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proSabato: Umberto Piersanti, Cinquantuno («I fascisti, ci sono fascisti a filologia moderna!»)

piersanti cupo tempo gentile

Cinquantuno

«I fascisti, ci sono i fascisti a filologia moderna!»
Era una mattina con manifestazione contro l’America, tanto per cambiare, e dal Rettorato e da palazzo Vecchiotti dove aveva sede al primo piano filologia moderna, gli studenti si accalcavano stretti tra il palazzo Ducale da una parte, palazzo Petrangolini e la chiesa di San Domenico dall’altra, giù fino a piazza Rinascimento. E il cielo era chiaro, l’aria tiepida d’un autunno inoltrato che stentava a diventare inverno: un mattino come gli altri con manifestazione e cappuccino, chiacchiere al Cortegiano e passeggiate per il Pincio.
I fascisti erano quattro: tre ragazzi nuovi della zona, ma già noti per le bastonate date a qualcuno dei nostri all’uscita delle discoteche e da altre parti e Loru il sardo, quello dal coltello, che metteva paura a tutti. Loru non faceva lettere, ma farmacia: magari stava con gli altri tre solo per proteggerli. Questi dovevano passare per forza in mezzo alla manifestazione, dovevano fare un esame di linguistica col professor Forlini.
Gli studenti erano tanti: i tre si strinsero dietro Loru che, tirato fuori il coltello, camminava piano all’indietro per raggiungere la porta. I più vicini cominciarono a sferrare calci, tenendosi però lontani da quel coltello, ma Loru, questa volta, doveva avere paura anche lui: teneva il coltello fisso davanti senza mai uno scatto verso gli avversari: solo qualche irrisione e minaccia com’era il suo solito, volto contratto e agli altri dietro dovevano tremare le gambe. Raggiunto il portone, lo rinchiusero subito: e quelli a gridare e a calciarci contro.
Gianni si fece largo e la sua voce era proprio potente: «Compagni, quattro picchiatori fascisti si sono rifugiati nell’istituto. Forlini gli deve intimare di uscire e noi puniremo come si deve la loro provocazione. Sapevano che c’era una manifestazione per il Vietnam e sono venuti apposta, per provocarci: ma gli è andata male».
«Oggi ritorneranno a casa tutti in orizzontale» urlò uno dalla corporatura esile e dal volto gentile.
Andrea era lì in mezzo, ma solo per curiosità: le aggressioni a lui non piacevano proprio, la caccia all’uomo lo disgustava sempre, da qualsiasi parte fosse fatta.
Uscì il professor Forlini, un bell’uomo tra i quaranta e i cinquanta, capelli bruni e lunghi, quasi un accenno da capellone e giacca verde chiaro su calzoni sportivi, ma di buon taglio.
«Ragazzi, devono solo fare l’esame: io sono antifascista più di voi e vengo da famiglia antifascista: ma questi sono esami, solo esami, e si debbono svolgere nel modo più calmo possibile».
«Sono picchiatori, picchiatori fascisti, e la debbono pagare!»
«Questo è il momento degli esami: potrete saldare i conti con loro in un’altra occasione».
«Non ce ne frega niente se è il momento degli esami, questa volta non ce li lasciamo sfuggire: Forlini, falli uscire e basta. È meglio per te» chi aveva parlato era uno cupo, col cappuccio dell’eskimo tirato quasi sopra gli occhi.
«Ho fatto tutto il possibile: io non c’entro, me ne vado. Ripeto, io non c’entro niente con tutto quello che succede da adesso in poi. Ho il diritto di andarmene, sono stato minacciato».
Pilato – pensava Andrea – è proprio un Pilato: ma, al suo posto, quanti avrebbero rifiutato il ruoto di Pilato?
E Forlini si allontanò a passi fitti e misurati, cercando invano di nascondere la paura.
E allora tutti si precipitarono sul portone con calci e qualche bastone e si levava un urlo enorme, faceva paura. E non era il giorno dell’occupazione e dello scontro, l’urlo non era quello della lotta, ma del linciaggio. Anche a Urbino era arrivata la paura.
Il portone scuro e immenso non cedeva, quelli dentro dovevano averlo sprangato per bene.
E da qualcuno lì in mezzo, da una delle tante teste che s’agitavano lì sotto, venne un grido: «Fuoco, diamogli fuoco».
