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Per una nuova idea di Dio: leggendo Igor Sibaldi (di Edoardo Pisani)

Per una nuova idea di Dio: leggendo Igor Sibaldi
di Edoardo Pisani

Teach the free man how to praise.
Auden

 

La letteratura porta a strane scoperte, posto che si abbiano la curiosità e il gusto di percorrere sentieri impervi, ovvero libri e autori e generi e sottogeneri di incerta qualificazione libresca, anche snobbati dalla critica o dalla letteratura stessa. È il caso di Igor Sibaldi, uno dei maggiori slavisti italiani, traduttore e prefatore di diversi scrittori russi dell’Ottocento, da Dostojevskij a Tolstoj a Gogol’ a Checov, autore di testi di grande acutezza letteraria e psicologica, come il saggio introduttivo a Tutti i racconti di Tolstoj, viaggio biografico e emozionale nella grandezza e nel mistero umano e artistico di Tolstoj, o come i saggi raccolti ne I grandi peccatori, edito da Mondadori nel 1996 e riedito da Spazio interiore (casa editrice che ha pubblicato alcuni fra i libri più belli di Sibaldi, e che non a caso privilegia opere sulla spiritualità) nel 2015, con il titolo Dieci obiezioni ai comandamenti.
Il percorso di Sibaldi è unico nel suo genere, spaziando dalla critica letteraria all’angelologia e dalla narrativa al teatro, fino a testi inclassificabili quali Il tuo aldilà personale o La disobbedienza o Discorso sull’infinito o La scrittura del dio, piccoli monologhi di resistenza umana e artistica al mondo – un mondo che ci costringe sempre di più nella sua artificiosità e banalità. Sibaldi scrive per scuotere, per sconvolgere le coscienze, approcciando e scavalcando le barriere del suo e del nostro io, i tabù e i luoghi comuni della cosiddetta società civile, le fisime e le paure che (proprio per tenere in piedi la società) ci portiamo dentro e subiamo. Tolstoj non è lontano: il Tolstoj degli attacchi alla chiesa ortodossa, al governo russo e allo zar, quello delle riletture del Vangelo e delle grandi ribellioni, considerato minore rispetto al Tolstoj dei romanzi; il Tolstoj “universale” a cui Sibaldi ha dedicato diversi saggi. Nei suoi testi migliori, proprio come Tolstoj, Sibaldi cerca una nuova visione di Dio, del credere e del divenire, ricorrendo a ogni campo dell’umano sentire, dalla neurologia alla psicologia, dalla filosofia alla teologia, dalla poesia all’angelologia; Dio non può non nascere da noi, sembra dirci Sibaldi, o meglio dalla nostra ribellione umana e artistica, esistenziale: per conoscerlo, o per crearlo, cioè per accedere alla deità che ognuno porta dentro di sé, bisogna rovesciare il tavolo, rimettere in gioco tutto quanto sappiamo o pensiamo di sapere del mondo e di noi stessi. Credere è un atto di ribellione, per Sibaldi. Di più: l’atto stesso di credere va ripensato e sovvertito, perché avere fede “vuol dire non capire”, e perché piuttosto che credere in Dio bisogna innanzitutto conoscere Dio – cioè sentirlo dentro di sé e non altro da sé. Così l’uomo deve andare oltre, trovare il proprio “io maiuscolo”, la propria coscienza più profonda, celata, che lo liberi dal suo “io piccolo”, ossia da ciò che ognuno di noi crede di essere, che si costringe a essere, e che in gergo filosofico viene chiamato autòs.
Allargando il concetto, Sibaldi riprende le teorie dello psicologo Julian Jaynes, che ipotizzava una cooperazione primordiale fra l’emisfero sinistro e l’emisfero destro del nostro cervello, ovvero (semplificando le cose, ma bisognerebbe leggere Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, consigliato da Sibaldi) fra la parte per così dire “logica” e la parte “allucinata” della nostra mente – e l’Area Allucinatoria, da cui dipendono le visioni allucinate degli schizofrenici, era secondo Jaynes comunemente attiva nelle persone sane, fino a qualche millennio fa, in accordo con la parte sinistra del cervello. Poi c’è stata una mutazione, con la prevalenza dell’emisfero sinistro (quello della logica e del sentire comune) sull’emisfero destro (quello dell’ispirazione e delle allucinazioni); la specie umana ha dovuto assuefarsi alla praticità dell’esistenza e alle strutture gerarchiche della società, per la salvaguardia dell’individuo. Per Jaynes la religione (come l’arte? come i sogni?) riavvicina l’uomo alla connessione con l’emisfero destro del cervello, cioè con quanto c’è di oscuro e di pericoloso – pericoloso per la società, pericoloso per il sentire comune – in noi. Sibaldi, riprendendo Jaynes, si rivolge ai ribelli, a chi osa andare oltre i limiti claustrofobici e sensati del proprio io, rimettendo in causa le proprie certezze e la propria esistenza. La conoscenza (di sé e del mondo) deve essere un atto rivoluzionario. Le grandi religioni profetiche (e i profeti, e gli scritti sacri) devono spingere l’uomo oltre i propri confini, fino all’inaccessibile, mutando il nostro bisogno di fede in fede in noi stessi. Non bisogna soltanto credere, ma anche divenire, scoprire finalmente ciò che si è davvero. D’altronde “credere”, afferma Sibaldi in Discorso sull’infinito, «nel senso religioso del termine, è solo un modo di avere ragione, cioè di ottundersi.» E qui – fra religione e ottusità – viene in mente un altro autore, Massimiliano Parente, che in Contronatura, opera “contro Dio” semmai ve ne furono (contro ogni possibilità di salvezza e di Dio), scrive: «Credere in Dio è un’espressione idiota. Perché l’attenzione del discorso dubitativo è spostata sull’idea di credere e non sull’oggetto in cui si dovrebbe credere […]. Si crede in Dio come si crede agli Ufo o si crederebbe a Topolino se Topolino ci desse una speranza o fosse una ingenua menzogna originata in tempi lontani e resa meno ridicola dalla Storia.» E ancora: «La gente stupida ha creato il suo opposto, un essere intelligente, immortale, onnipresente, onnipotente, onnisciente, tutto ciò che in natura non esiste e che avrebbe creato tutto e preposto a dire alla gente stupida: Voi non morirete, e dunque si moltiplicano i pani e i pesci, si cammina sulle acque, si fa alzare e camminare un disgraziato, si tramuta il vino in sangue e il pane in corpo, e la gente stupida si divide fra credenti e non credenti, come se credere e non credere fossero due facce della stessa medaglietta ideologica.»
Parente, pur nella sua violenza estetica, pur nella sua disperazione, potrebbe essere uno scrittore molto interessante per un teologo “eretico” come Sibaldi, anche perché entrambi, per quanto siano due autori lontanissimi (quasi antitetici) l’uno dall’altro, si rifanno spesso alla scienza, alla ragione; e tuttavia, spingendo il discorso più in là, rimane il problema dell’ottundersi pure per il sapere scientifico, come per la religione, tanto per un “materialista” come Parente quanto per un “mistico” come Sibaldi, cioè il rischio che la scienza, il sapere (la scienza cieca che “ara vane zolle”, per dirla con Pessoa, o la fede pazza che “vive il sogno del suo culto”), creino dei vacui dogmi di se stessi, allontanandosi dalla Verità, che è multipla, come le storie di Feynman, come i sentieri biforcati di Borges; e fra cento o duecento o mille anni molte teorie scientifiche di oggi saranno sorpassate o dimenticate, come molte religioni. Guido Ceronetti scrive, ne ’occhio del barbagianni: «La sfida della scienza alla filosofia è questa: Fatti mia serva se vuoi sopravvivere. Per restare libera e non doversi umiliare la filosofia si ritira nell’ombra e aspetta che tornino come proprio futuro i pensatori presocratici.» E qui pensiamo a Ennio Flaiano, che era amico di Ceronetti, ai suoi appunti postumi, nel Diario degli errori: «Quando avremo sondato l’Universo alla ricerca della nostra incapacità di dominarlo e di capirlo, dovremo ritornare al Poeta e concludere che a muovere il Sole e le altre stelle (a muoverle, ma non a spiegarle) è l’Amore. Allora la nostra fede non sarà più liberatrice, ma deduttiva, accettata per la nostra incapacità di andare oltre. Crederemo perché è evidente, non perché è assurdo.» (E con queste parole, nell’impossibilità di andare oltre, fra l’evidenza o l’assurdità o l’inutilità o la stupidità del credere, sperando di non aver confuso troppo il lettore, possiamo riallacciarci all’opera di Sibaldi, al Brahma innamorato del suo Dioniso, che pure si rifà all’Amore, come vedremo.)
Gli scritti migliori di Igor Sibaldi conducono il lettore fra teorie scientifiche e filosofiche e testi sacri e/o letterari (è splendida una sua breve rilettura di Borges, La scrittura del dio, edita da Spazio Interiore), verso due principali obiettivi: la scoperta del sé e la disobbedienza. Sibaldi, come il suo amato Tolstoj, è un ribelle del pensiero. Tolstoj scriveva, nel 1896, sconcertando i suoi contemporanei: «Il Vangelo non è affatto un’infallibile espressione della verità divina, bensì un’opera di innumerevoli mani e innumerevoli menti umane, ricolma di pecche, e perciò tale da non poter essere in alcun modo accolta come uno scritto dettato dal Santo Spirito, come dicono gli uomini di chiesa.» Sibaldi, un secolo dopo, rilegge gli scritti sacri attualizzandoli, cercandovi una verità che sia altra da quella imposta dal comune sentire, ossia dalla chiesa e dalla società – congiungendo filosofia e mistica, scienza e arte e religione. Come l’essere umano (come l’amore, direbbe lo sposo infernale di Rimbaud), anche i Vangeli vanno reinventati, riscoperti. Come la parola Dio (o la parola Diavolo, cioè quello che gli esseri umani chiamano diavolo, come