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Per un sillabario su Primo Levi

Primo Levi, immagine da Prospect Magazine

Per un sillabario su Primo Levi

di Sandro Abruzzese

 

Esistono vari piani, diversi fili all’interno delle opere di Primo Levi. Credo che come spesso accade per i grandi scrittori, questi fili siano in grado di unire i suoi libri in un’unica grande opera. I sommersi e i salvati, l’ultimo scritto del 1986, è considerato uno dei libri più importanti del ‘900. Ciò che però mi ha colpito dell’opera leviana è notare che in questo saggio si approfondiscono riflessioni che apertamente o in nuce avevamo già avuto modo di incontrare quarant’anni prima in Se questo è un uomo e poi via via nel resto della produzione dello scrittore torinese. È significativo, dice molto sulle sue capacità, il fatto che Levi, a poco più di venticinque anni, certo grazie alla diretta conoscenza di una parte del sistema concentrazionario, – “il Lager è stata una Università; ci ha insegnato a guardarci intorno ed a misurare gli uomini” (I sommersi e i salvati, p. 114), –  ebbene, già tra il ’45 e il ’47 aveva individuato con precisione gli aspetti centrali di quell’esperienza.

LINGUA. Uno dei temi ricorrenti, uno dei fili di cui parlavo, ne I sommersi e i salvati vi è dedicato un capitolo (Comunicare), è il tema della lingua. Gli ebrei italiani, racconta Levi in Se questo è un uomo, morirono quasi tutti e prestissimo perché non comprendevano la lingua. Venivano per questo derisi (soprannominati “due mani sinistre”, cioè incapaci) e disprezzati dagli ebrei polacchi perché ignoravano l’yiddish. Comprendere gli ordini, i consigli e i suggerimenti, da qualsiasi parte essi provenissero, risultava di vitale importanza nel campo. Il Lager, apprendiamo in Se questo è un uomo con una definizione che tornerà sovente anche in La tregua, è una Babele: “La confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere quaggiù; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite (…)”. La lingua serve per capire e sopravvivere, ma serve pure, se sarà mai possibile, per raccontare ciò che è accaduto, da qui l’incubo ricorrente nel sonno dei prigionieri: quello di non essere ascoltati. Qualcosa del genere capiterà, con altri toni e le dovute differenze, al protagonista di Napoli milionaria di De Filippo, al ritorno inaspettato e quasi indesiderato del reduce Gennaro Jovine segue il disinteresse per i racconti dell’uomo portatore dell’indicibile “mala novella” della guerra.
La parola, dunque, riflette Levi nel suo primo romanzo del ’47, “la parola straniera cade come una pietra sul fondo di tutti gli animi”. Le parole della Babele tornano continuamente, lo scrittore ne utilizza una tetra e indimenticabile: Wstawać, significa alzarsi, ed è il suono della sveglia mattutina, del ritorno all’inferno della vita del Lager dopo l’evasione notturna del riposo. E di lingua si tratta, di lingua come sinonimo di umano, quando incontriamo il piccolo Hurbinek: “dimostrava tre anni circa, (…) non sapeva parlare e non aveva nome (…)”. Il bisogno della parola in Hurbinek dimostra quello che lo scrittore sosterrà più volte, che l’essere umano è tale se può esprimersi, comunicare, essere ascoltato e riconosciuto. Infatti, questo gli aguzzini tedeschi, nel tentativo di totale deprivazione, negavano ai prigionieri ebrei, l’ascolto, il riconoscimento. Ecco perché in Comunicare Levi si scaglia contro il silenzio deliberato, contro la colpa del silenzio che genera “inquietudine e sospetto”. E invece comunicare “si può sempre”, si deve, perché i contatti umani sono “bisogno primordiale”, così scrive Levi ne La tregua. Invece la lingua del Lager è infernale, abietta, perché “là dove si fa violenza all’uomo la si fa anche al linguaggio” (I sommersi e i salvati, p. 76). Tutto questo è già chiaro nel giovane Levi del ’47, quando scrive “Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato” (Se questo è un uomo, p. 110). Un rapporto, quello dell’ebreo torinese con la lingua, in grado di portare alla mente il celebre saggio di Walter Benjamin sul medesimo argomento.

