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Lorenzo Pompeo, Le quattro stagioni di Praga (1918-1938)

Il 3 gennaio del 1924 morì a ventiquattro anni di tubercolosi Jiří Wolker. Aveva fatto in tempo a pubblicare due raccolte di poesia, Host do domu (trad. it.: “L’ospite in casa”), nel 1921, e, l’anno successivo, Těžká hodina (trad. it.: L’Ora difficile), che tuttavia avevano lasciato un segno. Tra i poeti, i critici e gli artisti che avevano dato vita nel 1920 Devětsil (nome del Petasites officinalis, meglio noto come “farfaraccio”) la poesia di Wolker fu un punto di riferimento fondamentale. La poesia proletaria, di cui Wolker fu un sincero cultore, divenne infatti la tendenza dominante in questo gruppo (bisogna comunque ricordare che nulla aveva a che vedere con quel “realismo socialista” di marca sovietica, che venne ufficialmente adottato in Cecoslovacchia solo a partire dal 1948). Jaroslav Seifert nel suo libro di memorie Tutte le bellezze del mondo ci offre un racconto toccante delle esequie del giovane poeta. «Eravamo seduti al lungo tavolo nella casa dei Wolker, sulla piazza di Prostějov. Di fronte a me avevano fatto sedere una ragazzina che la signora Wolkrová aveva vestito a lutto stretto, con un abito di crespo nero merlettato. Mentre seguiva il feretro, accompagnata dal fratello di Jiři, aveva il viso coperto da un pesante velo, e così solo a tavola potemmo intravedere gli occhi arrossati dal pianto dell’ultimo amore di Wolker».[1]
Erano passati sei anni da quel 28 ottobre del 1918, quando era stata proclamata a Praga l’indipendenza della Cecoslovacchia. Nel febbraio del 1920 venne approvata la costituzione della neonata Repubblica e ad aprile dello stesso anno si tennero le prime elezioni. Il Partito Socialdemocratico cecoslovacco fu quello che ricevette più voti (così come i partiti socialdemocratici che facevano capo ai gruppi etnici tedeschi e ungheresi).
Al 5 ottobre del 1920 risale la prima riunione informale di quel gruppo di artisti e poeti di ispirazione socialista Devětsil. Figure di spicco di questo gruppo furono il poeta Jaroslav Seifert e il critico e teorico Karel Teige. Nume tutelare di questo raggruppamento fu la figura di Apollinaire che nel 1920 era stato tradotto da Karel Čapek. Nel confuso clima di rivolta e in quell’appello al rinnovamento dell’arte secondo i principi di un’arte proletaria, il cinema veniva considerato un esempio di arte popolare rivolta alle masse («Traspare da questa religione del nuovo ad ogni costo una buona dose di deliziosa ingenuità»[2] scriveva a proposito Angelo Maria Ripellino). Ma l’astro del gruppo fu proprio Wolker, il quale, dopo la sua prematura scomparsa, fu oggetto di un vero e proprio culto popolare.
La Rivoluzione russa suscitò un aspro dibattito all’interno del Partito Socialdemocratico cecoslovacco, diviso tra un’ala “rivoluzionaria”, che avrebbe voluto importare il modello “sovietico” (nello stesso anno l’Armata Rossa si spinse fino a Varsavia, dove venne respinta il 5 settembre) e un’ala contraria a tale soluzione. L’ala rivoluzionaria convocò un congresso e occupò la sede del Partito e la tipografia. Si finì allo scontro tra le due fazioni e a disordini nelle piazze che sembravano la premessa di moti rivoluzionari. Tuttavia la legalità venne ristabilita (non senza una feroce repressione). I manifestanti vennero arrestati, ma subito dopo amnistiati dal presidente e così nel maggio del 1921 venne fondato il Partito comunista cecoslovacco. Molti dei poeti, degli artisti e degli intellettuali che fecero parte del Devětsil collaborarono con la stampa legata al Partito comunista. Nel suo libro di memorie Jaroslav Seifet racconta di quando il poeta Stanislav