Andrea pensava che era una frase folle, ma non gli dava peso, una battuta: la paura era che la porta cedesse, non aveva mai visto i suoi compagni tanto scatenati. E invece qualcuno corse alle macchine con i bidoni presi chissà dove e buttarono la benzina davanti alla porta e tornarono frenetici a prenderne altra. E tutti applaudivano e c’era chi gridava: «Adesso li arrostiamo» e rideva forte.
Allora Andrea si fece avanti: «Compagni, è una follia, bruciare delle persone, ma ci pensate, è un crimine!»
Ma quello col cappuccio sugli occhi reagiva inferocito: «Revisionista, revisionista di merda, levati dai coglioni!»
«Adesso ti metti a proteggere anche i fascisti!»
«Fila via subito, se no sono cazzi tuoi!»
Andrea vide Enrico tra la folla e alzò la mano per fargli un cenno, ma quello finse di non vederlo e tornava indietro voltandogli le spalle. Anche lui dunque nella folla dei bruti? No, Enrico non poteva essere d’accordo e certo non era uno che si tirava indietro per paura: ma Enrico non voleva andare contro il ‘popolo’ e il ‘popolo’ era lì era il Movimento. Un nugolo di mani afferrò Andrea e lo trascinò via, gli stava andando bene che non lo fracassavano di bastonate!
Poi ci fu un momento di silenzio, due o tre minuti: qualcuno il fuoco doveva pure appiccarlo, un attimo di riflessione ci può stare anche in una folla fatta ormai di bruti.
E quello dal viso gentile e la corporatura esile venne avanti, estrasse piano la scatola di cerini dalla tasca, ne accese uno e lo gettò con calma sulla benzina. E le fiamme avvamparono e subito strisciavano sul muro fino a lambire l’antica, grande, finestra rettangolare.
E la gente sotto ad applaudire e ridere, tutti, tutti quanti: anche i ragazzi di Fano, quelli della cena di pesce alla Terza, fanatici sì, ma criminali chi l’avrebbe mai detto? E tutti quei suoi compagni che ridevano e urlavano attorno alle fiamme chi ieri l’avrebbe mai detto che oggi diventavano degli assassini?
Allora Urbino non è diversa da Milano, allora suo padre ha ragione, allora questo è l’inizio d’una violenza vera, allora non si può flirtare con la dittatura del proletariato senza diventare simili a tutti gli altri che inneggiano ad altre dittature: lui con il Movimento non c’entra più niente. Ma il Movimento, la dittatura del proletariato, tutte le sue seghe mentali, cosa sono adesso davanti a quattro persone che bruceranno vive e lui è lì sotto in mezzo agli assassini che hanno appiccato il fuoco?
Quando era piccolo, i suoi compagni avevano circondato con la bambagia uno scorpione: e poi gli avevano dato fuoco. E ridevano intorno ballando una strana danza di guerra e si sentiva il fuoco scoppiettare sulle membra, sì membra, le avvertiva così come fossero umane, del povero animale. E adesso quattro persone, quattro ragazzi: a fuoco i vestiti, le mani e poi la faccia.
Un miracolo, ci vuole un miracolo e si sforzava lì dentro la testa di chiederlo questo miracolo, di invocarlo, supplicarlo.
Un fischio forte, di sirena: i vigili del fuoco col camion rosso e i larghi elmetti. E gli studenti si fanno da parte per paura d’essere presi sotto: ma la vista dei vigili, forse, gli ha fatto un po’ breccia nel cervello. Buttano l’acqua con la grande pompa e due salgono con le scale alla larga finestra del primo piano, abbastanza bassa per fortuna. E Andrea vede che tirano giù i quattro uno a uno e li tengono per le gambe e per i piedi. Ha paura, paura che siano già morti soffocati. Ma un vigile del fuoco urla agli altri sotto: «Siamo arrivati in tempo, sono solo intossicati. Dieci minuti di ritardo ed erano spacciati».
Ma chi ha chiamato i vigili del fuoco?  Nessuno lo sa, ma uno studente no, uno d’Urbino. E Andrea s’allontana lento, per la strada del Pincio, sotto gli ippocastani.

 

© Umberto Piersanti, Cinquantuno, da Cupo tempo gentile, Marcos y Marcos, 2012, pp. 215-19.


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