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Stefania Onidi, Archivio del bianco (rec. di Carlo Tosetti)

Stefania OnidiArchivio del bianco
Terra d’ulivi, 2020
Recensione di Carlo Tosetti

Nel leggere la raccolta di Stefania Onidi, Archivio del bianco (Terra d’ulivi edizioni 2020), si avverte che la scrittura dell’autrice è una faccia della medaglia: l’altra è occupata dalla pittura. A una lettura superficiale, questo collegamento è acceso sia dalla presenza di termini tecnici (per esempio, una sezione reca come titolo campiture, un’altra tele e armature), che dalla citazione di celebri quadri o pittori (una delle poesie con titolo è Le déjeuner sur l’erbe). Preciso che il libro non è infarcito di questi rimandi, che al contrario sono rari; non è un libro sulla pittura.
L’influsso pittorico, tuttavia, si manifesta nell’uso dei colori nei versi, nell’utilizzo dello spazio della pagina bianca, che non è mero supporto alla scrittura. Non vi è pittura, quindi, nel senso letterale dei componimenti, bensì, a livello d’idea, contemporaneamente, sia in superficie (la pagina) che in profondità, sottendendo e sostenendo l’intero libro. 
Le poesie contenute nella silloge potrebbero essere convertite in altrettante tele; l’architettura della raccolta, peraltro, suggerisce anche l’ambientazione di una personale idealmente collocata (gioco-forza) in disadorne sale, rigorosamente bianche, perché il bianco spadroneggia, nel titolo e nell’iniziale elenco di “enti” bianchi (della carta del silenzio della cera delle ossa della luna del latte del gelsomino della lacuna della vernice dei ghiacciai dei denti delle lenzuola delle stelle […], a p. 5), ma la lettura non ci regala una così scontata imbeccata: è invero un costante effetto sensibile e sinestesico, indotto da vari fattori, che eleva il bianco (o meglio il senso del bianco) quasi a despota della raccolta e dell’esistenza.
È infatti l’idea del colore, non necessariamente il suo nome o la sua presenza materica, a fare da sfondo all’opera intera, un bianco che ha poco dell’aspetto simbolico volto ai mondi della purezza e dello spirito, quasi s’incarni in una maligna variante, per ciò che rappresenta, per via di una compiuta atmosfera: una miscela di asetticità, quasi di spersonalizzazione, e, non da ultimo, di costante stasi indotta dal bianco, una riuscita associazione del colore a ben altra idea dominante, e da questa si è distolti unicamente dall’irrompere dei versi, e nei versi stessi, spesso, vi sono dei lampi di vita – testimonianze anche minori, marginali di un’esistenza – che lacerano la spessa coltre, nella quale si individua una sorta di forza avversa, o forse l’insieme delle forze (nel senso più ampio) che si contrappongono all’esistenza, o, ancora, il siderale brivido del nulla.

Dalla sezione a margine, p. 16

Di questa casa che è solo un promemoria
la scenografia è neutra.
Dovrei appendere alla parete quella nostra foto
in cui sorridiamo.

Il bianco, allora, è il cielo teatrale del libro e si manifesta anche nell’assenza, cioè quando non viene nominato; è un’assenza manganelliana, che non va quindi travisata. L’assenza non è il vuoto.
Nelle prime due sezioni (dentro e fuori e a margine) ci si muove all’interno di un bianco che definisco hopperiano, benché il pittore americano non lesinasse certo nell’uso dei colori. Talvolta pare, infatti, che i personaggi siano calati nelle atmosfere del pittore e che osservino attraverso le finestre delle note stanze. Vi è negli ambienti (questi sempre presenti, incombenti, anche quando sottaciuti) un efficace effetto soffocante, opprimente, talvolta claustrofobico, indotto dal colore/non colore sopra descritto, ma anche dalla intuizione del colore stesso, perché le inquadrature (anche così posso definire le poesie di Stefania Onidi) ci forzano a respirare quest’atmosfera-sfondo algida, a-passionale, una cappa che inevitabilmente (nelle meccaniche del libro) ci riconduce sempre al bianco e, lo sottolineo nuovamente, anche senza che venga nominato.
Simbolicamente, del resto, questo colore evoca anche il distacco dalla terrenità e non solo rimandandoci ai domini dello Spirito; distacco dalla materia, ma non nel conforto dell’elevazione.
Nella Grande Opera, bianco è il conseguimento dell’Albedo, l’abbandono della materia attraverso la sua dissoluzione e, nell’infinito tormento dell’opera alchemica, l’Albedo si pone quale secondo stadio, ancora ben distante dalla vertiginosa elevazione della Pietra Filosofale e dei regni superni.
Bianco è, allora, qui, fra noi, il distacco dalla terrenità e quindi dall’esistenza, sensazione imperante nella raccolta di Stefania Onidi; bianco è forse la necessaria direzione universale che richiede una fine, e i versi sembrano porsi come soluzione momentanea, interruzione di questa corrente, se non altro in quanto manifestazioni dell’esistenza, o testimonianze dell’essere e dell’essere esistiti.

