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Vito Teti, Nostalgia (rec. di Sandro Abruzzese)

Vito Teti e la nostalgia come utopia concreta

«L’unica cosa che non puoi fare», ricorda Vito Teti in Nostalgia (Marietti, 2020), «è mentire a te stesso». L’antropologo del Senso dei luoghi nell’ultimo libro licenziato ammette di avere sempre nutrito questo sentimento magmatico e informe, e però non si arrende a una declinazione unidimensionale, ma parte dal dato autobiografico per proseguire in una dettagliata disamina e proporre una declinazione attiva e partecipe dello stesso. Se la nostra civiltà è quella delle macerie e delle devastazioni del moderno, delle guerre totali e tecnologiche, del collasso climatico, allora la nostalgia per Teti diventa una risorsa per affrontare i continui mutamenti e costruire un futuro diverso. Restare, partire, tornare, sono termini lungamente sviscerati dall’antropologo lungo il corso della sua carriera, termini legati alla nostalgia, come pure ai luoghi e al tempo trascorso. In questo contesto, però, la nostalgia di Teti acquista un carattere sovversivo, proponendosi come motore di una riconfigurazione etica dell’esistenza.
Ebbene il percorso dipanato dall’autore, nel consueto stile ricco di fonti e riferimenti, principia dal viaggiatore per eccellenza Ulisse e arriva ai lontani Roth e Alvaro, in cui radicamento e legame sono gli opposti e complementari del viaggio e della fuga. Così uno scrittore apparentemente distante, come il Roth della scomparsa degli shtetl, si ritrova accanto all’enigmatico Alvaro che, a sua volta, nel rapporto tra premoderno e moderno, rivive la fine dei paesi calabresi.
Il percorso prosegue e, seguendo la storia di questo sentimento, arriva ai giorni nostri, all’angoscia del Covid-19 e alle sfide di fronte alla politica globale. Qui la nostalgia di Teti è consapevolmente stretta tra le auspicate possibilità utopiche e i rischi di retrotopie. Non c’è spazio però per localismi, leghismi, chiusure identitarie, non c’è spazio per la visione immobile e a-storica del sentimento, anzi l’interesse si rivolge alla propulsione data dal lato inclusivo della nostalgia. Dalla mobilissima cultura popolare americana, dove, l’autore ricorda con Lasch, è lo stesso progresso, la messa in discussione continua dello status quo, a implicare la presenza nostalgica, a canzoni come la My hometown di Springsteen, che assurge a elegia degli sradicati, denunciando il volto oscuro e individualistico del sogno americano, si ritorna ai versi accorati di poeti meridionali come Costabile e Bodini. Ebbene, l’errore è considerare questa presenza sentimentale nella sola accezione conservatrice: se la nostalgia è figlia del cambiamento, l’antropologo calabrese si chiede piuttosto: «quale nostalgia, per quale cambiamento?»
Dunque siamo dinanzi all’alterità e alla lontananza, agli esodi come agli stereotipi, all’indefinito e all’incompiuto. È difficile non pensare alla lenta scomparsa della civiltà contadina italiana. Teti stesso è stato, in lavori precedenti come Pietre di pane, Terra inquieta, Quel che resta, testimone della fine dei paesi calabresi, del loro sdoppiamento, della gemmazione e dello scivolamento dalle montagne verso le marine: Diamante, Soverato, Badolato. Oppure dei paesi abbandonati come Pentadattilo, Africo, e della Calabria americana.
L’autore, proprio grazie all’inquietudine, si è fatto viaggiatore-ricercatore, e con la malinconia si è persuaso che, con buona pace di Augé, non esistano non-luoghi, ma che anzi ogni luogo abbia un suo recondito o evidente senso, è solo questione di tempo. Un paese vuoto per Teti è dunque la prova che da qualche parte nel mondo altri luoghi si sono riempiti di vite, e questo nuovo brulicare comporterà processi di adattamento, successi e sconfitte, a cui il ricordo dell’origine fornisce inevitabilmente la consueta vertigine malinconica. Non si tratta di storia né di memoria, ricorda l’autore citando La luna e i falò di Pavese, perché nel ricordo viene meno il conflitto, viene meno l’ambivalenza del paese premoderno, il suo immobilismo, l’ingiustizia. Anguilla è nostalgico, ma il viaggio lo ha cambiato per sempre, Nuto invece è restato, entrambi rappresentano una porta scorrevole del doppio, dell’alter-ego: la fuga individuale e la lotta collettiva contro l’ingiustizia. Non ci sono sconti in Pavese e in Teti, c’è nostalgia, beninteso mai assoluzione.
E che dire di Freud, Heidegger, e del loro interesse per lo spaesamento (Unheimlich). Se abitare il mondo è per Heidegger un non essere a casa, tuttavia l’idea del ritorno sotteso alla nostalgia resta un’illusione: le condizioni della modernità non lasciano la possibilità di tornare indietro, quel che resta a sua volta è già altro e nessun ricordo combacia mai esattamente col passato. Insomma, l’emigrazione si lascia indietro catastrofi come quella che l’autore definisce, a ragione, la rivoluzione silenziosa del mondo contadino. Forse al cospetto delle migrazioni possiamo aggiungere che si tratta anche del più estremo e antico atto di auto-redenzione umana possibile. Come se non bastasse, la malinconia del migrante è poi divisiva, viene etnicizzata e disprezzata nella produzione stessa di stereotipi, si presta così al capro espiatorio e alla dialettica amico-nemico, finendo per produrre latenti complessi d’inferiorità, rimozioni inconsce, insieme a volontà di riscatto, audacia, determinazione. Anche qui siamo nel solco di quelle intuizioni precedenti dell’autore che hanno preso forma in libri ormai classici sulla Questione italiana, come La razza maledetta e Maledetto sud.
La nostalgia quindi apre non solo al destino degli esuli, degli sradicati anche celebri come per esempio Adorno, James, Arendt, Anders; esuli, migranti, espatriati, di cui l’America è la massima espressione politica, nondimeno apre anche alla condizione di chi è esule in patria. Non a caso, Teti, intervenendo nel discorso pubblico in merito al destino di spopolamento delle aree interne italiane, ha coniato e proposto il concetto di restanza, troppo volte frainteso da osservatori distratti e distanti dall’argomento. Vale la pena ribadire che la restanza è per l’antropologo di Vibo il possibile punto di arrivo di una nostalgia consapevole, ovvero una cittadinanza attiva, una pietas ritrovata nella presa in carico e nella cura dei luoghi come spazio condiviso, e in un dimorare in cui anche la solitudine abbia la propria parte attiva come elaborazione personale per poter ritornare al mondo e, nel mondo, ri-conoscersi.
La nostalgia insomma è uno dei possibili motori della storia, la quale non si avvale di un unico motore immobile ma di rotture e accelerazioni benjaminiane.
La nostalgia è nel cibo, nella sua ritualità, oppure nelle domeniche solitarie, nei giorni di festa silenti, è nella distanza dai defunti, nelle leggende folkloriche, nella figura del vampiro. La malinconia come madre del sentimento nostalgico, infine, apre a un approccio alla storia che tenga conto finalmente dei vinti, in una rilettura in grado di guardare al passato con attitudine al riscatto, per una ricostruzione finalmente positiva. Sta a noi non fermarci al rimpianto per la fine di mondi tradizionali, poiché in un mondo sempre più preda di imprevedibili e colpevoli catastrofi, è possibile, suggerisce Teti, usare la crisi nostalgica per prevedere e riparare agli errori commessi, attraverso una nuova volontà di responsabilità.

© Sandro Abruzzese

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