Una casa di allarmi
La schiena fresca e rosa
di Settembre
ha un modo di fare lunare,
farsi colonizzare i fianchi
da tramonti
in museruola di nuvola:
è l’ultimo saluto
al Sole.
A fine Agosto
tutti gli uomini
sono opliti
imprigionati in sculture
termodinamiche e,
muovendosi,
spargono linfa per
lucertola e grano.
E così, eccoci ancora a casa:
ma che bel guscio di meraviglia,
poltrona con braccioli-marzapane
e anche due braccia nere
taiwanesi,
sottovetro di sveglie,
solcano un lento applauso
di tartaruga.
Cammino quindi
su un pavimento melmoso
e soffice
di ricordi alati,
impigliati alle lancette
come il dente di leone bianco,
fecondo e viscido di vento.
Chiamo per nome le mani,
chiamo per nome le dita
e tutte le unghie
cadute negli anni
e fuggite come lepri albine.
Anche lo sfilacciare
di lampada
è un sogno corale
per i corazzieri di luce.
È una casa di allarmi
sospesi ma sempre in agguato,
rifugio dal calore
in una bolla segregata dal tempo.
Quando la sveglia
si farà olifante,
spelliccerà le bolle
col loro stesso fuoco.
Si starà peggio fuori
che in questo paradiso di trappola?
Palinsesti al vapore
Non c’è tv di guerra
in questa casa soffocata di noia,
solo lo schiaffo del respiro
che rimbalza sul vetro
e crea forme frastornate di gocce.
Questo vapore a strisce
incupisce la visione,
ma poi scolora
e se tutti soffiassimo insieme,
ci sfocheremmo
annegando
in tende d’acqua.
Fortuna che il dito indice
soccorre in volo
l’oscuramento,
tracciando
orecchie,
naso,
bocca
e in un solo gesto
rimuove il cupo
e forgia compagnia
a tempo determinato.
Un volto,
quindi, si esibisce,
poi si rintana nell’aria
e il vetro torna limpido.
Si soffia ancora,
in ritmo,
come a seguire un neuma,
ed ecco un altro volto neutro
da definire:
stavolta – decide il dito –
sarà un gatto d’acqua.
La regia è ormai un coro.
Alle mie spalle
a ingrossare il soffio,
eccole, vive,
le figure create sul vetro.
Le stanze dentro
Nel letto notturno,
col risucchio siderurgico
che gorgoglia distorto
dalle spire del cortile condominiale
e una lucetta a risparmio energetico,
leggo di Alesi Eros
(che a Ciampino voleva darsi il tempo
di raddolcirsi la bocca amara).
E quando leggo un corpo,
una città,
un canto,
io lo sfilo via.
Lo sfilo dal vestito di cancro
che ha addosso,
dal nodo di catene grezze
che lo inchioda ai santuari terrestri,
e me lo porto in corpo,
scavandomi stanze dentro,
monolocali di carne
per ospitare chi non può più
scrivere di sé.
Rabdomante di liberazione
(«Tu che trovi rimedio a tutto»,
mi dicevano, che poi non è vero),
scruto un corpo,
una città,
un canto
che procedono uno alla volta
fondendosi le mani
in un’unica ombra-processione
e affondano come le ore
nella pelle che annega,
quando non c’è Luce.
Sono figure in corsa,
fiere come bombe lanciate addosso,
e per questo d’istinto si respingono,
d’istinto e con l’istinto.
E invece
un uomo,
un folle,
un rifugiato
si può liberare
con l’inversa pazienza del ragno
tagliando filo dopo filo,
fino a raccoglierlo e nutrirlo dentro di sé.
Come piramidi o montagne
conservano nel ventre uomini e animali,
ci basterà la piega di una palpebra
per farci dormitorio d’esseri
nudi, stanchi, poveri, oppressi,
distorti, riflessi,
vivi?
Catturati da astronavi esplose,
caduti da stelle incenerite
dritti nei palmi giunti delle mani?
Goccia d’acqua
in fuga da una crepa,
tu, stanotte,
scandisci in una coppa
l’orario metallico
di un pianeta diverso,
o forse solo un orario diverso,
mentre il risucchio si allontana
con voce d’Orco e passo da Gigante.
Contorno d’uomo
che corri su una meridiana
e attendi un coro bianco di luce
che sbuffi via la gente dalla tana:
ricomincialo tu il mondo,
segugio di cenere,
tra stanze fuori,
e stanze dentro,
tutto da capo.
Mauro De Candia, Le stanze dentro, Edizioni Ensemble 2018
Mauro De Candia è un insegnante e gestisce il blog «Il Calamaio Elettrico». Sue poesie hanno ricevuto numerosi riconoscimenti. Le stanze dentro è la sua prima raccolta poetica.
Una replica a “PoEstate Silva: Mauro De Candia, poesie da “Le stanze dentro””
L’ha ripubblicato su Matteo Mario Vecchio.
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