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#PoEstateSilva #35: Franco “Bifo” Berardi, Massimiliano Geraci, da Morte ai vecchi

“Vecchio isterico”, pensò Luca Ferenczi montando sul suo bolide. “Chi si crede di essere questo stronzo? E che mi importa di lui in fondo? Troverò un altro modo per risolvere questo problema.”
Doveva concentrarsi su quell’urgenza maledetta, sull’imprevista piega che aveva preso il suo lavoro, la sua creazione, la sua impresa. Avrebbe voluto creare un congegno di facilitazione universale dell’empatia – che ne sapeva lui di empatia? – ed ecco che si trovava a fare i conti con un impulso assassino che si muoveva come un’onda, come un’epidemia. Cento volte aveva controllato il programma, linea per linea, protocollo dopo protocollo.
Nessun errore di codificazione ma un persistente disturbo nella trasmissione. Come se una traccia della vibrazione luminosa proveniente da Federica fosse rimasta impigliata nell’infosfera. Come se qualcuno avesse aperto uno spiraglio all’imprevisto, al sabotaggio, ma chi?
Pensò alla radiazione cosmica di fondo, il primo assordante vagito dell’universo, che ancora oggi i radiotelescopi continuano a captare dopo miliardi di anni. Mentre la sua Ducati accompagnava le curve che costeggiano il fiume, il fantasma di Federica lo inseguiva confondendogli la vista con tutti quei suoi veli svolazzanti. La testa chiusa in un casco avvolgente, i pensieri serrati in quella prigione nera e gialla con la visiera abbassata, Luca correva nel vento. Il vento doveva essere forte a giudicare dal frustare dei rami, ma nello spazio chiuso del casco nero e giallo il vento non era ammesso. E nemmeno la luce pensava Luca. Sbagliando.
Non riesco a trovare la smagliatura che sta sgomitolando l’universo. Da che pianeta è giunta Federica? Lei era il vaso.
Oppure lei era la crepa che il vaso distrusse? Oppure lei era quello che il vaso conteneva, tutte queste tempeste e tutte queste morti incomprensibili? Certe capriole sfrenate del pensiero in lei mi sorprendevano. La melodia del suo incedere senza toccare il suolo. I gesti vaporosi quando girava nuda per casa e poi sdraiata su un prato perfetto, un cielo perfetto con nuvole basse davvero ben disegnate. Io non potevo entrare nella sua proiezione tridimensionale. Io sono lo sguardo che tutto decodifica, non un frammento senziente, dell’azione. Il pentagramma su cui scorrono le crome e le biscrome, non la corda del suo violino né l’archetto che le corde fa vibrare.
La perfezione dell’intendersi paralizza. Toccarsi e sentirsi e godersi è possibile soltanto per effetto di una leggera incomprensione, di un cercarsi imperfetto. Non v’è amore se non nell’errore. E io non comprendo l’errore.
Nello spazio racchiuso del casco avvolgente con la visiera abbassata, Luca seguiva il fi lo del suo ragionamento, pensando che né il vento né la luce potessero entrare. Sbagliava.
La strada scendeva nel sole e pareva sciogliersi burrosa.
Una polvere dorata turbinava nell’aria componendo arazzi, disegni grandiosi. Poi l’oro cominciò a colare zampillando in piccole accentanti esplosioni mentre da un tornante emerge arrampicandosi veloce il muso di una Toyota enorme. Il velo il sole l’ombra il luccichio del riflesso. Luca svolta verso destra senza accorgersi che il fondo è ghiaioso.
Esce di strada dove rimane disteso svenuto fratturato. Forse morto.
Quando arrivò l’ambulanza non dava più segni di vita.
Lo portarono alla clinica del Cuore sanguinante di Gesù e gli pomparono ossigeno nei polmoni, perché riprendesse le funzioni vitali. Il medico che lo visitò fece previsioni fosche.
Ma la fibra di Luca Ferenczi era forte. Il cervello si spense e tutte le energie del suo organismo si impegnarono a pompare vita dal cuore, che aveva ripreso a pulsare.
Quanto a lungo Luca rimase in quel luogo?
«I genitori sono morti, e nessuno risponde al telefono di casa sua», dice l’infermiera all’ometto che chiede informazioni sulle condizioni di Luca.
Ha un’aria frenetica e sembra molto preoccupato. Ha chiesto per quanto tempo il giovane Ferenczi resterà in questo stato di incoscienza.
«Scusi ma lei chi è?» gli chiede l’infermiera spazientita, «un parente? Un amico?»
«Un collaboratore», risponde l’ometto, e se ne va.
Fuori lo attendeva una vettura con autista. Sulla fiancata c’era scritto Inside Corp.

© Franco “Bifo” Berardi e Massimiliano Geraci, Baldini e Castoldi 2016


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