AMICIZIA. La vita di Primo Levi è colma di questo sentimento che è l’amicizia. Nel Sistema periodico, precisamente in Ferro, ci imbattiamo nell’amicizia con Sandro. È l’incontro tra due isolati. Levi lo era appena divenuto per mezzo delle leggi razziali. Sandro lo era per via del carattere e dell’estrazione sociale, era povero, figlio di un muratore, in estate faceva il pastore. Nel racconto dedicato a Sandro Delmastro la montagna, il tempo passato insieme a misurarsi con i propri limiti e migliorarsi, assurgono a simbolo di libertà. Sulle vette, in compagnia di questo compagno deciso, caparbio, forte, che “diceva solo il nocciolo delle cose”, Levi assapora la sfida con i propri mezzi. Anche la montagna, come la chimica, nell’incubo dell’Europa del ’39, è la possibilità di pensare con la propria testa, di esperire e imparare. Sono luoghi che consentono di dimenticare i dogmi, la vita ottusa che è richiesta dal fascismo in pianura. Sandro, ci informa Levi, morirà da partigiano nell’aprile del ’44.
Nel Lager, nonostante le condizioni, ci troviamo di fronte alla tessitura di relazioni profonde e durature. Se non si può parlare di amicizia nei confronti di personaggi secondari come Steinlauf, Schlome, Null Achtzehn, già nella figura dell’orologiaio Chajim, Levi dirà di nutrire fiducia cieca. Ma il miglior amico è Alberto, il quale resiste fino alla fine, fino a che non scompare al seguito dei tedeschi in fuga per l’arrivo dei russi. Alberto torna in Cerio e viene così descritto: “(…) era un uomo di volontà buona e forte, ed era miracolosamente rimasto libero, e libere erano le sue parole ed i suoi atti: non aveva abbassato il capo, non aveva piegato la schiena”.  Levi conserverà l’amicizia di Pikolo, protagonista del bellissimo capitolo Il canto di Ulisse in Se questo è un uomo. E conserverà fino alla fine l’amicizia del muratore italiano Lorenzo Perrone (o Perone). Ne La tregua ci saranno le amicizie con Mordo Nahum e poi Cesare. Tornando al Sistema periodico, in Potassio vi è l’incontro con l’assistente, anche qui un’amicizia duratura di cui rimane traccia ne I sommersi e i salvati. L’elenco sarebbe davvero lungo. Vi è l’amicizia trentennale con Mario Rigoni Stern. Sarà lui a scrivere una lettera pubblicata sulla Stampa subito dopo la morte dello scrittore: “Ma tu, ieri, non avevi giocato all’aria di primavera e forse a farti dormire così, a farti chiudere gli occhi su questo mondo indifferente e venefico, è stata la stanchezza di quella lontana stagione del 1945”.
L’amicizia in Levi assume forme picaresche e avventurose, è l’aiuto e la spinta verso la vita e la libertà. È questo sentimento nobile ad accompagnare le opere di Levi e a dimostrare che esiste un mondo fatto di condivisione e solidarietà.