Kostka Neuman lo fece entrare nella redazione della casa editrice comunista Orbis: «All’inizio degli anni venti, quando avevo ormai dato l’addio per sempre all’idea che come privatista una volta comunque avrei comunque terminato gli studi ginnasiali e preso la maturità, (..) St. K. Neuman mi chiese con tono un po’ amichevole, ma comunque un po’ brusco, come mi figuravo la mia esistenza nel prossimo futuro. A dire il vero, questa domanda da parte sua mi meravigliò alquanto, ma non mi mise in imbarazzo. Avrei scritto versi. Neuman sorrise, mi poggiò la mano sulla spalla e andammo a berci una birra. Nel giro di una settimana, poi, mi trovò un posto di lavoro nella Casa editrice comunista a Praga.»[3]
Lo stesso Seifert racconta di alcuni suoi viaggi a Brno nei quali conobbe un giovane e timido dipendente di una libreria, František Halas, il quale aveva appena cominciato a scrivere versi e che fu subito accolto nel gruppo del Devětsil.  Intanto, poco dopo la prematura scomparsa di Wolker, in seno al gruppo si manifestarono nuovi fermenti e nuovi interessi. La poesia proletaria non fu più il punto di riferimento per i poeti della compagine praghese. Nel 1924 comparve sulla rivista «Host» lo scritto di Teige che viene considerato il manifesto di quella nuova tendenza che venne definita “poetismo”: «più che un’estetica o una tendenza letteraria, il poetismo voleva essere lo stile e il gusto di un’epoca. Il suo credo, fondato su basi marxistiche, scaturiva da un’ottimistica fiducia nella bellezza del mondo e da un intenso amore di tutte le cose moderne. Proclamando la gioia di vivere e la rivoluzione del riso e dell’allegria, dopo le angosce della guerra che aveva reso tristi gli uomini e desolati, il poetismo si proponeva di fare della vita un “eccentrico carnevale, un’arlecchinata di sentimenti e di rappresentazioni, un ebbro montaggio filmico, un meraviglioso caleidoscopio”».[4] Nel 1924 Vítězslav Nezval, anche lui proveniente dalle fila del Devětsil, pubblicò la raccolta Pantomima, che viene comunemente considerato il manifesto poetico del poetismo.
Praga fu in quegli anni un crocevia di influssi, di mode, di nuove tendenze. Le più importanti provenivano dalla Francia. Non solo il cubismo, ma anche la nascente arte astratta, tendenza della quale fu pioniere il pittore ceco František Kupka, che si era trasferito a Parigi nel 1894 ma che per tutta la vita mantenne vivi contatti con la madrepatria (nel 1923 venne pubblicata la traduzione in ceco del suo saggio La Création dans les arts plastiques). Nel 1920 si era trasferito nella capitale ceca il linguista e semiologo russo Roman Jakobson, dove nel 1926 fu tra i fondatori del circolo linguistico di Praga, cenacolo di fondamentale importanza per nella storia degli studi di semiotica e linguistica. Fu proprio Jakobson a far conoscere agli ambienti del Devětsil Majakovskij e Chlebnikov.
Anche dal punto di vista musicale furono anni cruciali, nei quali le strade dei maggiori compositori europei di quel momento si incrociarono tra Praga, Parigi, Vienna e Berlino, con i colleghi cechi: «Sono gli anni in cui dilaga la musica di Igor Stavinskij, e del gruppo dei Sei parigino, quella di A: Honegger e di D. Milhaud. È l’epoca della penetrazione della musica tedesca di P. Hindemith, di A, Schomberg e di A. Berg (..) Delle opere di altri maestri della musica contemporanea vanno ricordate soprattutto quelle di B. Bartok. Nell’ambito delle influenze moderne che giungevano dalla musica dell’occidente e che costituivano fonti di ispirazione per la nuova creazione, determinante fu senza dubbio il jazz che influenzò notevolmente numerosi compositori di talento. (..) É il tempo di una raffinata semplicità nella musica, che accoglie in sé nel contempo il ritmo e la modernità delle grandi città ma subisce anche l’ondata vitale della nuova sensualità».[5]
