
Carlo Levi, La terra cede e scivola
(o come dare torto e ragione a Calvino su Carlo Levi)
di Sandro Abruzzese
“Io uso dire, in modo paradossale, che l’Italia ha due capitali e che una è Torino e l’altra è Matera”.
“Nulla è sicuro invece nel mondo contadino, il tempo non vi è segnato dagli orologi e non vi scorre, e ogni immagine scoperta può essere perduta. Esse stesse, le immagini, sono i soli punti certi e raggiunti, la sola difesa di una vita personale in continuo rischio: perciò esse tendono a fissarsi, a diventare ripetibili e quasi rituali, a trasformarsi in formule magiche o evocatorie, (…) in questo continuo sforzo del mondo contadino di esprimersi, noi vediamo, mi pare, il continuo fenomeno della creazione del linguaggio, poiché le parole non sono altro che la memoria dei nomi che rappresentano l’atto della distinzione da un oggetto, la creazione, cioè, degli oggetti dalla indifferenziazione”.
Carlo Levi, Il contadino e l’orologio
Nel saggio introduttivo al Cristo, Italo Calvino sostiene che per comprendere la poetica di Levi occorre partire da Paura della libertà, libro scritto nel ’39 a La Baule, durante l’esilio in Francia. In esso infatti affiora per la prima volta la riflessione dello scrittore in merito allo Stato-idolo. Sono riflessioni molto belle, che risentono della filosofia europea, da Vico, Spengler, a Hegel, Gramsci, Gobetti. Levi al cospetto del fascismo e dei totalitarismi vi sostiene che quando si combatte per un idolo, quando gli stati sprezzano l’individuo imbrigliandolo nell’esercito, nella macchina burocratica, nell’organizzazione centralistica, la libertà lascia il posto alla crescente e continua oppressione. Per uno Stato del genere, poi, la guerra è “il sacrificio perfetto”. A uno Stato del genere occorrono nemici, schiavi, servi. E nessuno meglio degli stranieri, di estranei può fare al caso. “L’idolo statale”, scrive Levi, “può reggersi soltanto finché avrà di fronte a sé uno straniero: un nemico necessario, che dovrà essere continuamente espulso e continuamente ritrovato, una vittima provvidenziale” (p. 114). Quando si combatte per un idolo, quando si è in una guerra religiosa, lo Stato ha bisogno di una massa informe, di cui le grandi città, i sobborghi di “gente senza storia”, insieme al tecnicismo, sono il risultato. È questo Stato a generare un mondo “impoetico, anonimo, ripetitivo”.
In Paura della libertà Levi intuisce pure che l’urbanesimo, il corpo sformato del Paese, è legato a una cultura del non senso, di massa, a suo modo totalitaria, perché intrisa di propaganda, la quale serve allo Stato-idolo per produrre l’identità indistinta, confusionaria e priva di molteplice. È un’umanità informe, “sradicata da ogni determinazione”. Inoltre egli riflette sulla compresenza dei tempi e delle civiltà, individuandone lungo la penisola una militare e una contadina. La prima è statolatra, religiosa e giuridica, il cui tempo risulta lineare; la seconda anarchica, irreligiosa e poetica, fuori dalla storia poiché immobile. È quest’ultimo il mondo portato alla luce da Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Ed è questa compresenza dei tempi che egli testimonia e per cui giustamente Calvino rimanda a Paura della libertà.

Tuttavia, sebbene lo scritto del ’39 sia un saggio ricco di riflessioni interessanti sull’arte, sulla lingua, sul sacro e sul religioso, quello che il Cristo aggiunge è lo sguardo, la capacità percettiva dell’esule torinese, e quella scrittura “erotica”, certo a volte venata di atteggiamenti tronfi o paternalistici, ma che nasce sempre dall’amore per la vita e l’umano, dalla passione per la libertà e la giustizia. La scrittura di Levi, avrà modo di dire Giulio Ferroni, “ha il dono (…) di saper dare il senso di una vita distesa nel tempo, di uno spazio pullulante di presenze, di speranza, di sensazioni, di delusioni”.
Non solo. In Carlo Levi il paesaggio, l’ambiente, la luce, prendono corpo. Credo che la fisicità, la corporeità lucana, nonché l’impatto che su di lui ha avuto la lunga permanenza forzata a contatto col mondo contadino sia qualcosa di simile a un’agnizione per l’intellettuale cittadino. Levi è un corpo estraneo, un intellettuale europeo, illuminista, proveniente da una Torino già industriale, ed è come se proprio in quanto corpo estraneo egli sia in grado di mettere a fuoco le contraddizioni lampanti ma aggrovigliate della società meridionale. È questa matassa che Levi dipana grazie agli intensi e precedenti studi meridionalistici e all’esperienza diretta del confino.