Primo Levi, immagine dal blog del Circolo Lettori

INFERNO. Si è detto che Se questo è un uomo sta all’Iliade come La tregua ricalca una moderna Odissea. Eppure è come se fossimo già stati nel luogo narrato nel ’47: Se questo è un uomo è un po’ ridiscendere nell’Inferno dantesco. È chiaro che ci sono delle capitali differenze, ne elenco qui solo due: innanzitutto stavolta, nell’inferno del Lager, il protagonista è un innocente come la maggior parte degli internati, in secondo luogo la ratio del Lager, rispetto al contrappasso dantesco, è agghiacciante. Qui non è un Dio a punire per delle colpe di vario grado, ma è l’uomo a torturare fino all’annientamento altri uomini, e senza alcuna colpa. Auschwitz è l’assenza di Dio. L’abominio imperdonabile e la morte di qualsiasi fede. E il fatto stesso che ciò accada nelle forme che conosciamo, fa dire allo scrittore “(…) se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza”. Sarà lo stesso scrittore, parafrasando una frase attribuita ad Adorno, a dire in un’intervista concessa a Lucia Borgia per la Rai che dopo Auschwitz non è possibile poesia se non su Auschwitz. E contro la Provvidenza, contro la fede, ne I sommersi e i salvati chiama in causa un amico più anziano. L’amico, seguace di una religione tutta sua, molto probabilmente è l’astrofisico Nicolò Dallaporta Xydias, l’assistente protagonista di Potassio ne Il sistema periodico, che lo accolse nel suo laboratorio di Fisica consentendogli di proseguire gli studi nonostante le leggi razziali. Dunque, Dallaporta per rispondere agli assilli di Levi (Perché è sopravvissuto proprio lui?), lo investe del ruolo di testimone, sopravvissuto grazie alla Provvidenza. Ma lo scrittore, ormai sempre più privo di fede, rifiuta decisamente l’ipotesi: “Questa opinione mi parve mostruosa”. Il fatto è che sopravvivere per testimoniare è troppo poco per Levi, è un privilegio sproporzionato rispetto al compito prospettatosi.
L’inferno, l’innocenza e la colpa, la vergogna per ciò che l’uomo fa all’uomo, il demoniaco, riportano alla tradizione biblica, anch’essa come Omero e Manzoni, sempre presente nella visione del protagonista. È omerica per esempio l’Unione sovietica, questo “gigantesco paese” di una “vitalità primordiale, un talento pagano, incontaminato, per le manifestazioni, le sagre, le baldorie corali”. I soldati russi sono “come compagni di Ulisse dopo tirate in secco le navi”. Sono arruffoni, di indole anarchici, ma anche socievoli, coraggiosi: “forti di una disciplina interiore nata dalla concordia, dall’amore reciproco e dall’amor di patria; una disciplina più forte, appunto perché interiore, della disciplina meccanica e servile dei tedeschi” (La tregua, p. 67). Così, una volta liberato dai russi, poco prima che dal nulla incombesse Mordo Nahum, il greco, Levi registra ciò che vede davanti a sé attraversando quell’Europa disfatta, in ginocchio: è il “Caos primigenio” de La tregua. Un Caos abitato da “esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera (…)” (La tregua, p. 36). Ecco la liberazione, la tregua che annuncia la cortina di ferro e la futura Guerra fredda. Già, Guerra è sempre, insegna Mordo Nahum. E una Babele è Sluzk, nella Russia bianca, dove nel luglio del ’45 vi erano americani, ebrei, musulmani, ortodossi, bianchi, gialli; vi erano “(…) tedeschi che si pretendevano svizzeri, austriaci che si dichiaravano svizzeri, russi che si dichiaravano italiani, una donna travestita da uomo, e perfino, cospicuo in mezzo alla folla cenciosa, un generale magiaro in alta uniforme (…)”. Anni dopo, in un bel documentario, Marco Belpoliti e Davide Ferrario avrebbero ripercorso quel tragitto grottesco, dando vita a La strada di Levi, un reportage sulle condizioni di quella stessa Europa dopo la caduta del Muro. Ebbene quell’Europa così vicina, a distanza di cinquant’anni dalla guerra, ci apparirà molto più lontana e sconosciuta.
Un altro passaggio-chiave riporta Levi nell’inferno della realtà del Lager. Mi riferisco all’incontro con Olga, la partigiana ebrea croata, è lei a confessare l’avvenuto sterminio degli ebrei italiani che viaggiavano insieme a lui, tra cui l’amata Vanda che “era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre (…)”. È il compimento del piano infernale. Ma d’altronde fin dall’arrivo ad Auschwitz non vi erano stati dubbi, allorquando il soldato tedesco, questo “nostro Caronte” armato di pila, nella notte, “invece di gridare Guai a voi, anime prave, ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo denaro o orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più” (Se questo è un uomo, p. 18). Non vi erano stati dubbi al cospetto dell’aggressivo e spregiudicato Alex, dallo sguardo torvo, un personaggio malvagio “come i diavoli di Malebolge”. Memorabile la scena in cui, di ritorno dai laboratori di chimica della Buna, questo usciere tuttofare si pulisce la mano sudicia sulla spalla dello scrittore. È ancora Levi, appena arrivato ad Auschwitz, a delineare una scena degna di un romanzo di Kafka, dicendo esplicitamente: “Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente”.
