“Il sabato tedesco”, rubrica da me curata per Poetarum Silva, prende il nome da un racconto di Vittorio Sereni e si propone di raccogliere riflessioni, conversazioni, traduzioni intorno a testi letterari. La sedicesima tappa invita alla lettura del romanzo di Stefano Zangrando, Fratello minore, e, attraverso quest’opera, alla scoperta dello scrittore Peter Brasch. (Anna Maria Curci)
Stefano Zangrando, Fratello minore. Sorte, amori e pagine di Peter B.
Arkadia Editore 2018
Viaggio di esplorazione e di scoperta, Fratello minore di Stefano Zangrando schiude a chi legge diverse piste di ricerca, ciascuna additata e preparata a partire da un determinato punto di focalizzazione: il tempo interiore, il tempo storico, il dato biografico, la ribellione, la famiglia tra tutela e tormento, le frequentazioni, la scrittura e le riscritture, i debiti di riconoscenza, le dipendenze autoinflitte.
La pluralità di vie di accesso alla materia narrata, di conseguenza, rende il termine “biografia romanzata” riduttivo per definire l’universo di Fratello minore. Il sottotitolo precisa che si tratta di Sorte, amori e pagine di Peter B.: Peter B. è Peter Brasch (Cottbus, 18 settembre 1955 – Berlino, 28 giugno 2001), il fratello minore di Thomas Brasch, componente di una famiglia al centro di una vicenda paradigmatica nella DDR prima e, dopo il 1989, nella Germania “riunificata”, tra conformismo e dissenso, somiglianze e divergenze nella sorte e nelle scelte, come narrano il romanzo Ab jetzt ist Ruhe. Roman meiner fabelhaften Familie (“Da ora si fa silenzio. Romanzo della mia favolosa famiglia”) di Marion, la più piccola dei fratelli Brasch (in tutto quattro: Thomas, Klaus, Peter, Marion) e, dal 2018, Familie Brasch, il film-documentario di Annekatrin Hendel su coloro che sono stati definiti “i Buddenbrook della DDR”.
Dialoghi diretti, lunghe lettere a un ‘tu’ – con il quale Stefano Zangrando si rivolge sia a sé stesso, sia a Peter Brasch, del quale è venuto a sapere da Rosemarie, amica dello scrittore tedesco, presso la cui abitazione nella Mauerstraße, come racconta nel prologo, Zangrando ha abitato in occasione del suo secondo viaggio a Berlino -, inserimenti di testi in traduzione, brani di diario, poesie, una fiaba e passaggi dal romanzo Schön hausen, brevi missive dal carteggio tra i fratelli Peter e Thomas Brasch, il copione di un’intera rappresentazione teatrale in due atti intervallati da un intermezzo: tutti questi elementi rendono senz’altro composita la struttura narrativa, che, tuttavia, dalla varietà degli strumenti messi in opera non perde affatto in ritmo e in efficacia. Nel tessuto narrativo vengono accolte anche le riflessioni dell’autore, i richiami alle opere di altri due autori di lingua tedesca, considerati affini a Peter Brasch, vale a dire N.C. Kaser (o meglio norbert c. kaser, come l’autore usava firmarsi) e a W.G. Sebald.
La figura principale, di cui seguiamo le vicende attraverso brani dalle sue opere, attraverso le testimonianze di amici, attraverso le voci di alcune delle donne che lo hanno conosciuto – la moglie Margit, attrice, la prima figlia di Margit Anna, la sorella Marion, la nipote Anne, figlia di Marion, l’amica Rosemarie e la figlia di lei Lena, l’amica scrittrice Katja Lange-Müller, la convivente Petra – assume anche il ruolo di interlocutore di un altro ‘fratello minore’, il narratore, il quale, a sua volta, offre a chi legge un viaggio significativo nella storia della Germania dell’est, in particolare tra il 1976, l’anno dell’espulsione di Wolf Biermann dalla DDR (e, in conseguenza delle proteste contro l’espulsione di Biermann, della cacciata di Peter Brasch dall’università di Lipsia, dove Peter studiava germanistica) e l’inizio del terzo millennio.
Di Peter Brasch colpiscono sia l’arguzia creativa – per esempio nella fiaba Cappuccetto rosso in città, che appare nella prima parte del romanzo, e nei capitoli da Schön hausen, che si trovano nella terza parte di Fratello minore– sia la lucidità nell’analisi dei contesti, analisi che, letta con la consapevolezza di oggi, non sembra esagerato definire profetica. Nel testo nel quale, in occasione del ventennale della morte in carcere di Ulrike Meinhof, «morte violenta e indotta», denunciava un processo di rimozione dalla memori, Peter Brasch si riferiva così alla nuova Germania, della quale in più occasioni e in diversi modi denunciò la protervia: «uno stato sociale ed economico semicomatoso che, invece di portare le persone a divenire solidali le une con le altre, le separa nel nome del tornaconto personale».
© Anna Maria Curci
Ti vedo, o almeno credo. È uno dei momenti più sfocati della tua biografia. In bianco e nero, si direbbe, o forse è solo Berlino est che a quest’altezza, sei anni dopo il cosiddetto crollo del Muro, è ancora immersa in larga parte in un grigio fatiscente, che smorza i facili entusiasmi nostalgici di chi ti vede dal futuro: dal variopinto supermarket dell’Europa d’inizio millennio. Chissà di che colore è il tuo soprabito, subito spruzzato dalla pioggerella autunnale appena metti piede in strada, il portone scrostato che si chiude alle tue spalle. Sotto l’unico lampione nei tuoi pressi, in una luce tremolante, la fiamma dell’accendino che si accosta alla seconda sigaretta senza filtro del giorno – e sono solo le cinque del mattino – perde forza e poesia. Ne saresti contento, una vignetta kitsch in meno.