Se volessimo trovare qualcosa di simile, e di pari, capitale importanza nella cultura italiana, verrebbe fatto di pensare al meridionale sardo Antonio Gramsci, trapiantato dalla piccola Ghilarza alla grande città industriale sabauda grazie a una borsa di studio. Nondimeno negli stessi anni, tra Francia e Inghilterra, per altre vie del tutto originali, sarà Simone Weil ad avvicinarsi e approfondire le stesse tematiche dell’autore del Cristo.
Ma che cosa rappresenta la Lucania per Levi? Più di una volta egli stesso definisce la regione un insieme di isole. E come tante isole vede ed enumera i paesi circostanti Aliano: sospesi, accartocciati sui poggi, svettanti e divisi da chilometri tortuosi di valli malariche e monti. Ogni comune rurale è una piccola patria che risponde a regole proprie. Grazie alla massiccia emigrazione siamo di fronte a un nuovo matriarcato, paesi di donne nelle cui case fanno mostra i ritratti di Roosevelt e della Madonna di Viggiano, dirà il confinato. E nello specifico è l’isolamento della Lucania, il paesaggio vuoto e remoto del materano, sono i volti, i gesti, la cultura dei contadini di questo mondo antico a colpire profondamente Levi per la loro poeticità. Nel Cristo continui, incessanti si fanno i riferimenti al paesaggio di Grassano e Aliano. Deve essere chiaro che ciò che si presenta agli occhi dello scrittore sotto forma di calanchi argillosi e balze deserte è, dal punto di vista geografico e antropico, un disastro idrogeologico. È uno scenario biblico, ancestrale, certo fascinoso. Ma pur sempre una sciagura. Quello che Levi contempla è un paesaggio desolato, e lo stesso Don Trajella, il parroco misantropo del Cristo, avverte il confinato: “Qui ci sono continue frane. Quando piove, la terra cede e scivola, e le case precipitano. (…) Fra qualche anno questo paese non esisterà più. Sarà tutto in fondo al precipizio. (…) Non ci sono alberi né rocce, e l’argilla si scioglie, scorre in basso” (Cristo, p. 37-38). Certo Grassano è un paese più grande, meno originale risulta il paesaggio circostante, ma comunque vi era “Soltanto una distesa uniforme di terra abbandonata”. E ancora su Aliano: “Su una terra remota come la luna, bianca in quella luce silenziosa, senza una pianta né un filo d’erba, tormentata dalle acque di sempre, scavata, rigata, bucata” (C, p. 197).

La Lucania meridionale quindi è un luogo remoto che volta le spalle all’Europa ed è il luogo dove prende forma evidente il contrasto gramsciano tra campagna e città che Levi non manca di sottolineare. Il fascismo ha ignorato il problema e in generale lo Stato ha dato risposte generiche a condizioni particolarissime. È una diagnosi che in futuro abbraccerà la Sicilia e la Sardegna. Dal punto di vista economico, per esempio, “le foreste sono state tagliate, i fiumi si sono fatti torrenti, gli animali si sono diradati, invece degli alberi, dei prati e dei boschi, ci si è ostinati a coltivare il grano in terre inadatte. Non ci sono capitali, non c’è industria, non c’è risparmio, non ci sono scuole, l’emigrazione è diventata impossibile, le tasse sono insopportabili e sproporzionate: e dappertutto regna la malaria” (C, p.221).
È il corpo della Lucania, questa terra dei boschi ridotta a brandelli desertici, a far dire all’autore che “Non può essere lo Stato a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato”. Ed è l’incontro con quella piccola borghesia dei paesi, odiosa e feudale, che vive di soprusi e privilegi e schiaccia i contadini nella miseria, a turbare Levi e dargli conferma che solo uno Stato che parta dall’individuo, uno Stato fatto di tante comunità autonome, potrà evitare l’oppressione di una parte del Paese sull’altra. Solo la partecipazione e la cooperazione, in un mondo costituito dal basso, attraverso le autonomie delle istituzioni e delle forme di vita sociale potrebbe, secondo l’azionista, rendere possibile la coesistenza di queste due civiltà.