Quanto al Ka-Be, l’infermeria della Buna, viene da Levi definita, appunto in relazione all’inferno, un limbo, per via delle sue migliori condizioni di vita. È lì, in quel limbo che, fuggiti i tedeschi, lo scrittore registra il primo atto di riconoscimento, di ritorno all’umano, nel fatto che i malati offrano fette di pane agli unici uomini sani in cambio del loro lavoro. Ed è in chiusura di Se questo è un uomo che per la prima volta Levi incontra, seppur brevemente, quello che sarà uno dei protagonisti de La Tregua, quel Cesare, ebreo romano dotato di straripante furbizia e simpatia. Lo scrittore aveva avvertito che nella stanza attigua dovevano esserci dei malati italiani, Cesare e Marcello appunto, ma si era ben guardato dal farsi scoprire perché non avrebbe potuto fare molto per loro. Dopodiché, l’unica volta in cui trova la forza di recarsi nella camera a fianco, ebbene dopo quell’atto di pietà “l’intera sezione diarrea chiamò giorno e notte il mio nome, con le inflessioni di tutte le lingue d’Europa, accompagnato da preghiere incomprensibili (…)”. Ecco di nuovo l’inferno e la confusione delle lingue, le imprecazioni, le preghiere inascoltate. Un limbo viene definito il soggiorno a Staryje Doroghi, dove per via dell’apparizione di Flora, vecchia conoscenza del campo, tornerà alla memoria la Buna. Al contrario del Lager però, sebbene sporco, stanco e disfatto, a Staryje Doroghi Levi sentiva di avere “un avvenire”.

ESILIO. La condizione di abbandono ed esilio poi, in cui versavano i prigionieri del Lager, fa dire allo scrittore: “chi ha provato l’esilio, in una qualsiasi delle sue tante forme, sa quanto si soffre quando questo nervo viene reciso”. Levi ha ben presente “L’addio monti” manzoniano, pagine vibranti sull’esilio e lo sradicamento. Ma che cos’è il romanzo Se non ora, quando? se non un libro sulla condizione di spaesamento e sradicamento dei suoi protagonisti? Sono sradicati i polacchi di Edek, o i seguaci di Gedale, e lo è prima di tutti l’ebreo Mendel che “Si sentiva stanco e straniero”. La guerra ha rubato la patria a milioni di persone. Sarà Gedale il violinista a chiarire che “Tutti, quale più, quale meno; quale presto, quale tardi, ci siamo sentiti stranieri in patria. Tutti abbiamo desiderato una patria diversa, in cui vivere come tutti gli altri popoli senza sentirci intrusi e senza essere segnati a dito come stranieri (…)” (p. 183).
Nel Lager i prigionieri politici ricevevano e spedivano corrispondenza, mentre gli ebrei erano completamente isolati. La sensazione di abbandono e isolamento è uno dei tanti passi di questo abominevole esperimento biologico che è il campo di concentramento, il quale conduce le sue vittime non solo alla disperazione più totale, ma, secondo le parole del protagonista, alla fuoriuscita “dal genere umano”. È un esilio in forma di spoliazione dell’identità, ovvero di perdita di dignità, affetti. Un esilio di lingua e paesaggio, quindi un cammino a ritroso fino a raggiungere la più infima e atavica bestialità. Il tema dell’esilio, di per sé fondamentale nella tradizione ebraica, attraversa tutta l’opera di Levi, e lo ritroviamo nelle serate polacche de La tregua, laddove l’autore sostiene che il frutto di essere sradicati è una continua fuoriuscita dalla realtà, è l’esilio a far sì che si sogni di continuo: “Tutti sognavano sogni passati e futuri, di schiavitù e redenzione, di paradisi inverosimili (…)” (La tregua, p. 122). Ma in esilio, sradicati non sono certo solo gli ebrei. Anzi vi è tutta un’umanità che brulica, nel Caos della tregua, confuso come formicai rimescolati, in cui trova posto una scena emblematica; mi riferisco alla visione delle donne ucraine, le quali fanno ritorno dalla Germania. Sono donne che, lasciando di proposito il loro Paese in cerca di lavoro, attirate dalla propaganda nazista, hanno scelto un esilio differente, e ora fanno ritorno “sotto il peso della vergogna (…) senza gioia e speranza”. Queste donne disprezzate non avevano chi le attendesse, ricorda Levi con pietà. Il loro passaggio assurge a simbolo, è “nuovo aspetto della pestilenza che aveva prostrato l’Europa”.