La Choriner Straße è un buon posto per abitare, dopo l’89. Al confine tra Mitte e Prenzlauer Berg, da qui in pochi minuti sei in Alexanderplatz – se vuoi fiutare bene i venti che spirano da ovest e che stanno spazzando via tutto, un po’ alla volta, in un paziente e implacabile lavoro di erosione; oppure in un attimo sei nella Schönhauser Allee, l’asse più in fermento di questo ex-quartiere operaio che, nel giro di un decennio o poco più, verrà colonizzato e tirato a nuovo dai figli di papà occidentali, tedeschi e non solo. Molti autoctoni, i più anziani soprattutto, se ne andranno da qui nei sobborghi, arresi ad affitti sempre più insostenibili; qualcuno della tua cerchia resisterà e lo incontrerò.
Ma non è ancora tempo, sono molti gli edifici ancora in stato di abbandono, frutto di una gestione anche urbanistica che qui, nel biotopo degli artisti alternativi, aveva ancor meno interesse a farsi bella.
Guardi la cavità che hai davanti, un buco fra due case, uno dei tanti vuoti che puntellano il tessuto cittadino, per lo più resti di guerra – le bombe alleate, mezzo secolo fa, cadevano fitte –, uno dei pochi tuttavia in questa zona, risparmiata più di altri e perciò preda a venire degli speculatori immobiliari più glamour-oriented. Qui poi, davanti al civico 36, è cresciuto un tiglio, grande e bello, la cui chioma, dimora di uccelli e scoiattoli, gareggia in rigoglio con quella del castagno che, nel cortile interno, ti fa compagnia quando volgi lo sguardo alla finestra, seduto alla scrivania, dalla tua abitazione al quarto piano. Oggi quello non l’hai guardato, è vero, è ancora buio, settembre è ormai alla fine. Ma converrai che neppure una partita a campo minato su uno schermo a tubo catodico è la vista migliore per entrare nel giorno.
Certo, continuare a non bere è una sfida più dura del previsto. Non fosse per Petra, che ha stretto la mano al bimbo puro e rabbioso che è in te e che, nella veste di un controllo amorevole, ti sprona a trovarti fuori dai tuoi vecchi schemi, saresti scivolato ancora più giù, la tua vita era un greppo franoso – da quanto? Quand’è che il tuo istinto ribelle ha iniziato a procurarti più sfiducia che gloria? Hai compiuto da poco quarant’anni e, benché da venti porti gli stessi occhiali, o almeno la stessa montatura, non puoi dire di aver costruito granché. Non dovrebbe essere, questa, l’età dei primi bilanci? Sciocchezze, diresti, anzi: troiate. Neanche Petra, a dire il vero, ti travolge fino in fondo: l’idea che Margit, tua moglie, l’attrice perfetta, il grande amore, voglia ormai il divorzio ti distrugge, sarebbe da sola una buona ragione per riprendere il bicchiere, subito. E pensare che hai smesso anche, forse soprattutto per lei. Ma Petra non lo sa – o magari sì; comunque la tua mano non la molla.
Ti incammini verso nord, non so perché, oggi è così. Non puoi nasconderti, come al solito, un certo senso di lutto per i luoghi già estinti. Non che prima, nella DDR, qui ci fosse chissà cosa. Ma anche solo il Rechenberg, bettolaccia senza neppure un nome, chiamata con quello del suo gestore, dove qualche sabato mattina ti ubriacasti assieme a uomini già sfatti dalla sera precedente, era un modo, che allora non pareva neanche tanto degradato, per sospingere la vita, la sua pena disuguale. L’Oderkahn era un po’ meglio, più decente, a parte quel gradino all’ingresso che pareva lì apposta per far inciampare e schernire gli imbra- nati; bruta uguale era invece la Trümmerkutte, all’angolo fra l’Odeberger e la Kastanienallee, dove portacarbone e portarottami crollavano sui tavoli già alle sei del mattino; ma apriva appunto alle cinque, avresti potuto andarci anche oggi. E forse ci andresti, se ci fosse ancora.
Invece non vai in nessun posto, cammini soltanto, una via dopo l’altra, alcune già ribattezzate dal nuovo corso della Germania riunificata, te ne freghi della pioggerella – ti protegge una vecchia coppola – e resisti ai cattivi pensieri, residui tenaci e antichi dell’ennesima notte seminsonne. Osservi, convinto che l’esplorazione ravvicinata di un microcosmo, anche quando deve ancora ridestarsi e sono poche le finestre già illuminate, sia la strada da percorrere, adesso. Al diavolo il vasto mondo, non è di quello che oggi si può scrivere, pensi. Presto sarà tutto uguale e ugualmente asfissiante, in questa fregatura chiamata capitalismo. Se la Germania dell’est era una dittatria, dirai fra un paio d’anni in un’intervista, quella di oggi è una democratura – tu e i tuoi giochi di parole, non puoi proprio farne a meno. (pp. 19-21)
Stefano Zangrando è autore, traduttore e docente. Nel 2008 ha ottenuto una borsa di scrittura dell’Accademia delle Arti di Berlino, nel 2009 il riconoscimento Nuove leve del Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria. È membro fondatore del Seminario Internazionale sul Romanzo presso l’Università di Trento e co-presidente dell’Unione Autrici e Autori del Sudtirolo. Ha collaborato o collabora con varie testate, riviste e blog, fra cui «Alias», «il manifesto», «L’indice dei libri», «Doppiozero», «Nazione indiana» e «Zibaldoni». Tra le sue opere narrative Quando si vive (Keller, 2009) e Amateurs (Alpha Beta, 2016). Vive e lavora fra il Trentino Alto Adige e Berlino.