Dall’esperienza lucana in poi, nei suoi viaggi, Levi troverà sempre conferma della sua compresenza dei tempi, definizione coniata da Italo Calvino. Così in Tutto il miele è finito, taccuino relativo ai due viaggi in Sardegna del 1952 e del 1962, egli ritrova la coesistenza del mondo eterno dei contadini e dei pastori a fianco alle città operaie di Carbonia e Iglesias, dove invece tutto si conta in minuti e ore.
Carbonia, agli occhi dello scrittore ” (…) è il virile inferno di uomini piovuti da ogni parte d’Italia, siciliani, veneti, romagnoli, toscani, mandati qui senza preparazione, quindici anni fa, nel 1939, quando queste lande erano ancora un assoluto deserto (…)” (T., p. 26).
Probabilmente, ma è solo un’ipotesi, è il film di Vittorio De Seta, Banditi a Orgosolo, a contribuire alla scelta del secondo viaggio sardo del ’62. Questo ritorno lo porta a riflettere sul fatto che, se solo la memoria vince sulla distruzione e corrosione dovuta al tempo, ebbene anche l’uomo è fatto di memoria, di passaggi, epoche che si sedimentano e convivono: ecco che anche l’essere umano, come le società osservate, risulta costituito di compresenza e identità: “Come la realtà è molteplice… “, egli esclama a un certo punto, “… come, in ogni cosa, in ciascuno di noi, coesistono tempi diversi e lontanissimi!”.
Orgosolo è per Levi, sulla scia di De Seta, un misto di arcaico e coloniale, un circolo chiuso teso verso la tragedia, dove lo Stato finisce per inasprire i rapporti, aggravare i problemi, avvalendosi di un disinteresse e di una cecità propri del colonialismo.
Pure, dopo dieci anni dal primo viaggio sardo, Levi registra l’incedere del nuovo “medioevo speculativo” (da Cagliari a Pirri, Monserrato, Quartu), insieme all’avanzare dello spopolamento e dell’emigrazione (Nuraminis, Villagreca, Serrenti). Temi che aveva avuto modo di trattare con lungimiranza già nel lontano ’39, nell’esilio di La Baule.

(paese dove Rosi girò parte di Cristo si è fermato a Eboli)
Tutto il miele è finito si chiude lasciando sullo sfondo la Barbagia e l’antico contrasto tra mondo contadino e pastorale. Orune è paese di pastori e emigranti. Ma trent’anni fa lo era di contadini. In trent’anni, dal ’30 al ’60, i contadini sono scomparsi di nuovo. Venne la crisi agricola, la battaglia del grano, Già cent’anni prima, racconta un anziano cieco, i pastori di Orune si fecero contadini. Dopo la Grande guerra i boschi furono tagliati, le mucche e i maiali lasciarono il campo, “Con la distruzione dei boschi, nella grande guerra, vennero le pecore, e vennero i contadini a coltivare le terre disboscate”.
È una storia minore, che si perpetua, questa che Levi apprende dal cieco, è la storia di Aliano, della Lucania, del Meridione; è la storia di “cittadini” in balìa di uno Stato sordo, estraneo e lontano. Un mondo fagocitato, in cui l’unica soluzione rimane la fuga individuale verso altri mondi remoti, lontani, dolorosi.
E non cambia il discorso nel viaggio sovietico del ’55 narrato ne Il futuro ha un cuore antico. Una delle prime annotazioni sulla città di Mosca, sui volti di chi la abita, riguarda l’impressione di una città creata da contadini: e la prima simpatia di Levi per i russi è dovuta proprio all’analogia con la Lucania, il paese dei contadini.
Col passare dei giorni poi i sovietici appaiono sempre più “i custodi dei sentimenti e dei costumi dell’Europa”, è come se Levi percepisse di trovarsi davanti a un mondo che deviando la sua storia da quella europea con la svolta del ’17, avesse “lasciati integri i valori fondamentali che il mondo contadino e operaio portava in sé”; la chiusura stessa delle relazioni aveva immobilizzato gusti, sentimenti. Nei volti dei russi lo scrittore riconosce “(…) quella semplicità, quella genuinità, quell’onestà, quella pulizia morale, quella timidezza (…)”, che il resto dell’Europa in qualche modo ha già smarrito. Un’Europa che non ha più verità ideali né sentimenti comuni, ma ha disperso, reciso radici, perduto legami. Mentre questa Europa perde il suo senso storico, i suoi limiti, per farsi simile all’America del rifiuto della storia, la Russia appare “il miraggio del paese dell’infanzia, il miraggio semplificato di un’Europa immaginaria e perduta” (Il f., p. 75).