Personalità di spicco nel campo della musica fu in questi anni quella di Leoš Janáček, il quale, finalmente vide riconosciuto il proprio talento. Aveva sessantaquattro anni quando nacque la Cecoslovacchia. Nominato nel 1919 professore al conservatorio di Praga (incarico che ricoprì fino al 1925), Janáček divenne musicista ufficiale della neonata Repubblica, che gli commissionò più di una volta lavori per occasioni celebrative. «Sennonché l’indipendenza cecoslovacca non aveva interamente appagato le aspirazioni di Janáček, che anzi nel nuovo clima s’accostò maggiormente all’Espressionismo[6]. Sostenitore proprio per ciò delle nuove tendenze musicali europee, isolato ammiratore del Wozzeck di Berg quando nel 1926 cadde clamorosamente a Praga, vicino agli ambienti avanzati, a cui lo legava l’amicizia con Max Brod, suo futuro biografo, visse gli ultimi anni della sua lunga e laboriosa esistenza in un’assorta solitudine interiore.»[7]
Nel 1926 il settantaduenne compositore portò a termine quelli che possono essere considerati i due punti più alti, sintesi della sua intera creazione artistica: la Sinfonietta e la Messa Glagolitica.
«Non c’è nulla di paragonabile alla Messa Glagolitica nella musica sacra occidentale, e, sebbene possa essere compresa nel novero delle musiche cristiane, nella sua espressione di gioia primitiva ed elementare è presente una nota di indubbio panteismo.»[8] Scrive Martin Cooper in La musica moderna: «otto pezzi poco o punto legati al rito liturgico, d’una irruenza dilatata nell’urto tra innocenza nativa dell’uomo secondo natura e l’incombere malefico di una mondana società distorta. Componimento in cui inaspettatamente riacquista importanza il canto folklorico potenziatore dell’espressione, anche se da questa assorbito per il costante anelito janacekiano verso la musica “moderna”».[9]
Caratteristico dello stile di questo periodo è però la Sinfonietta (1926): «nata da una fanfara per tredici ottoni composta per il congresso dei Sokol a Praga. Nonostante il titolo il lavoro non è affatto sinfonico, almeno non nel senso tradizionale, poiché i temi vengono raramente sviluppati e non appena un’idea è stata esposta cede il posto a un’altra (..). È un tipico esempio dello stile laconico e dichiaratamente “primitivo” di Janáček ed è una delle sue poche composizioni prive di un programma, implicito o esplicito.»[10] scrive a proposito Martin Cooper.
Nezval2.jpgQuel gioioso eclettismo, la tendenza a sintetizzare, assorbire gli stimoli provenienti da tutta Europa (Teige lo definì “epicureismo moderno”, Ripellino: “meraviglia e stupore dinanzi al mondo contemporaneo”) la troviamo anche nei poeti che si riconobbero nelle parole d’ordine del poetismo. I quali, tra l’altro conoscevano e apprezzavano la musica di Janáček e Martinů. (Scrive a proposito Seifert: «Dai Teige, nella stanza contigua a quella di Wolker, suonavano lo stesso Wolker e Nezval. Questi suonava freneticamente Janáček e Martinů, col quale ci conoscevamo»).[11]
Erano soliti frequentare il caffè Nazionale e il caffè Slávie, di fronte al Teatro Nazionale. («Sedevamo vicino alla finestra che dà sul lungofiume e bevevamo con piacere dell’assenzio. Era un modo per civettare con Parigi. Niente di più.»[12] – scriveva Jaroslav Seifert), luogo che venne menzionato in una prosa lirica nella raccolta del 1932 Skleněný havelok (trad. it. “la mantella di vetro”) come luogo nel quale sarebbe nato il poetismo («La mia vita più non mi appartiene sono sciolto/ in amore e le mie parole si mutano in pazze granate di malinconia/ il fantasma pieno di odore s’allontana e gli amici/ d’improvviso cinicamente ridono io sono in una strana/ incoscienza/ il bar è quasi vuoto/ quella sera nacque il poetismo»).[13]
