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Martina Campi, Quasi radiante (nota di Anna Maria Curci)

Martina Campi, Quasi radiante. Prefazione di Fabio Michieli. Postfazione di Sonia Caporossi, Tempo al Libro, Casa Editrice in Faenza, 2019

Ha un trionfo l’amore e la morte ne ha uno,
il tempo e il tempo dopo.
Noi non ne abbiamo alcuno.

Solo calare d’astri intorno a noi. Riverbero e tacere.
Ma il canto oltre la polvere dopo
ci saprà sormontare.

Questo componimento, il quindicesimo e ultimo dei Canti lungo la fuga che Ingeborg Bachmann pubblicò nel 1956 nella raccolta Invocazione dell’Orsa Maggiore e che ho proposto in apertura nella mia traduzione, è risuonato alla mia memoria percettiva così come alla coscienza che raccoglie e riannoda i fili, che distingue e collega traiettorie, tutte le volte che sono tornata a leggere Quasi radiante di Martina Campi. In Quasi radiante, infatti, così come nel testo di Bachmann, è possibile cogliere il segno, o meglio, le evidenze diffuse della sconfitta di un “noi” e, tuttavia, la tenace, caparbia resistenza del canto.
C’è, inoltre, nelle due opere qui affiancate, una particolare qualità della luce, che emerge nella raccolta di Martina Campi e che nella poesia di Ingeborg Bachmann si irradia dalla parola Abglanz, riflesso, riverbero.
Nell’ascesa verso la luce – tratto giustamente messo in evidenza da Fabio Michieli nella sua Prefazione – chi guarda e cerca è colpito in vario modo dai suoi raggi. Traiettorie, angolature e prospettive mutano e deviano dalla direttrice principale, conferendo allo sguardo che scruta e che coglie, così come agli oggetti minuziosamente registrati come dato sensibile, ampiezza e complessità, caratterizzate da una mobilità continua del punto di vista e da un conseguente spostamento di significato.
Come per il “canto oltre la polvere” nella poesia di Ingeborg Bachmann, anche per la “parola campiana” (Sonia Caporossi nella Postfazione) si avvera il prodigio della trasformazione del dolore esistenziale, della condizione permanente di sconfitta, della negazione di qualsiasi trionfo in “tocco leggero” che restituisce “grazia e compostezza” (ancora Sonia Caporossi nella Postfazione).
La mobilità e l’ampiezza del senso sono tratto costitutivo, già dichiarato nel titolo, di Quasi radiante. Ora, se nel verso dal quale esso è tratto, «quasi innocente quasi radiante», esso appare con il suo primo significato, vale a dire nella forma dell’aggettivo sinonimo di “raggiante”, già attestato dagli scritti di Francesco d’Assisi, man mano che si procede nella lettura della raccolta si fanno strada gli altri due significati, l’uno relativo al campo dell’astronomia, l’altro relativo al campo della geometria. Vanno incontro a chi legge e rendono più fitti i rimandi al senso e alla sostanza dell’impresa.
È un’impresa attraversata nel segno del riconoscimento della solitudine, del silenzio che assalta il “noi”, di un «deserto anacoluto» (questo è il nome di una delle sezioni) che dilava, dissolve, spezza le linee rette e provoca fratture: «Comunicare se ne va da noi,/ qui ci fermiamo con le bandiere abbassate/ alla chiarificazione arida come le sponde/ all’indietro su bicchieri tenuti/ con i gesti antichi dell’abitudine» (p. 51).
La «testimonianza di una lingua in forma di assenza» (titolo della prima sezione) si avvera nel prendere atto del canto, che modula la sua voce, appunto, nell’assenza (della quale si indagano, nella quinta e ultima sezione, i «sensi possibili») e nella disgregazione, «nel vento costante del non ritorno», «verso altre disgregazioni l’autodeterminazione linguistica» (p.93).

© Anna Maria Curci

 


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