
Ancora su Tropaion di Raffaela Fazio
Pare che tutto sia cominciato (per “tutto” intendendo qualsiasi forma d’arte) pare che tutto sia cominciato con una partenza e relativa disperazione. La figlia di Butade il vasaio si è vista partire il compagno, e tanto ha pianto che suo padre ha disegnato il profilo di lui contro un muro perché lei non ne provasse troppa nostalgia. Così, per sopperire a una mancanza, nasce l’arte umana. Mi è tornato in mente in maniera non so quanto opportuna leggendo questo libro d’ombra, riflessi e specchiature, dove sagome e figure fanno della coscienza (e della memoria) una vicenda anche di ottica. Il “tropaion” che dà il titolo alla bellissima raccolta di Raffaela Fazio (puntoacapo 2020) è l’arma del nemico portata al campo come vittoria, è lo strappare verso di sé il frutto di una contesa che percorre tutta la raccolta, come carne e marchingegno e funzionamento della realtà.
Nel gioco si accende la fuga
e nel bosco la caccia:
ogni cosa pare si rinnovi
non dal tepore della tana
ma per l’accelerarsi
di battiti, di appelli.
La natura ha bisogno di tensione
tra destini votati
a una disperata cerimonia.
In eterno si rincorrono gli amanti
nel giardino d’inverno.
Distanti, diversi:
disuguale la capienza del respiro
nell’odore controvento.
È passione. Ma fa male.
Nel carniere ha l’assoluto
di cui ha perso
tutto il sangue, la speranza.
Lasciar esplodere o calmierare, con l’abilità di un filo arabo, questa tensione, è materia di un libro dalla struttura sorvegliata, senza una parola di troppo. Il ritmo è preciso, rime e consonanze sono rare, a tratti nascoste e lontane, tanto da sembrare il colpo che le dita sferrano alla biglia per farla ripartire. E in questa guerra c’è una lingua sensuale, una lingua di grazia. Una lingua che rende il conflitto ciò che è: ciò che nutre fibre e tendini della vita.
© Giovanna Amato
Revisione
La materia
di cui la vita è fatta
mi è sconosciuta
ma so che non somiglia
a nessuna
delle poesie che ho in testa
o alle parole
che limo e che combino.
Per quanto io mi sforzi
l’istante non può essere riscritto.
Arriva in bella copia
ed è per questo
che anche nel dolore
si proclama
– perché unico –
il migliore.
Il sogno del violoncello
Nessun tocco.
Il polso non s’incurva sull’archetto
eppure la corda
ha iniziato a vibrare da sola.
Il senso è la distanza
in fondo alla quale
una fiamma
ha emesso per prima la nota
che ha in noi la risonanza.
Dal buio si è alzata
e dalle sue ceneri.
“Devi ascoltare
il suono che non generi”.
Volgerà alla fine
anche questa battaglia
non vista
con la naturalezza
dei fossili, dei clasti
a riposo
nel chiuso dei versanti.
In ciascuno
la ressa
di vite, di detriti, la fatica
sarà scasso
per il tempo a venire
– un lascito migliore.