Tra i “poetisti”, gli unici veramente nativi di Praga furono Jaroslav Seifert e il critico d’arte nonché teorico della letteratura Karel Teige, figura di fondamentale importanza nelle vicende intellettuali e umane del gruppo. Non a caso, i due furono legati da una profonda e fraterna amicizia («Di Teige mi innamorai di colpo. Da quel giorno ci vedevamo quasi quotidianamente. O a casa sua, o al caffè. Scoprii in lui un uomo la cui amicizia era davvero stimolante; a parte il resto, mi aprì le porte del mondo dell’arte»[14] – scrive a proposito del primo incontro con l’amico di una vita Jaroslav Seifert).
toyenSeifert esordì giovanissimo (aveva vent’anni) con la raccolta La città in lacrime, uscita nel 1921. Da poco aveva cominciato a lavorare per la casa editrice comunista. Fu grazie a Neumann (il quale gli aveva procurato il lavoro alla casa editrice) che il futuro premio Nobel 1984 esordì («Neumann passava spesso in casa editrice. Delle volte chiedeva al capo di darmi il permesso e andavamo a berci del vino. Davanti al bicchiere facevamo piani, oppure redigevamo la rivista «Reflektor». […] In uno di questi incontri, mi chiese quanti versi avevo pronti e di guardare a casa. La sera stessa misi in ordine tutti i manoscritti e il giorno seguente glieli portai. Egli li ordinò in modo diverso, approvò il mio titolo e mi raccomandò di farli battere a macchina. Di dare poi il dattiloscritto alla casa editrice e una copia a Teige: mi avrebbe disegnato volentieri la copertina e il frontespizio»).[15]
Sia ne La città in lacrime che nella raccolta che seguì, ovvero Sama láska (trad. it. “Solo amore”) del 1923, era evidente l’influenza della poesia proletaria, di cui Wolker era stato il maestro, ma in Sulle onde del telegrafo senza fili, del 1925, sono altrettanto evidenti gli influssi del poetismo. A fare da spartiacque tra le due fasi vi fu un viaggio a Parigi, nel 1924, in compagnia di Teige, che lasciò tracce evidenti nella loro biografia intellettuale e artistica.[16] «Come gli altri poetisti Nezval e Biebl, anch’egli ricalca le orme francesi, e soprattutto quelle di Apollinaire e di Cocteau. In questi versi si ritrovano gli oggetti dei quadri cubistici: pipe, fiori, bottiglie, carte da gioco, maschere, frutta e in ispecie picassiane chitarre. Pervasa di ironia lievissima e di nostalgico sensualismo, l’arte di Seifert nel periodo poetistico ha un suo umore di favola pastorale e di balletto rococò»[17] scrive Angelo Maria Ripellino.
cartolina praga 2La successiva raccolta, L’usignolo canta male, del 1926, fu ancora sotto il segno dello spumeggiante virtuosismo analogico del poetismo, ma già ne Il piccione viaggiatore, del 1929 «quella incolume spensieratezza cominciò a corrugarsi in gesti di irrequietudine e di mestizia».[18]
In quello stesso anno, nel mese di marzo, Seifert sottoscrive il Manifesto dei sette scrittori comunisti, contro l’affermazione della linea staliniana all’interno del Partito comunista cecoslovacco, dal quale venne per questo motivo espulso. In questa sua terza fase «Seifert prese a meditare sulla caducità umana, sul fluire del tempo e sulle convulsioni dell’Europa».[19] Da allora in poi la città di Praga, con tutto il suo carico di arte e di storia, divenne uno dei suoi temi preferiti. Nelle poesie di Seifert tuttavia la capitale ceca non è monumenti, arte e storia, ma anche il luogo dei ricordi di infanzia e della sua gioventù, che il poeta richiama alla memoria attraverso un velo di malinconica tristezza. Esemplare in questo senso la poesia Senz’ali:

