In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)

Se è vero che la poesia, nella sua nota radice etimologica, è creazione, il poeta, dando vita al testo, gli dona anche spazio, ossia il poeta si ritira per far posto all’opera creata; avviene cioè quella che gli ebrei chiamano «tzimtzùm», la contrazione del creatore perché l’opera possa esistere – un concetto, questo, proveniente dal cabalista cinquecentesco Yitzchàq Luria per esprimere l’autolimitazione di Dio per far posto alla creazione dell’universo. Se leggiamo Betocchi, scopriamo l’attitudine a ritirarsi per accogliere l’alterità, una poetica in cui l’io si fa da parte e la cui parola «si genera dunque da questa capacità di ascolto e di accoglienza della voce dell’altro» (Franca Mancinelli). Ma la contrazione non è a senso unico, ritirarsi comprende al tempo stesso l’estendersi della visione verso l’esterno, un esterno sublimato, contemplato, in cui l’io pare fondersi: il poeta sta nell’opera e, pur non essendoci in modo manifesto, vi si insinua felicemente con lo sguardo. Betocchi aveva il dono di saper legare due parole, due parole inflazionate, e quindi da maneggiare con cura, ma che usava con la stessa disinvoltura con cui sapeva formare la gentile melodia tipica del suo verso, e sono dolore e gioia; dolore in quanto scala di conoscenza dell’umanità, gioia perché il vocabolario betocchiano è declinato nella lode, nella lieta vertigine della parola – Caproni di fatti lo definì in una sua lettera «costruttore di altrui letizia» (Daniele Santero). Per l’autore de L’estate di San Martino, la poesia si fa allora canto, preghiera – i poeti, ci ricorda Puškin, sono nati per l’ispirazione, i suoni e le preghiere – in cui l’io si ritrae nelle remote zone del dire, murmure dell’anima, silenzio che lambisce anime e spazi nel segno di una innocente spiritualità. La sua scrittura si realizza come creatura trepidante di connessioni con l’esistenza e le cose, e si lega con queste in un’intima relazione. La poesia, nella sua corporeità, riflette il corpo spirituale dell’essere umano in cui il poeta ritrova ispirazione e fulgore, scrittura espressa in una natura corpuscolare di luce. In questa luce si afferma una quotidiana cordialità, nel senso del suo etimo latino di «cordis», di ciò che è del cuore e proviene dal cuore, diventando dono, e la poesia di Betocchi è un chiaro esempio di un’inclinazione umanamente e poeticamente alta del dono, dello spartire le sue parole con il lettore, un gesto che ricorda quello del santo nello spartire con l’altro il suo mantello.
Bibliografia in bustina
C. Betocchi, L’estate di san Martino, Milano, Mondadori, 1961.
F. Mancinelli, Poesia come preghiera in Carlo Betocchi, in: Carlo Betocchi «Ciò che occorre è un uomo…». Atti del Convegno Urbino, 14-15 dicembre 2016, a cura di Salvatore Ritrovato, Annalisa Giulietti, Giorgio Tabanelli, Raffaelli editore, Rimini 2018.
D. Santero, a cura di, Betocchi e Caproni. Una poesia indimenticabile. Lettere 1936-1986, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2007.