Già, resta il paesaggio. Quel continuo viaggiare, il camminare e non arrivare mai, quell’orizzonte infinito dell’opprimente pianura tra steppa e foresta, tanto diversa dal paesaggio italiano. La vista di quelle lande è in grado di ricordare a Levi l’incubo delle notti della Buna. Il fatto è che camminare rimanendo o tornando sempre nello stesso luogo è un’Odissea e un incubo non meno spaventoso che parlare senza essere ascoltati, oppure che essere finalmente liberi epperò scoprire di essere rimasti soli al mondo. Nella condizione dei deportati le paure si intrecciano informi, diventano un groviglio di tetre e angosciose possibilità di sofferenza. Quando Levi nel ’62 licenzierà La tregua, il libro si concluderà ancora una volta con un incubo: “sono di nuovo nel Lager. E nulla era vero all’infuori del Lager”. Quindi di nuovo quella parola “temuta e attesa”: Wstawać! Alzarsi.

LAVORO. Altra questione principale maturata fin dal ’47 è quella del lavoro. Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, è la frase derisoria in bella vista sulla porta del cancello di Auschwitz. Lo scrittore in anni delicati, il libro è del ’78, affronterà apertamente e con coraggio il tema del lavoro ne La chiave a stella. Faussone, il protagonista, ha il compito di riportare le idee dell’autore in merito all’argomento. Ma ancora una volta in Se questo è un uomo e poi ne La tregua troviamo numerosi riferimenti alle medesime posizioni leviane. Già in Chajim, il compagno di letto sconosciuto in cui finisce per avere fiducia cieca, Levi traccia il profilo di un orologiaio, in Buna meccanico però, e lo definisce dignitoso e sicuro. Sono la dignità e la sicurezza “che nascono dall’esercitare un’arte in cui si è preparati”, (Se… p. 41). Oppure dignità del lavoro è nell’operaio Lorenzo Perrone, il muratore piemontese di Fossano, l’uomo buono e semplice che per sei mesi nutre il protagonista mostrandogli il volto umano del mondo. Di lui Levi dirà nella famosa intervista a Philip Roth e poi ne I sommersi e i salvati: “(…) quando lo misero a tirar su muri di protezione contro le bombe, li faceva dritti, solidi, (…) non per ossequio agli ordini, ma per dignità professionale”.  Ma nel Lager il lavoro dei prigionieri doveva essere un tormento, doveva affliggere: come “bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare la schiena sulla terra” (I sommersi e i salvati, p. 97). Nel Lager solo chi riusciva a esercitare il proprio mestiere recuperava un po’ di dignità umana. Certo, sarà costretto a meditare il protagonista, siamo di fronte a una “virtù fortemente ambigua”, visto che la stessa cura per il proprio lavoro di tortura e sterminio veniva adoperata dai carcerieri teutonici, con medesima diligenza e abnegazione.
