PAOLO RUFFILLI, LE COSE DEL MONDO (MONDADORI, 2020)
Nota di lettura di Sacha Piersanti
È uno di quei sempre più rari casi in cui la poesia sa commuovere il fantomatico cuore e stimolare e eccitare al tempo stesso la cosiddetta mente, una di quelle creature a rischio ormai estinzione che, ora sinuose e bellissime, ora misteriose e indecifrabili, con una zampa accarezzano e inteneriscono e con l’altra agguantano e costringono alla riflessione, allo studio, questo Le cose del mondo (Mondadori, pp. 205, € 20) che Paolo Ruffilli dà alle stampe dopo quarant’anni di ricerca.
Quarant’anni, sì, e sì: ricerca. In un tempo tutto votato al culto della quantità anziché della qualità, un tempo frenetico che non risparmia nemmeno il mercato (sic!) della poesia, con centinaia di pubblicazioni e autopubblicazioni (e pressoché nessuna lettura) spesso una dietro l’altra, basterebbe già solo l’indicazione “1978-2019” che Ruffilli stampa fiero ma senza vanità sotto al titolo per capire che siamo di fronte a un libro di rara importanza. E se pure solo lo sfogliamo, ci rendiamo conto subito di un altro fatto ormai fuori dall’ordinario, un’altra qualità per nulla scontata che dimostra l’autenticità, l’impegno, la forza di questa ricerca: non si tratta dell’ennesima ‘raccolta-di-poesie’, ma d’un libro vero, organico, ricco di richiami interni e in continuo movimento.
Strutturato infatti con precisione chirurgica in sei sezioni che sono di fatto sei capitoli, ognuno autoconclusivo ma mai disgiunto dagli altri, lungo un percorso di continue conquiste e messe in discussione, d’incontri e di riflessioni, di ricordi e di prese di posizione, il libro ci racconta la storia di un uomo-poeta alle prese con la realtà che lo circonda. Dal prologo simbolico-narrativo di Nell’atto di partire all’esodo/bilancio intitolato inevitabilmente Interrogativi, passando per i momenti più civili e umanisti di Morale della favola e quelli più meditativi de La notte bianca, con al centro il cuore vero della ricerca poetica di Ruffilli (le sezioni, gemelle per impianto e scelte tecnico-espressive, Le cose del mondo e Atlante anatomico), Le cose del mondo, pur senza perdere mai di vista il fulmineo specifico immaginativo di quella che chiamiamo ‘poesia’, ha la natura episodica ma ariosa del romanzo di formazione e insieme del racconto di viaggio.
Viaggio, ecco. Un viaggio tutto particolare, però, perché all’insegna dello sguardo, dell’osservazione prima ancora che dell’esperienza. Osservazione in primo luogo, certo, delle cose, degli oggetti puri e nudi del mondo, ma anche e forse soprattutto di quanto quelle specifiche cose, quei determinati oggetti, sanno evocare all’occhio attento dell’osservatore: dell’uomo-poeta. Come in un continuo gioco di richiami e di rimandi, infatti, come se tutta la realtà (tutta: esperienze e incontri compresi) non fosse che un ininterrotto flusso di sovrapposizioni e intersezioni tra i suoi vari elementi, come se, però, questa realtà la si osservasse nelle sue definizioni, nei suoi contorni stabiliti, nelle sue linee di demarcazione giusto il tempo per metterne alla prova la solidità e poi, in un subito, sfumarla e accoglierla finalmente come il tutto commisto che è davvero, Ruffilli lavora e scrive letteralmente con l’occhio, drenando da lì tutto il poetabile possibile:
Fanali nella nebbia: amuleto della luce
e mezzo di contatto, argano e metro,
spiraglio di speranza a patto che si possa
arrivare un po’ più in là a dilatare il bordo
opaco e ogni incompleto tratto di realtà…
(Occhiali);
…è l’intestino in testa, è la matassa
grigia e stagna, la cesta del budello
la vera camera di combustione
che trae energia dal fuoco e fa
materia dell’idea creando l’opinione
(Cervello).
Acuto e mai autoriferito osservatore, così, metà bambino entusiasta metà accorto fenomenologo, il poeta guarda, scheda, ordina, squadra, apre, forza e disseziona gli oggetti che lo circondano, offrendoci una galleria di immagini e speculazioni forti, al tempo stesso, di minuzie analitiche, scientifiche e di trasporto emotivo, emozionante e emozionato, addirittura lirico:
Il nodo che chiude la fessura
e stacca via il tubo della corda
dalla cisterna del brodo primordiale
a scindere la vita nel suo vivido passare
di colpo dal doppio al singolare…
La scarna apertura, sì, dell’ombelico,
il monito della sua piccola ferita.
(Ombelico)
Le persone muoiono e restano le cose
solide e impassibili nelle loro pose
nel loro ingombro stabile che pare
non soffrire affatto contrazione dentro casa…
(Le cose).