Ho visto cadere imperi,
aquile senza testa, aquile senz’ali,
e che darei
per vederne ancora.

Allora io pensavo solo all’amore,
i soldati portavano grucce
e si sentivano battere zoccoli,
quei deliziosi zoccoli.

Allora ero sconcertato,
che sere, che fiori!
Quella volta le ali dell’arte
mi soffiarono il primo alito.

Seduto su un pendio
in dolci poeti leggevo
dell’amore, del morire,
e sotto trasportavano i feriti.

Cadde un berretto da una barella,
aveva il foro verminoso della pallottola,
ancor oggi talora m’appare
nei sogni e vedo soldati
cantando andare alla guerra.

Della morte però non ho più paura,
anzi civetto spesso con lei.
Ma quale paura, quale paura,
nell’ora ultima nostra
risonerà solenne l’orazione.

L’amore temo però da quei giorni,
esso s’aggira
ed è terribile più della tomba,
le campane e la bara nelle corde.

Per questo col fumo della mia pipa
costruisco un castello,
tela ragna della mia solitudine,
addio, tu e tu e tu,
e le altre tutte,

colombe senza testa, colombe senz’ali.[20]

Nel 1926, dopo sei mesi di scapigliatura e fame a Parigi, si era trasferito a Praga František Halas e aveva cominciato a lavorare per la casa editrice comunista Orbis. L’anno successivo esordì con la sua raccolta di poesia Sépie (trad. it.: “Seppie”). In piena temperie poetista, Halas mostrò subito una personalità artistica e uno stile completamente diverso dagli altri “poetisti”: «Alla fascinatio nugacitatis, alle fumisterie truffaldine del periodo poetistico succede un grottesco luttuoso, aggricciato da ghigni blasfemi e da brividi e lampi di metafisica disperazione» scrive a proposito Ripellino).[21] Oltre a un indubbia assonanza con la poesia espressionista tedesca, che aveva già esibito uno spiccato gusto del macabro (ricordiamo, ad esempio, Morgue, di Gottfried Benn), sono altresì indubbie le ascendenze della poesia barocca ceca. «Dinnanzi alle raccolte di Halas viene fatto di pensare, non più ad Apollinaire e Cocteau, ma alla poesia sepolcrale e notturna del seicento».[22] Ombra è uno degli esempi più eloquenti di “concettismo barocco” novecentesco:

Ogni ombra anche la tua è ombra dell’eternità
gemelli siamesi che separa solo la morte
tende agguati a ogni movimento involontario
il tuo nero levriere

Vedersi sempre in una positura da cui non ti potrai più rivoltare
un’avara misura di terra ti è commisurata
le tue ali nere quando perdi le bianche con l’infanzia
Icaro la tua caduta quotidiana

Una pozzanghera di lutto da te sgocciola
vi si specchiano gli occhi senza speranza e conforto
ma non finisce mai questo corteo
sei bara l’ombra tua morello funebre.[23]