dice il Dominante ne Il frutto proibito della conoscenza), anche l’io va ripensato, sconvolto, fino a perderlo e a perdersi, o a perdercisi – fino a perdere la nozione di ciò che si è o di ciò che si crede di voler e di dover (o di non poter più smettere di) essere. Non avere altro io all’infuori di te, scrive però Sibaldi nelle prime pagine de La disobbedienza, perché è da se stessi, dal ripensamento di se stessi (e quindi anche dal superamento di se stessi, perché “Je est un autre”, scriveva Rimbaud a Paul Demeny, e «Io sono gli altri, ogni uomo è tutti gli uomini», soggiungeva Borges nelle Finzioni, riprendendo Shopenhauer), che nasce la conoscenza di Dio e dell’assoluto, e dell’infinito. È un dio ribelle e poetico, quello di Sibaldi, che dalla poesia e dalla ribellione approda al fuoco sacro della disobbedienza – come quando (ne La disobbedienza, appunto) un arcangelo invita tutte le Marie del mondo, tutte le donne del mondo (e di conseguenza tutti gli uomini del mondo, perché non c’è rivoluzione che non sia universale), a rivoltarsi, ad aprirsi a quel Futuro che è anche Dio, ribellandosi alla rigidità del Passato, a ciò che già è e che è sempre stato e che sempre continuerà a essere: il Dio imposto della società, dei gruppi e delle chiese, il Dio ateo e ipertecnologico della sicurezza e del lavoro.
«Quello che la gente chiama Dio Creatore, tutto sommato è soltanto il futuro» dice Sibaldi alla sua Maria immaginaria, attraverso uno Spirito guida. «Il futuro, sì. E in quanto tale, è verissimo che è onnipresente. Il futuro è dappertutto, quando sai che c’è. Ed è onnisciente, sicuro: è appena un pochino più in là di quello che sai…» Curiosamente, è l’opposto di ciò che pensa il Kien di Elias Canetti, in Auto da fé, immaginando non un dio-futuro ma un dio-passato, comunque un Dio nel Tempo: «Dio è il Passato. Lui ci crede in Dio. Verrà un giorno in cui gli uomini trasformeranno i propri sensi in memoria e tutto il tempo in passato. Verrà un giorno in cui un unico passato abbraccerà tutti gli uomini, in cui non vi sarà nulla all’infuori del passato e tutti crederanno: appunto nel passato.» E Canetti aggiunge: «Il Dio della Bibbia, in fondo, era un povero analfabeta. Più di una divinità cinese di secondo piano aveva una cultura notevolmente più estesa.»
Anche Sibaldi, come il personaggio di Canetti (come Canetti stesso), cerca un Dio che vada oltre la nozione di Dio, fra teorie angeliche e studi filosofici e teologici, avvicinandosi all’Uomo: un Dio che sia anche ricerca e visione e arte e poesia e che (attraverso l’arte, attraverso la poesia) sconvolga il nostro io e il nostro modo di intendere e di vivere (e di rivoluzionare) il mondo. «Tutto quello che capiamo o immaginiamo degli Dèi è umano» scrive nella prefazione a Dioniso, un testo teatrale, forse la sua opera artistica più riuscita, con Zeus e Hera che discutono sul significato dell’essere dèi e dell’essere uomini («Non c’è niente da leggere nei loro cuori» dice Hera, a proposito degli uomini. «Solo giochi enigmistici/ e qualche ricordo») e il Coro, ossia l’umanità, che riceve messaggi al cellulare, mentre Brahma, un altro dio, sembra cercare la risposta o la salvezza (e forse l’unica fuga possibile, l’unico infinito possibile, come il Flaiano del Diario degli errori) nell’Amore: «Io sono sempre stato innamorato./ Se ti innamori, l’unica è soffrire/ felicemente, senza badare a spese,/ disperatamente, sperando/ di disperarti il più a lungo possibile/ pur di continuare a vedere in chi ami/ l’infinito. L’infinito è più infinito, sai,/ se lo vedi in qualcuno/ invece che dappertutto.« Dioniso, che dà il titolo alla commedia, figlio di Zeus e di Semele, è per Sibaldi un “Dio outsider”, un “Dio ribelle”, un «varcatore di confini e un annientatore di limiti» – e Zeus, rivoltandosi al proprio stato divino, urla a Hera: «Io, Dioniso, lo sono sempre stato! Posso esserlo sempre…» E abbandonerà il palco, cioè il mondo, seguito da Hera, proprio per raggiungere Dioniso, che è un Dio più libero e sconvolgente di lui.
«La maggioranza degli individui non riescono a non pensare che quel che loro manchi sia altrove» scrive Sibaldi prefaendo Dioniso, «e tutte le religioni assecondano questa maggioranza, la placano fornendo oggetti di fede più o meno saggi, più o meno semplici, più o meno benefici per l’evoluzione.» Le sue teorie angeliche, come i suoi studi filosofici e teologici, come i suoi testi teatrali/poetici, cercano invece un Dio in sé, o per meglio dire un infinito (una brama di infinito e di conoscenza) che nell’Uomo e attraverso l’Uomo (e oltre l’Uomo) diventi una possibile idea di Dio – e una rivoluzione del pensiero umano.


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