Rispetto al tema dell’amore per il proprio lavoro, ancora una volta ci viene in aiuto la tradizione ebraica, e indubbiamente l’argomento ricorda le riflessioni sulla spiritualità del lavoro che la filosofa Simone Weil aveva propugnato con forza e lucidità qualche tempo prima. A tal proposito è Faussone a spiegare con semplicità bonaria: “ma io l’anima ce la metto in tutti i lavori (…)”. È questo costruttore di ponti e tralicci, magro e alto, a condensare le idee di Levi sulla tematica del lavoro. A Libertino Faussone piace chi sa fare il suo mestiere, “(…) con la chiave a stella appesa alla vita, perché quella è per noi come la spada per i cavalieri di una volta (…)”. Levi stesso, rendendosi conto di quanto sia scivoloso il terreno su cui si è addentrato, col consueto coraggio sente il bisogno di ribadire che l’amore per il proprio lavoro non solo è necessario, ma “(…) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra (…)”. Nondimeno, consapevole che non è sempre possibile, e non sempre le condizioni di lavoro consentono l’amore per le proprie mansioni, giustamente egli aggiunge: “Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena (…), anche se ribadisce che: “molto dipende dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge” (p. 81). Siamo di fronte a un posizione isolata o quantomeno largamente minoritaria nel panorama intellettuale della fine degli anni ’70. Faussone, poi, simpatizza apertamente per la condizione di artigiano, privo di padroni, per questo lascerà la fabbrica della Lancia, così come il padre fabbro a suo tempo aveva rifiutato l’industria. Anche il padre di Faussone “(…) finito il suo lavoro, per lui era finito tutto”.
L’etica del lavoro attraversa con costanza le opere di Primo Levi. Emerge nelle descrizioni di Mordo Nahum, il quale si rifiuta di essere mantenuto dai soldati italiani che lo ospitano. Anche per questo greco di Salonicco dalle mille abilità e dal cuore apparentemente freddo lavorare è un “sacro dovere”. Beninteso, la sua è un’etica tutta particolare, sviluppata nella sua guerra continua, nel conflitto perenne con la realtà delle cose, dotata di tratti spiccatamente amorali, a cui fa da contraltare il personaggio di Cesare, simile per capacità e intraprendenza, tuttavia loquace e aperto verso gli altri, ovvero molto più umano. C’è spazio per l’orologiaio Mendel in Se non ora, quando?, oppure ritornano le parole di Faussone là dove ribadisce che “(…) dopo che ho preso sicurezza a saldare, ho preso sicurezza a tutto, fino alla maniera di camminare (…)” (p. 128). Il lavoro non deve avvilire, bensì presupporre un contributo mentale, essere il processo per il quale si raggiunge un obiettivo desiderato. Il lavoro è soddisfazione, nutrimento, è dignità.

VERGOGNA. I sommersi e i salvati mi è parso un libro apertamente volto contro gli stereotipi prodottisi nel lasso temporale intercorso dalla Seconda guerra mondiale all”86. È un libro che oserei definire filologico poiché costantemente teso alla distinzione e soprattutto alla contestualizzazione degli eventi passati. Ed è un libro che sembra scritto quasi come ultimo tentativo di correggere alcune derive, di puntellare la memoria contro le amnesie o le semplificazioni dell’Occidente. Ne La zona grigia, per esempio, viene ampliata e definita la convinzione che Levi aveva espresso fin da subito in Se questo è un uomo: tra i padroni e i servi vi è tutto uno stuolo di “privilegiati”, dunque sono loro a rendere possibile la tenuta del sistema concentrazionario, così come è la volontà di non sapere dei tedeschi, di non parlare, a tenere in vita il sistema nazista. “Il popolo tedesco (…)”, dirà lo scrittore in una appendice di Se questo è un uomo, “(…) di resistere non ha neppure tentato. (…) chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva”. È più o meno la stessa posizione che Franz Stangl, capo del campo di Treblinka, manifesterà in una delle sue risposte a Gitta Sereny nel libro In quelle tenebre, libro che Levi conosce e cita. Ma a tal proposito vale la pena citare ancora la Buna, e precisamente la scena in cui Mischa e il Galiziano, in virtù di una mansione meno faticosa degli altri, assumono un atteggiamento vessatorio nei confronti dei compagni chiamati a ben più duro sforzo, è allora che Levi riflette: “Questo mi riempie di sdegno, pure già so ormai che è nel normale ordine delle cose che i privilegiati opprimano i non privilegiati: su questa legge umana si regge la struttura del campo” (Se questo è un uomo, p. 39).