La poesia di Halas ebbe la fortuna di trovare in Ripellino non solo un grande estimatore, ma anche un poeta che, nel tradurlo, trovò misteriose consonanze con la propria creazione artistica. Complice il barocco, mutuato dalle sue origini siciliane (in Sicilia nacque e trascorse i primi anni quattordici anni), Ripellino seppe non solo tradurlo magistralmente, ma trarne linfa vitale per la propria creazione artistica.[24] A sua volta, nella più volte citata Storia della poesia ceca contemporanea (la prima edizione risale al 1950), Ripellino riservò alla poesia di Halas i giudizi più lusinghieri: «Così il verso risulta, non da un impasto musicale come in Seifert, né da un effluvio di immagini come in Nezval, ma dal nudo rapporto tra le parole che reciprocamente si attraggono in gruppi isolati di analogie fortemente barocche. Ogni lirica si risolve in un allineamento frammentario di versi compiuti in sé e spesso autonomi l’uno dall’altro, versi di una concretezza prismatica e di una densità allusiva che è propria delle epigrafi e dei proverbi popolari».[25] Per via di questa singolare osmosi creativa è difficile oggi separare le due figure: Halas e Ripellino, oppure Halas è Ripellino? (oppure il contrario?). In ogni caso l’esito di questo connubio è stato felice, perché se ne sono giovate le traduzioni e la figura di Halas, che grazie allo slavista poté essere letto e apprezzato anche in Italia.
Vale la pena ricordare che tra i “poetisti”, Halas fu quello che, insieme a Seifert, poteva vantare origini autenticamente popolari e operaie e quelle immagini funebri e lugubri, che tanto piacevano a Ripellino, erano legate a ricordi di una triste infanzia segnata da miseria e lutti familiari (il poeta perse la madre quando aveva otto anni). Così come le simpatie per il comunismo non furono il frutto di mode effimere, ma erano legate alle lotte operaie a cui prese parte il padre.
Tutt’altro fu il tono e la cifra stilistica di Nezval: «egli impersona quell’amore del relativo, dell’irrazionale, dell’incostante che è tipico del nostro tempo. Il suo poetismo riflette l’esistenza come fluido, come torrente di associazioni sensuali, di bellezze estremamente caduche. Il mondo è una giostra, un fuoco d’artificio, uno scoppiettio di colori che svaniscono in un baleno: e la poesia? Non senza l’influsso dell’avventura dadaistica, la poesia è un “numero” da circo, un’esibizione fugace, una smorfia lirica, uno sgambetto di rime. Dai versi nezvaliani traboccano cascate spumeggianti, iridate, ebbre di immagini che, con proteiforme simultaneità, presentano lo stesso oggetto o sentimento da molti punti di vista» – scriveva Angelo Maria Ripellino.[26]
Nel 1934 Nezval era stato il redattore del manifesto del movimento, Surrealismus v ČSR. La presenza a Praga di Breton ed Eluard in quegli anni diedero al cenacolo di poeti raccolto intorno alle parole d’ordine del manifesto (anch’esso sostanzialmente di derivazione francese) un importante sostegno. Ma, al pari del surrealismo francese, anche la sua “filiale” ceca fu funestata da scissioni e contrasti feroci al suo interno (fu lo stesso Nezval nel 1938 a rompere con il gruppo dei surrealisti) a seguito della scomunica ufficiale del surrealismo lanciata dal Partito comunista francese nel 1932 (quasi tutti i surrealisti fino a quel momento avevano simpatizzato, chi più chi meno, per la causa del comunismo). Del resto i contrasti tra l’ala più vicina all’ortodossia staliniana e quella che invece ne rifiutava i diktat funestarono ovunque il movimento surrealista. Nezval nel 1924 era entrato nel Partito comunista e la rottura con i surrealisti fu anche una scelta obbligata dalla sua fede politica. La scelta di seguire l’ortodossia comunista successivamente lo portò ad adottare i principi del realismo socialista nella sua creazione artistica, che divenne una ripetizione di miti e figure retoriche funzionali all’ideologia di partito. Prima del 1938 tuttavia la sua creazione artistica rappresentò uno dei più importanti laboratori della poesia ceca tra le due guerre. Aveva esordito nel 1922 con la raccolta Most (in it. “il ponte”), e quello stesso anno entrò nelle fila del Devětsil, La raccolta nezvaliana La donna al plurale, pubblicata a Praga nel 1936, rappresenta forse l’apice della creazione artistica del poeta nonché del surrealismo ceco, di cui Nezval fu il principale alfiere. In questa raccolta l’erotismo è un elemento fondamentale di quello spumeggiante “torrente di associazioni sensuali” di cui parlava Ripellino. L’ombra del corsetto può esserne considerata un esempio eloquente.