Dalla sezione a margine, p. 20

Settembre ha notti premature
i tuoi pugni stringono il silenzio.

Un piatto caldo a cena.

Le poesie (a verso libero) alimentano questo sentire, in quanto brevi, talvolta frammentate, a singulti, e si limitano ad esprimere pochi concetti chiave (o, ancora a sottacerli, a innescare la deduzione) e lasciando, sullo sfondo, l’uniforme colore della pagina, totalizzante.
Per proseguire nell’accostamento fra la poesia e la pittura e ribadire il senso di “testimonianze di esistenza” delle poesie, astenendomi dalla lettura e soffermandomi unicamente sulla presenza di segni grafici su di uno sfondo, ho vissuto una sensazione simile a quella che mi trasmettono le celebri tele di Fontana, sensazione suffragata dalla successiva lettura e dal senso dei versi, che mi hanno donato l’impressione talvolta di uno squarcio che s’apre verso lo spazio. Una fuga, o una creazione.
Questo contrasto fra la pagina bianca e le lettere introduce un altro aspetto figurativo del libro in esame: la manifestazione impetuosa degli altri colori.
I colori (ricordiamoci sempre: anche quando non vengono nominati) emergono con grande forza, per contrasto, improvvisamente affiorano carichi sulla superficie della pagina e oppongono alla stasi la carne, la carnalità, il dolore, la morte, l’esistenza declinata in una melanconica e potente manifestazione; un urlo sussurrato dal misurato scrivere dell’autrice.

Dalla sezione a margine:

La finestra che sbatte
la parola distratta
il divano freddo
avanzano occhi di pece
silenzi ingombrano. (p. 17)

Nella poesia Pink Moon si cita una famosa e struggente canzone di Nick Drake:

Pink moon 

Hai mai pensato alla luna rosa?
Prima o poi verrà a prenderci.
Ci prenderà tutti.

I nostri corpi occupano una superficie
poi liberati
non lasceranno traccia.

Le lacrime sono un decoro

Guarda l’asfalto
dopo la pioggia brilla e respira. (p. 24)

 

Gli spigoli conoscono bene
il coraggio dei miei piedi.
Non so nulla dell’acciaio delle gabbie.
Vorrei vivere usando il presente indicativo. (p. 30)

La poesia a pagina 33 segna un cambiamento nella raccolta, cambiamento che nelle poesie a seguire (sezioni campiture, tele e armature, germogli e rivoluzione) si manifesta in una moderata dilatazione dei singoli componimenti e in una maggiore gamma di colori.
In queste sezioni la poetessa ci conduce fuori dalle stanze sopra citate, in altri luoghi di vita, ma anche di morte. L’atmosfera descritta per le precedenti sezioni non è scomparsa, è soltanto più rarefatta.

Ho sognato di raggiungere la Polinesia in treno.
L’oceano schiumava un verde metallo.
Le spiagge erano immense distese di neve
il freddo sopportabile.
Non avevo valigie
solo un fiore di magnolia dietro l’orecchio destro,
quello con le ciliegie.
[…]

Dalla sezione campiture:

Wally Neuzil

Siede accanto alla finestra,
negli occhi tutti i corpi di Egon
l’ocra della carne
l’ossessione del nero.
Abbassa le palpebre
far aderire il silenzio
al suo angolo incandescente.

Nel dipinto le mani erano uccelli
mandanti di una supplica ossuta e disperata.

Ecco, si è allargata con un dito
per un dio, che vuole accudire come un figlio. (p. 38)

Dalla sezione Tele e armature:

Guardavo la stanza mentre parlavi
era la tua vita in ritardo. Tu morirai qui, pensavo,
in questo posto lontano da dove nascesti.
Ti rifanno il letto con lenzuola bianche e tu paghi.
Qui non hai foto, la lingua è libera.
Le tue mani
più lisce
non trattengono cose.

Non si può andare a morire in un posto senza
ricordi
o forse sì
se pace è dimenticare. (p. 51)

 

Cabirol

Come quando guardavo il mare
in cima alla scala di Cabirol
con la tua voce aggrappata alla mia spalla.
Attenta, non scivolare, dicevi.
Tu che appartenevi al sasso
e all’erosione.
Io che correvo il rischio di una canzone sciocca.