Forse si potrebbe partire dalla fine per comprendere al meglio Carlo Levi. Sì, saltare L’orologio, questo importante romanzo-reportage sulle condizioni di disfacimento di città come Roma e Napoli nel secondo dopoguerra, un libro in grado di descrivere le fasi concitate del tentativo di cambiamento dovuto alla nascita del governo Parri e il conseguente ritorno alla carica dei Luigini italiani, pronti a svuotare dall’interno qualsiasi reale riforma progressista.
Si potrebbe saltare, dicevo, anche se davvero suggestivo, l’incontro siciliano con Danilo Dolci che racconta delle condizioni critiche di Trappeto e Partinico, una Sicilia di miseria, analfabetismo, banditismo e prostituzione; o l’incontro con la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, assassinato dalla mafia, episodio raccontato ne Le parole sono pietre; o per contraddire Calvino potremmo partire da quel Quaderno a cancelli, pubblicato postumo nel ’79, in cui lo scrittore scrive che “(…) l’occhio vede e non possiede. Passa su tutte le cose senza toccarle, né muoverle, né urtarle, (…)”. L’occhio non possiede, tuttavia “È il potere dell’immagine che unifica e dà realtà alle cose, il potere poetico che, vedendole, le crea per la prima volta, e fa della nera natura, immagine, riconoscibile e certa”. (p. 90-91)

In questo libro angosciato, malinconico, e per questo diversissimo dai libri energici, volitivi a cui lo scrittore ci ha abituati, sovente tornano le immagini di Aliano, i ricordi del cane Barone, delle argille calanchive. Il Quaderno è un flusso di memoria in cui ritornano idee e esperienze. È un libro che raccoglie la poetica di Levi e dimostra che essa, pur partendo da solide basi teoriche, è tutta nello sguardo e nel rapporto con i luoghi: “(…) questo darsi e lasciarsi prendere, questa orgogliosa e superba umiltà e santità, meravigliosa dolcezza di chi sta nelle cose e vi partecipa, e vi si dona rimanendo intatto e accrescendovisi, questa virtù suprema e divina del non difendersi, del non razzismo, del non settarismo, (…)”. Tornano in questa convalescenza le immagini e le parole del confino, al punto che l’autore cita dei versi:
Esiliato su un monte
rituale e feroce
guardo con occhi aperti un mondo antico…
e si chiede perché riaffiorino costantemente.
A distanza di quarant’anni da Paura della libertà, nel Quaderno a cancelli Levi trova che il nostro mondo sia diventato un unico luogo di emigrati per cui annota che “Tutti sanno ormai di essere in esilio; in un mondo esiliato da sé stesso” (Q, p. 81). Sono davvero tanti nel Quaderno i riferimenti al disfacimento e alla costruzione di altri mondi, c’è l’America degli emigrati a simboleggiare la violenza dell’esilio. Un luogo sconosciuto di solitudine, di incertezze e insulti.
Le parole del confinato torinese sono tristemente profetiche. Nello Stato-idolo burocratico non c’è spazio per il mondo astorico dei contadini, i quali nel frattempo sono stati sradicati e trasferiti nella Storia e nel Tempo lineare.
Giovanni Russo, in quel piccolo grande libro che è Lettera a Carlo Levi, stima in circa quattro milioni e mezzo di contadini dai quindici ai quarant’anni, l’esodo che piega definitivamente la civiltà contadina meridionale. Carlo Levi, ovviamente inascoltato, aveva avvisato per tempo: l’idolatria statale produce alienazione e sacrificio sociale, e così un mondo privo del senso di umanità, privo di rapporti umani autentici, il mondo che partorisce campi di concentramento e “un individualismo che arriva a negare nei fatti l’esistenza stessa dell’individuo”, ebbene, è già un inferno mostruoso, e ai suoi abitanti non rimane che registrare il continuo, incessante spavento.
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© Sandro Abruzzese
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Carlo Levi, Paura della libertà, Einaudi
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi
Carlo Levi, L’orologio, Einaudi
Carlo Levi, Quaderno ai cancelli, Einaudi
Carlo Levi, Tutto il miele è finito, Einaudi
Giovanni Russo, Lettera a Carlo Levi, Editori Riuniti
Una replica a “Carlo Levi, La terra cede e scivola”
L’ha ribloggato su raccontiviandanti.
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