Dimmi mazzolino di giunchi
Quale città di viscere ho attraversato
Il suo ariete picchia con forza
Mentre qualcuno di slaccia

Una torre di piatti
Mi teneva premuto alla propria base
Non so nulla

Senza alcun ricordo la mia cecità ed io
Dell’attività del palombaro null’altro conservavamo se
Non la voluttà di trattenere il respiro
La nostalgia di una città elastica
E la passione di ricercarne le rovine

Rifuggo il mio stesso respiro al suono di una stupenda fisarmonica
Disteso dal profondo il seno del mare si gonfia
Il folletto degli scuri muove le labbra e fischietta
Da qualche parte un pneumatico si sgonfia

Il corsetto però come una finestra dal vetro sfondato
Sul tavolo riposa mentre la neve cade
E dalla sua botte sconnessa
Sento solo salire l’acre retrogusto della vendemmia.[27]

Il surrealismo ceco, fu forse l’ultimo fuoco d’artificio nelle lettere ceche. Anche se rapidamente spento dall’incalzare degli eventi storici, lasciò comunque una traccia profonda e duratura nella cultura del paese (già nel 1946 le parole d’ordine e lo spirito del surrealismo vennero ripresi a Brno dal sodalizio dei poeti e degli artisti Skupina RA, che predicava l’assoluta libertà della creazione artistica, mentre in alcuni film della Nova Vlna, la Nouvelle vague ceca, è evidente la filiazione con il surrealismo). Il 30 settembre del 1938, con la firma del Trattato di Monaco, cominciava un lungo inverno a Praga.

© Lorenzo Pompeo

 