È una legge umana appunto, e allo scrittore che è un osservatore prodigioso questo non sfugge. Il Lager è qualcosa di inedito e Levi, come è nella sua natura di scienziato, lo scruta, cerca di comprenderne il sistema e le cause. Cercare di comprendere, perfino in quelle circostanze, rimane il suo modo di stare al mondo, ecco tutto. Se a questo sguardo sommiamo una prosa chiara, incisiva, ricca di rimandi ma priva di estetismi letterari, che si districa con precisione in una materia facile ai patetismi, facile ad anteporre il giudizio ai fatti; ecco che si fa strada la lucida intenzionalità dello scrittore con tutta la sua qualità: questo avviene fin da subito, fin dal ’47. Anzi, è già del ’47 l’abbaglio di Natalia Ginzburg e Cesare Pavese, l’errore nel rifiuto di quel manoscritto, perché in Se questo è un uomo c’è già tutto lo sguardo, c’è tutta l’attenzione e la precisa elaborazione di cui è capace Primo Levi e che mostrerà nei successivi quarant’anni.
Tornando a I sommersi e i salvati, nel capitolo La vergogna lo scrittore ritiene di dover fare chiarezza e ribadire non solo chi siano, in questa storia, le vittime e quali i carnefici, ma anche chi sono i sommersi, e chi i salvati come lui. Abbiamo già detto in precedenza della vergogna e della colpa attribuita dallo scrittore al popolo tedesco che non ha voluto vedere e sapere cosa stesse realmente accadendo. Spingendosi oltre il torinese sostiene che i sopravvissuti sono un’esigua minoranza. Noi, scrive Levi, “(…) siamo quelli che per loro prevaricazione, abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo” (p. 64). I sopravvissuti non sono i migliori, non i più buoni, ma spesso chi è riuscito in maniera egoistica e fortunosa a schivare la morte. Come non ricordare la morte dell’amico Alberto Dalla Volta, di soli ventidue anni. Un ragazzo definito incorrotto, dotato di intelligenza e simpatia, amico di tutti. Inoltre dotato di una mitezza a cui faceva da contrappunto la forza. Come non contrapporre ai tanti Alberto, ai bambini, alle donne e agli anziani moribondi, tirati giù dal letto e costretti inutilmente a seguire la carovana nell’orrore del Lager, come non ricordare che a quella violenza derisoria e illogica, fatta di abominevoli soprusi, sopravvissero più facilmente i vari Organisator, Kombinator, Prominent, della zona grigia. Levi fin da subito attribuisce una parte della colpa a chi ha ceduto, a chi si è reso complice, beninteso distinguendolo dalla responsabilità ben più ampia dei custodi. La complicità veniva alimentata per prostrare ulteriormente gli animi e far trapelare la colpa dai carnefici fino alle vittime.
Nel Lager emergono tanti tipi di vergogna: quella per le angherie, per il proprio irriconoscibile stato di completo asservimento, e quella generata dall’impotenza, come quando i deportati assistono all’esecuzione del detenuto che, insieme a un centinaio di schiavi sfiniti come loro, ha in qualche modo collaborato al sabotaggio di un forno crematorio nel campo di Birkenau. Il pensiero della ribellione, della forza d’animo di quell’uomo, l’immagine di quella morte da “uomo”, di contro sprofonda il narratore e i suoi compagni nell’annichilimento. Prima della fine il condannato grida: “Compagni, io sono l’ultimo!”.  Levi dopo aver descritto la passiva acquiescenza degli inerti astanti, può scrivere: “I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi, l’ultimo pende ora sopra i nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono bastati” (Se questo è un uomo, p. 133). Infine, indimenticabile rimane, all’arrivo dei russi nel campo, la descrizione di questi soldati turbati, il loro imbarazzo di fronte allo stato dei prigionieri superstiti. È un’altra scena di pudore e vergogna. Ma per quale colpa? Per non aver avuto lo stesso coraggio di andare incontro a morte certa? Per aver rubato o mentito e smarrito qualsiasi senso di solidarietà? Per essere sopravvissuti a persone più nobili e degne? La risposta, in Se non ora, quando?, arriva dall’ebrea francese Francine, la quale prima istruisce la banda dei partigiani di Gedale su Auschwitz, sulle camere a gas, quindi parla dei numerosi suicidi dei superstiti del Lager: “Qui c’è tempo, e la gente si uccide. Anche per la vergogna (…). Vergogna di non essere morti (…). È l’impressione che gli altri siano morti al tuo posto; di essere vivi gratis, per un privilegio che non hai meritato, per un sopruso che hai fatto ai morti. Essere vivi non è un colpa (…)”, dice Francine-Levi, “(…) ma noi la sentiamo come una colpa”.