A completare e a complicare il percorso di ricerca e formazione, poi, di questo uomo-poeta protagonista de Le cose del mondo, non può mancare, con lo sguardo, con l’occhio, lo strumento davvero principe di ogni analisi: la lingua. La parola. Lo strumento, certo, ma al tempo stesso pure la cosa più misteriosa che si possa incontrare. Insieme aiutante e antagonista, oggetto da conquistare e arma già abilmente maneggiata, la parola in questo peculiare racconto in versi è per Ruffilli il primo e l’ultimo dei grandi misteri da osservare, schiudere, tentare di comprendere, la meta e ancora il punto di partenza del suo viaggio di formazione. Come non rendersi conto, infatti, che di ognuna di quelle cose, che di tutta quella realtà – di tutta quella vita, persino – che s’è osservata e s’è pensato di conoscere, non è stato colto che…il nome e che, per giunta, non si può far altrimenti?
Non è possibile uscire dalla gabbia del linguaggio: non si può che continuare a nominarle, le cose che s’osservano, rischiando ogni volta l’illusione e l’autoinganno. Consapevole di quest’inesauribile cortocircuito tra lingua e mondo, linguaggio e pensiero, significato e referente, Ruffilli, in un misto di eccitazione e frustrazione, di paura, quasi, e irresistibile frenesia creativa, dedica tutta l’ultima parte del percorso a un’indagine di cui sa già, in fondo, l’esito:
Il nominare chiama, e sì,
chiamando ecco che avvicina
invita ciò che chiama a farsi essenza
convocandolo a sé nella presenza”
scrive alla fine, intonando di fatto, in un unico fiato, il canto del cigno (“il nominare” al massimo “avvicina”, non coglie né conquista davvero) e il primo vagito (“invita ciò che chiama a farsi essenza”) della poesia – della parola in sé, anzi: cosa essa stessa, e vita e morte delle cose in un unico momento.
Un approdo, questo, che ricorda alcune pagine dell’ultimo Caproni (ma Ruffilli è caparbio, meno, in un certo senso, disincantato), quello più epigrammatico e filosofico, che non s’illude più di poter scardinare la gabbia del linguaggio. Non è un caso che ci sia venuto in mente Caproni, poeta che in questo Le cose del mondo sembra massicciamente presente lungo tutta la prima sezione: Nell’atto di partire. Preludio e mise-en-abîme del libro tutto, questo capitolo è in fondo un viaggio nel viaggio, affine per tenuta e per respiro alle caproniane Stanze della Funicolare (un esempio: “È all’improvviso, dentro il tunnel / che non finisce mai, nell’aria morta / che pizzica alla gola. Tutte le volte / che ci sono già passato.”), rispetto alle quali sembra porsi come controcanto, testo-a-fronte, scandito com’è in compatte, separate ma organiche poesie che paiono simulare l’andamento del treno che avanza o s’arresta, ognuna al tempo stesso vagone e treno intero, viaggio e visione, riflessione e descrizione, itinerario concreto e percorso allegorico, lungo una linea narrativa e simbolica che sin da subito, tra le righe, mette in luce quel rischio d’illusione di cui sopra:
…sarebbe la riprova certa di condanna
senza mai riposo, e si vedrebbe
che non si avanza di una spanna,
che più si va e meno si trova
e non si arriva da nessuna parte.
Iconico di questa specie di gara col mondo e col linguaggio, sorta di ultima speranza di ottundere quel rischio e quell’autoinganno, di mantener uniti almeno suono e senso, è l’uso, studiato eppure percepibile come istintivo, quasi estemporaneo, che Ruffilli fa delle rime: un continuo tentativo, ora in armonie, ora in dissonanze, ma mai davvero quieto né sereno, di ordinare il non-ordinabile o, viceversa, di cogliere e veicolare l’organizzazione del disordine. A impiegare e a distribuire tutte le tipologie di rima (e, con queste, le diverse variazioni metriche e melodiche che gli offre la magmatica morbidezza dell’italiano, ora assecondata – “Ora l’evidenza che segna nel distacco / e fuori dall’abbaglio che ruba luce / nascondendo agli occhi il fondo…”, Il vento della vita –, ora cristallizzata e dopo infranta – “Chi è che / il sogno e il desiderio / l’attesa e la speranza / aspettano intrepidi / fantasticando…”, Il presente) Ruffilli è abile, così attento all’equilibrio tra l’elemento estetico, ritmico, e quello più propriamente funzionale, tanto da rendere ogni testo quasi una partitura che significa per come suona prima ancora che per quel che canta.
E allora che si ascoltino, questi testi, si leggano ad alta voce e ci si lasci un po’ guidare, ché quella gara e quell’inganno, quel cortocircuito e quell’affanno, quella ricerca e quell’approdo ci riguardano tutti, anche se non lo sappiamo:
Solo tra le braccia della vita che rinasce
si spegne la sete di risposta al buio del mistero,
consegnati da se stessi al dolore e al desiderio
di un vuoto mai riempito per intero…
(La sete).
© Sacha Piersanti,
febbraio 2020