[1] Tutte le bellezze del mondo, Editori riuniti, Roma 1985, pp. 22-23.
[2] A.M. Ripellino, Storia della poesia ceca contemporanea. Edizioni E/O, Roma 1981, p. 17
[3] Tutte le bellezze del mondo, cit., p. 29.
[4] K. Teige, Stavba a baseň, 1924, da: A.M. Ripellino, Storia della poesia ceca contemporanea, Edizioni E/O, Roma 1981, p. 37.
[5] V. Stěpánek e B. Karásek, Breve storia della musica ceca e slovacca, Orbis, Praga 1964, pp. 107-108.
[6] Grande importanza ebbe l’influenza dell’espressionismo anche nelle composizioni di Bohuslav Martinů, musicista più giovane di 36 anni del suo connazionale, che si trasferì nel 1923 a Parigi, figura di primissimo piano nella musica ceca tra le due guerre «Martinu partì dalle tradizioni della musica ceca che rimase letteralmente alla sua guida, anche dopo lunghi anni di ricerca del nuovo stile in Francia. In gioventù subì fortemente l’influenza dell’espressionismo, e soltanto in Francia, quasi d’un tratto, scoprì il nucleo del tuo talento di compositore. La sua creazione fu influenzata dapprima in modo determinante da Stravinskij e dal Gruppo dei Sei (Half-time, La Bagarre), ma anche dal jazz, e da questo punto giunse fino alle più pregne espressioni del neoclassicismo. Si affezionò soprattutto a forme strumentali del concerto grosso barocco.» da: Dizionario enciclopedico della musica e dei musicisti. Le biografie, vol IV, Utet, Torino 1986, p. 113.
[7] Dizionario enciclopedico della musica e dei musicisti, Le biografie, vol III, Utet, Torino 1986, p. 726.
[8] Martin Cooper, La musica moderna. 1890-1960, in: Storia della musica, vol. X, Feltrinelli, Milano 1974, p. 316.
[9] Franco Abbiati, Storia della musica, Garzanti, in: Vol IV, Il novecento, Milano 1968, p. 731.
[10] Martin Cooper, Op. cit., p. 317-318.
[11] Op. cit., p. 123.
[12] Op. cit., p. 20.
[13] Trad. di A.M. Ripellino, in Storia della poesia ceca contemporanea, cit., p. 34.
[14] Op. cit., p. 99. Teige si era laureato a Praga nel 1923 in Storia dell’arte.
[15] Op. cit., p. 33.
[16] Così racconta quel viaggio lo stesso Seifert: «Con Karel Teige andai a Parigi passando, un po’ di straforo, per Venezia e Milano. Avevamo fretta. Soprattutto Teige. Avevamo una smisurata bramosia di conoscere l’arte moderna nel luogo in cui stava nascendo, crescendo e, nel contempo, esplodendo meravigliosamente come quotidiani fuochi artificiali risplendenti», op. cit., p. 112.
[17] In: Storia della poesia ceca, cit., p. 96.
[18] Ibidem, p. 96.
[19] Ibidem.
[20] Da Vestita di Luce, a cura di Sergio Corduas, Einaudi, Torino 1986, pp. 29-31.
[21] A.M. Ripellino, Saggi in forma di ballate, Einaudi, Torino 1978, p. 208.
[22] A.M. Ripellino, Storia della poesia ceca, cit., p. 101. Vale la pena citare quanto scrisse a proposito il critico ceco Kalista: «Quanto più ci si interna in considerare l’opera di Halas, tanto più ci si accorge che ha radici barocche, per convincersi infine che egli è il più barocco tra i lirici boemi che negli anni trenta, dopo girandole e fumisterie, afferrarono ai lidi della poesia secentesca, riscoprendo Bridel, Michna, Kadlinsky, le danze macabre, i canti sulle ultime cose dell’uomo» (citazione riportata da: A.M. Ripellino in: Introduzione, al volume Imagena, Einaudi, Torino 1971, p. 22).
[23] Da: František Halas, Imagena, a cura di A.M. Ripellino, Einaudi, Torino, p. 61.
[24] L’argomento sicuramente meriterebbe una trattazione a sé. Citiamo però quanto scrive Rosario Contarino in Il mezzogiorno e la Sicilia: “Il «derisibilissimo assolo» di Ripellino, segnato dalla «constatazione dell’incapacità» da parte della poesia di «consolazione e di salvezza», è un instancabile itinerario nel meraviglioso, ma anche un inesorabile gradus verso il dolore e la morte (La fortezza d’Alvernia, 1967), «il calvario di un clown, il quale s’ingegni di continuare a suonare su un logoro violino che va ogni giorno in frantumi». Tenue è chiaramente il legame tra «l’ironia funeraria» di Ripellino, albergata nel cuore dell’Europa slavo-tedesca, e l’umbratile e ardua cifra di Lucio Piccolo, (Palermo 1903 – Capo d’Orlando 1969), anche se non si può trascurare, come di uguale fattore conoscitivo, la comune nascita nella Palermo «europea» dei primi del secolo, nonché il richiamo ad una stessa categoria «tonale», quella del barocco, che era nella sua «disutile» inattualità, per entrambi oppositiva alla prevalente letteratura dell’engagement” – in: Letteratura italiana. Storia e geografia. Vol. III: L’età contemporanea, Einaudi, Torino 1989, pp. 785-786.
[25] In Storia della poesia ceca contemporanea, cit., p. 100.
[26] In Storia della poesia ceca contemporanea, cit., p. 78.
[27] Trad. di Giuseppe Dierna, da: La donna al plurale, Einaudi, Torino 2002, p. 45.

 

Una replica a “Lorenzo Pompeo, Le quattro stagioni di Praga (1918-1938)”


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