estati all’Elba e soprattutto la scoperta della terribile malattia di Hervé. Lindon sembra quasi sorpreso: «ces deux années romaines furent pour notre lien, sans que je m’en rende compte sur le moment dans mon abrutissement coutumier, une espèce d’aboutissement dont quelque chose survit malgré les décennies».1 
Hervelino non è però un libro su Guibert, e non è un libro su Lindon; è un libro che parla di loro due insieme e perciò non sorprende leggere tante volte “nous”, un modo di integrare l’altro nella pagina senza ridurlo a un oggetto, a un destinatario. Forse è anche per questo che la struttura non è così serrata; in una passeggiata a due per forza ci si ferma a guardare il paesaggio, ci si perde, si cercano strade che non si ricordano e si torna indietro con la memoria per verificare l’esattezza di un episodio. Hervelino è l’elogio di Hervé Guibert scrittore a discapito della fama raggiunta in modo forse ambiguo con il suo libro del 1990: «la littérature lui offrait une postérité mais je le préférais de son vivant»;2 è il racconto delle letture, della scoperta di Thomas Bernhard, dei manoscritti annotati, del desiderio di Mathieu di quell’abbondanza di parole giacenti nell’amico.
Gli anni passati a Villa Medici cristallizzano questo rapporto; nella fine anticipata e nella saggezza acquisita quasi per forza, Mathieu riconosce il valore di ogni singola ora passata accanto all’amico che presto non sarà più che un ricordo – lui ancora così giovane e Hervé già alla fine della sua vita – una pagina, una frase, una parola: Hervelino. «Il va mourir»: c’est aussi sous cet angle que se présente dès l’origine et ces deux années durant mon séjour avec Hervé».3
L’AIDS che aveva portato via fin troppo velocemente l’amico Michel offre a Hervé il tempo di scrivere e di vivere un po’ più a lungo questo tempo dell’amicizia così prezioso, di fare come se la malattia non ci fosse, di vivere intensamente gli ultimi mesi del soggiorno romano, ormai ospite di Mathieu.
Hervelino non è solo la storia di un’amicizia e di un’assenza; è la storia degli amici in comune, dei fratelli di scrittura, come Eugène Savitskaya, degli amanti, degli incontri consumati e presto dimenticati ed è poi e sopratutto la storia di un’impossibilità. Come scrivere degli amici, di chi abbiamo perduto? La domanda era già presente in Cosa vuol dire amare, e in qualche modo è presente anche nelle pagine di À l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie; cosa raccontare, cosa tralasciare? Come dire il rimpianto? A più riprese Lindon afferma che «écrire sur Hervé, c’est écrire Hervelino»,4 scrivere le cose più intime e più inutili forse, inessenziali per molti, uniche per loro; «il y a pour moi dans Hervelino quelque chose d’affectueux, une façon de le prendre dans mes bras où je l’ai si rarement pris».5
Le ultime pagine ripercorrono le ultime settimane di Hervé, l’ospedalizzazione, l’attesa di Mathieu in macchina nel parcheggio, sicuro che l’amico preferirebbe cosi, non vorrebbe lasciarsi vedere, lui che aveva visto e descritto Michel negli ultimi giorni di vita. Poi le pagine fanno posto a un imperfetto eterno: «il était beau […]. Il était Hervé».6
Alla fine del libro si chiede ancora perché aver scritto questo libro, «pour décrire une relation, propager une idée de l’amitié, laquelle a toujours ses chercheurs. Pour pallier mon incapacité».7 Forse il senso sta in queste ultime parole, “Hervelino Hervelino” che a volte dice a voce alta quando lo pensa più intensamente, come capita a tutti quando pensiamo a qualcuno che ci manca e vorremmo raggiungerlo e vorremmo che sentisse almeno la nostra voce.

 


1 M. Lindon, Hervelino, Paris, P.O.L, 2021, p. 9.
2 Ivi, p. 22.
3 Ivi, p. 44.
4 Ivi, p. 83.
5 Ivi, p. 90.
6 Ivi, p. 129.
7 Ivi, p. 132.

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