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#Teratophobia di Gaia Giovagnoli (rec. di Francesca Ruina)

Gaia Giovagnoli, Teratophobia, ‘round midnight edizioni 2018

«Ti porto i chiodi […] il resto non so dirlo». Teratophobia parte da qui, da un estimo «Io-carne» − la prima delle quattro sezioni che compongono il testo della Giovagnoli −, un bolo appeso come un quadro vuoto in mezzo alla gola. Una mancanza che si fa traccia di nomi da (non) reperire. Un resto di corpo sbrandellato che giace inerme a guardarsi. La pelle è (una) coperta di «carne slacciata», che tiene insieme il soggetto come le stringhe vangoghiane rammendano l’incerto incedere di passi senza viaggiatore. L’Io, qui, è un corps morcelé, direbbe Lacan, una summa di pezzi frammentati che lottano per restare insieme, per trovare un senso attraverso un’indicibile parola, mentre il corpo esonda, si sparpaglia, si smarrisce. C’è, nelle parole di Gaia Giovagnoli, la paura − umana, troppo umana – del mostro che noi tutti siamo. L’angoscia che l’Io non esista, la palpazione fisica della mancanza. Un restare incastrata tra le ossa e il respiro, tra gangli arresi e pupille dilatate.
Poi arrivano «Loro-la radice» − seconda sezione della raccolta. Loro sono la casa, sono tutti i dettagli dello spazio, dove «il salotto è un palmo vuoto» e «le forchette […] un ringhiare di denti incisivi» e «il cassetto […] un baratro aperto». Il focus di queste poesie si sposta da un corpo-oggetto a degli oggetti-corpo. Il caffè della moka sembra salire in bocca come un conato di bile. C’è in questi scritti un vomito di cose che non fanno casa, di abbracci senza braccia, di padri madri fratelli abortiti. Violente, viscerali, le parole di Gaia colpiscono il lettore per la loro materica fragilità, facendolo tornare nelle stanze piene-vuote che lo abitano. Piene di cose e vuote di senso. Toccabili e non dicibili, in una sorta di impossibile chiasmaticità, di irreversibilità dei sensi.
«Lui-lo strappo» sono poesie di margini da sfiorare appena, da bordare con parole tritate e passi denudati. C’è qualcosa di piccolo che scricchiola, un dolore che avanza, che resta indietro e al tempo stesso incede e incide. C’è un «pesce [per cui] non piange nessuno», «scriccioli di carne» che perdono i confini e le forme. Come una carezza al vuoto, una mano alzata in attesa di essere stretta da qualcuno che non c’è. «Ho ammaestrato la lingua a tacersi», dice, a non domandare l’assenza, a non farsi grido ma sguardo. «Abbraccio ciò che avanza», lo strappo, chiedendogli di restare.
Nell’ultima parte − «Tu-il nodo» − c’è qualcosa che nasce, che spinge forte verso la luce, facendosi carico dello «scrigno di resti». C’è da qualche parte un amore che salva, che non cancella le ferite ma le accarezza: «mi infilavi al dito un bordo: guardandoci l’un l’altra scopriamo di averlo». E allora «rifaccio foresta sullo schianto», in un tentativo di (ri)scrittura e di (ri)significazione della propria, seppur impossibile, identità. Dal corpo lacerato all’amore, in un viaggio verso il nome proprio.
Teratophobia è un cammino faticoso e complesso attraverso la paura, un modo di allacciare nodi scomposti, di farsi casa, di stare nella mancanza. Un tornare piccoli piccoli, in quella che la Candiani ne La bambina pugile definisce «briciolitudine», per osservare da lì il proprio corpo, che è sempre soggetto e oggetto insieme, pelle che unisce e che separa. Ma è anche una (ri)nascita, attraverso un’uccisione, una trasformazione e un’accoglienza di ciò che è «straniero a noi stessi», per usare un’espressione di Julia Kristeva, e che dunque fa paura. Gaia Giovagnoli dimostra in questi versi di essere una poetessa di rara delicatezza e profondità, riuscendo a rendere materica e comunicabile una sofferenza intima e indicibile. Senza paura – nonostante e grazie ai mostri – di perdersi, senza l’illusione di una fantomatica pienezza, di una salvazione; che, come scrive, «tornassi salva/ non ritornerei»..

© Francesca Ruina


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