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Martina Campi, Quasi radiante

Martina Campi, Quasi radiante. Prefazione di Fabio Michieli. Postfazione di Sonia Caporossi, Tempo al libro 2019

 

Deserto anacoluto

I

Io l’attendevo la pioggia purché facesse
da sé tutto il nero scompiglio
di cielo severo, pomeriggio inflessibile
lucido viscerale e disperato,
per i fondi bucati nelle giacche,
gli aggettivi, eccetera
ossa, che avevano gettato la spugna.

II

La fine frusta di una sera
al confine, a fare il nulla
e sembrarsi confusi
da strozzarsi la gola,
per osmosi
carne defunta
nei rimorsi a porta aperta.

III

Tenevo il tempo al collo
solo per vedere l’alba
e scesi io stessa
nel giardino soffrendo d’aria,
l’ombra dei (mai) nati (mai) morti
non ancora impossibile,
tanta solitudine.

 

[…]

Ho dormito settimane per tornare simulata,
pallida mimesi a distanza
infinita, simulacro del divenire
corpo trapiantato fuso alla voce
e nulla da dichiarare, se non la candeggina

 

Consuetudine al segno di una città

[…]

i Mietitori del sorriso danzano come le spighe al vento quando ondeggiavano sulla terra ormai secca le sere d’agosto, nel silenzio abitato da un frinire ininterrotto che precedeva soltanto i canti e le danze nella notte di San Giovanni; ma la danza dei Mietitori è quella dei Dervisci, non segna calendari né i più antichi tragitti del sole, sola come un vento s’alza altrove, avanza silente aperta intorno al paese delle vacanze, incurante delle cicale e degli ululati dei cani

 

Sensi possibili dell’assenza

[…]

Non accadde nulla
se non il vagare
per giorni d’anima
in fuga dalle urla
verso la carità del silenzio,
ma la strada era un canto
generoso scambio di voci.

 

Dalla PrefazioneQuasi radiante

È sempre la vita a essere posta al centro della poesia di Martina Campi, da che la poesia moderna – a detta di Guido Guglielmi (Poesia e dialettica, «Nuova corrente», 89, 1982) – non possiede più mo­delli e quindi deve produrne; sicché la propria esistenza diventa un modello euristico: l’esperienza vissuta viene così trasfigurata nei versi per cogliere quegli elementi che la rendano universalmente condivisibile con chi, poi, ne suggerà il lurco, ossia il lettore. Se così non fosse, ci ritroveremmo a fare i conti con l’ennesima con­fessione autoreferenziale.
Non è più solo un viaggio in sé stessa: si esce dai limiti del proprio corpo/io (un io «randagio, e mai compiuto») per tentare, con dichiarata umiltà sin dal titolo – Quasi radiante –, l’ascesa verso la luce che irradia l’esistenza e, quindi, guardare alla stessa esistenza. E nel fare questo la poesia tenta nuovamente la via del “quasi” poemetto, o comunque di una architettura coesa, precisa, puntuale, che sorregga il discorso; un discorso che assume i contorni di una confessione e i tratti di una preghiera laica al contempo, scandite in sequenze di tre componimenti introdotti, o anticipati se si preferisce, da una sorta di breve prosa poetica, un “argomento” diremmo se trattassimo del primo Dante; un’architettura solida a cui fa da contraltare (paradossalmente) una sintassi frammentata, franta, di­sgregata, nella quale agiscono forze di rottura con la tradizionale struttura della frase (frequenti, per esempio, le dislocazioni a de­stra), “quasi” a voler marcare il territorio cedevole, caduco, inde­terminato, della parola che tenta di contenere il pensiero, cattu­rarlo, proprio nel momento in cui ascende; e questo perché la poe­sia ha bisogno principalmente di interrogare il linguaggio per poter interrogare le cose, poiché «la parola poetica – ci dice sempre Gu­glielmi – resta più che mai una parola improbabile in un mondo retto dalla necessità»; ed ecco allora che Martina Campi può arri­vare a pronunciarsi in attesa – «nell’assenza/ nel vento costante del non ritorno», eccoli i segni del paradosso – del giorno dove so­vrane sono le «pulsioni/ verso altre disgregazioni e l’autodeterminazione linguistica», vera e propria “testimonianza di una lingua in forma di assenza”, come recita il nome di una delle sezioni della raccolta. Una consapevolezza di quanto possa essere fragile l’io in questa contemporaneità che tutto travolge nel suo uniformare, dove pure la dimensione onirica porta in sé il dubbio di un vivere anestetizzato, di un risveglio post operatorio con la sconcertante scoperta di essere una pallida immagine di sé: «Ho dormito settimane per tornare simulata,/ pallida mimesi a di­stanza/ infinita, simulacro del divenire/ corpo trapiantato fuso alla voce/ e nulla da dichiarare, se non la candeggina». Impossibile non ritrovare in questo «corpo trapiantato fuso alla voce» la conferma della “conclusione” di Christian Tito, che nella postfazione a La saggezza dei corpi (L’arcolaio, 2015) avvertiva l’essenza tutta della po­esia di Martina Campi non disgiunta dalla dimensione orale. Un flusso continuo tra scrittura e oralità.
[…]
È uno sguardo lungo, da «occhio famelico», quello che agisce nella raccolta, volto a scandagliare con attenzione le poesie all’ombra (al nero) dell’era della disgregazione, nel quale i barlumi di luce sono radenti, impercettibili ai più, quasi presagi di salvezza o àuguri di rovina, a seconda di come vogliano essere interpretati dallo sguardo, al quale «tutto tace nell’attesa/ di irradiarsi deflorando ogni riparo oscuro,/ o disgregarsi, decostruito come una macchina.»
[…]

 


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