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Etnografia di un mondo distante
Passi senza sonno fra le strade di questa città.
Timidamente un filo di nebbia
prende spazio intorno al mio corpo,
penetra la mente e si deposita,
come una cicatrice, nei miei pensieri.
Di notte il paesaggio è più compatto,
diventa una stanza chiusa
a cui confessare i peccati.
I palazzi intorno,
grigi dell’intonaco di esistenze consumate,
si avvicinano intimamente,
mi abbracciano senza dolore.
Le luci dei lampioni
perdono le forme, i contorni, le speranze:
sono abbaglianti gorghi profondi
che attraggono il desiderio,
lo ingoiano senza ritorno.
Il mondo tutto si contorce
e si ritrae in piccole isole
dense di emozioni soffocate.
Ho sacrificato la mia vista a questa città
e fors’anche la voglia di vedere ancora.
Lisbona frammentata
Non mi sono lasciato il tempo di pensare,
ho cercato somiglianze nei meccanismi nella metro,
riempito gli spazi,
sviluppato antipatie,
sezionato i simboli
cercato nuovi luoghi
dove accendere la mia sigaretta rituale.
Non più un sottopassaggio umido,
ma una salita scivolosa.
Non più la voce delle macchine,
ma l’urlo scomposto degli aerei.
Non più le nebbie compatte,
ma un vento ossessivo.
Fingo di capire
sapere dove andare
illudo di ascoltare.
Mi identifico
proietto,
incorporo,
nego.
Tutte le contraddizioni del paesaggio
le sento a fil di pelle.
In qualche modo questo degrado ben composto
mi appartiene: le poco accorte giustapposizioni,
gli stili in lotta, il non saper mai se crollare o risplendere.
Ma queste viste a picco mi sono straniere.
La città mi seduce per frammenti,
momento dopo momento,
sfugge ai miei occhi
tenendomi legato a sé mentre mi respinge.
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Neve in un treno deserto
In ogni passo ricerco l’onnipotenza:
nel ghiaccio che si scioglie al mio volere,
nei piedi che frantumano la neve.
La neve è interferenza televisiva,
non la si può guardare senza perdersi nella vertigine:
al sole dolorosa come un’accusa,
al buio invisibile, le sue forme spariscono.
I colori fuggono, resta solo il nero
che stende sui monti un velo di stanca guerra,
un’attesa indolente di non so che cosa.
Di notte la neve sulle montagne frantuma l’oscurità.
Con la pioggia si fonde,
si liquefà tra le nuvole,
e in quel muro opaco
le rocce che affiorano spaccano il cielo.
Qui, sulle montagne, non esiste nulla,
neppure l’inerzia della natura ha il coraggio di arrivare.
Qui tutto è fermo,
i rami secchi e ghiacciati ci intrappolano,
ci implorano di restare immobili, in silenzio:
resta solo il rancore di un mondo senza ombre,
senza movimento,
senza morte.
Noi restiamo qui, sul confine,
figure di contorno
necessarie all’esistenza,
come eterni negativi
Infamia
Ero il mare ed ero la spiaggia,
la nave ed il naufrago,
la mia furia era ovunque,
e ovunque il cammino mi opprimeva.
Ero Dio ed ero l’infamia,
ho colonizzato i sette mari
e attraversato i mille strati dell’inferno.
Ero il Dio dell’infamia,
e per questo mi fu proibito
di ricordare.
Ero il verso senza parola,
il sussulto di un’esplosione siderale.
Quando mi sono visto allo specchio,
il mio volto è esploso
in una costellazione di oggetti parziali.
E sono stato tutte le cose,
e non sono stato nulla,
e sono stato eterno,
e non ho mai saputo il mio nome.
Ho vagato per la città,
e son diventato la città stessa.
Ho sentito le strade muoversi
fra le mie ossa.
Me ne sono andato
tenendomi per mano,
come un buco nero
che divora se stesso.
Sono stato donna,
sono stato uomo,
ancora e ancora,
altre mille volte:
mi son partorito e sono morto.
Sono rinato all’infinito,
e all’infinito la mia bocca
ha moltiplicato i suoi piani,
raggiungendo la soglia della terza dimensione.
La gravità mi ha afferrato
e son diventato un solco sulla carta.
Invisibile.
Nato a Venezia nel 1990, David Primo è cresciuto nelle zone residenziali di Mestre; sviluppa velocemente un attaccamento ambiguo per le periferie in degrado, i sottopassaggi e i condomini abbandonati.
Attualmente è dottorando in Scienze Sociali a Padova (con un progetto sulla costruzione delle maschilità negli SPAZI LGBTQ+).
Inizia a scrivere più per l’invidia di non essere stato lui a scrivere le parole dei/delle musicisti/e e scrittori/scrittrici con cui è cresciuto. Ora, la scrittura è una seconda strada, incrociata a quella più accademico-nozionistica, per esplorare le connessioni e le frammentazioni di corpi, soggettività e spazi urbani.