Il vento mi cacciava in bocca i capelli e il sale e tutto
quell’azzurro bruciava in gola
come una biglia di spilli.

Qui
è ancora tutto troppo grande. (p. 56)

Dalla sezione germogli e rivoluzione:

Flos Silens

Sono giorni di ginestre aperte,
api e febbre
finestre al sole
fiducia (silente)
piedi nudi e gatti che fanno l’amore.
Tutto procede con gioia ferma.

Mi allineo al passo vulnerabile del giallo. (p. 67)

L’essenza nella e della quotidianità, ciò che compone (nel bene e nel male) la nostra esistenza, paiono gli oggetti di osservazione di Stefania Onidi: l’amore e i suoi dettagli, la passione (anche nel rapimento dell’arte), la fine, il comunicare, e il contrario di tutto questo, nella grave sommatoria del fallimento, dell’impossibilità e del capolinea.
Eppure, nella poesia Flos silens appaiono la ginestra e la gioia, questa irremovibile. È il fiore di Leopardi a spazzare il campo visivo dalle nebbie e a mostrarci che il libro non è sotteso unicamente dalla forza contraria (che io ho indicato nel bianco), ma anche dalla resistenza, seppur vulnerabile, dalla fiducia.
Sono due, allora, le forze antagoniste in battaglia dietro le righe della raccolta, che inscenano la rappresentazione sintetica e indubitabilmente veritiera della nostra esistenza.

 


Stefania Onidi (1973) è nata a San Gavino Monreale, vive e insegna a Perugia. È laureata in lingue e letterature straniere all’Università di Cagliari con una tesi sulla poesia spagnola contemporanea. Ha scritto le raccolte di poesie: Con un filo di voce (Davide Zedda Editore, 2011), Qui Altrove e Oltre (Montecovello, 2015) e Quadro Imperfetto (Bertoni, 2017). Altre poesie sono state pubblicate in blog, riviste letterarie e raccolte antologiche. Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, armeno e rumeno. Collabora a «Menabò, quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria» (Terra d’ulivi). È anche pittrice. Ha esposto in collettive d’arte contemporanea nazionali e internazionali.

6 risposte a “Stefania Onidi, Archivio del bianco (rec. di Carlo Tosetti)”

  1. Se posso accennare un movimento di critica, rivolto soprattutto alla redazione, questo genere di recensioni (l’esempio del pur bravo Carlo Tosetti è solamente un indice) finiscono per indurre alla rinuncia di qualsiasi velleità di lettura delle opere recensite.
    Vi è detto davvero troppo in queste recensioni, perché esse portino un lettore curioso a volerne “sapere di più”. Da recensore di libri altrui dico: la soglia di un testo non può coincidere con le stanze dell’intero edificio.

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    • Sa, la recensione non ha una misura stabilita; la recensione è l’esatta misura delle domande che il lettore-recensore si è posto sul libro letto, e alle risposte che è riuscito a dare di alcune (non tutte) di queste domande. Carlo Tosetti pone molte domande, e – buon per lui – riesce a dare molte risposte.
      Le recensioni che mirino a catturare il lettore, non saranno mai recensioni: saranno qualcosa di più prossimo a una marchetta.
      Alla redazione interessa da sempre che si parli davvero di ciò che si è letto. C’è chi è conciso, c’è chi non lo è. In ambo i casi è la sostanza di ciò che viene detto che conta.

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      • Lungi da me parlare di marchette.
        Non era mia intenzione e ne provo ribrezzo.
        Continuo a chiedermi, piuttosto, che senso abbia una recensione, anzi molte recensioni, che sconfinano nel saggio critico senza esserlo sul serio.
        L’aver letto veramente un libro, condizione imprescindibile per poter condurre un lettore curioso sulla sua soglia, non implica assolutamente che su di esso ci si eserciti senza confini e scavando per ogni dove.
        Se questa metodica aiuterà altri lettori, meglio così.
        Io, dopo qualche riga di quel tipo, mi fermo e passo oltre.

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  2. […] Le poesie contenute nella silloge potrebbero essere convertite in altrettante tele; l’architettura della raccolta, peraltro, suggerisce anche l’ambientazione di una personale idealmente collocata (gioco-forza) in disadorne sale, rigorosamente bianche, perché il bianco spadroneggia, nel titolo e nell’iniziale elenco di “enti” bianchi (della carta del silenzio della cera delle ossa della luna del latte del gelsomino della lacuna della vernice dei ghiacciai dei denti delle lenzuola delle stelle … leggi tutto […]

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