Quel che è chiaro è che il Lager rende l’uomo lupo con l’uomo e trasforma in Caino ognuno. Niente prossimità, nessuna reciprocità, solo la battaglia per l’esistenza come nuda vita. In questo stato di cose ci rimangono le testimonianze dei salvati come Levi. “I sommersi” non sono sopravvissuti. Sono morti prima del loro corpo e nessuno è in grado di testimoniare a nome loro.
Per questo i soldati russi, una volta arrivati alla Buna, hanno davanti un mondo alla fine di qualsiasi civiltà, un luogo di morti e putrescenza: “Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non averne uno”. Rimane di fronte ad Auschwitz la vergogna del mondo. E rimane, in chiusura del capitolo La vergogna, un’ultima ottimistica previsione rispetto alle stragi di massa. Levi crede non possano ricapitare in Europa nel breve e medio termine. Invece, meno di dieci anni dopo I sommersi e i salvati, con la caduta del Muro e dell’Impero sovietico, avremmo assistito alla disgregazione violenta della Jugoslavia, e con essa al genocidio di Srebrenica, alle pulizie etniche, all’assedio più lungo della storia, quello di Sarajevo. Un nuovo focolaio di peste avrebbe fatto la sua comparsa. È l’ennesima vergogna per un mondo privo di Provvidenza e redenzione, abitato da pochi mostri e una marea di gregari e complici che non hanno alcuna intenzione di imparare dalla Storia.

TECNICA. Cosa fa perdere il senso del limite resta qui una domanda troppo grande. Se i prigionieri del Lager non sono più uomini, dalla lettura di Primo Levi si evince che i carcerieri, in quanto spietati esecutori, lo sono ancora meno. Per diventare gregari, complici e carnefici del nazismo è necessario che ogni traccia di individualità sia sradicata dall’essere umano. Restano celebri le considerazioni della Arendt su Eichmann, sul totalitarismo, sull’individuo quale ingranaggio di una macchina inarrestabile. È Levi stesso a sottolineare l’organizzazione e l’abnegazione assurda, anche a guerra persa, dei soldati tedeschi. È un mondo, quello concentrazionario, dove ognuno svolge diligentemente la sua funzione, per cui non esiste legge morale, libero arbitrio o responsabilità personale, bensì esiste la funzione del singolo che si invera nel tutto. Lo stato tedesco ha un altissimo livello di omologazione ed è una realtà dove il singolo deve riconoscersi nello scopo finale che è la grandezza della Germania, chi non partecipa a questo sogno vive nel terrore delle delazioni alla Gestapo.
Tutto questo Levi lo descrive dall’interno. Egli quindi svela una realtà in cui il carceriere è stato armato dello strumento più potente: la cieca indifferenza. Il risultato sarà l’assenza di freni, il travalicamento di qualsiasi limite. “I Kapos ci percuotono”, ricorda lo scrittore, alcuni con “bestialità e violenza”, altri “amorevolmente”, come dei carrettieri fanno per spronare i loro cavalli alla marcia. Il Lager è un punto di non ritorno.
Negli abissi dell’uomo si nasconde questa pulsione cieca e distruttiva che la maieutica del totalitarismo porta alla luce e concentra nei campi. Ma i mostri erano pochi, ricorda lo scrittore. Non dimentichiamo di trovarci in una fabbrica, anche se con ironia l’autore ricorda che non produrrà nulla se non morti. La torre del Carburo della Buna, per esempio, è il simbolo dei propositi di grandezza teutonici: “odiamo in essa”, dice Levi, “il sogno demente di grandezza dei nostri padroni”. Siamo di fronte a un sistema che agisce solo perché ha la forza di farlo, la sua logica è ferrea, disciplinata tecnicamente, ottusa, ma possibile. È come se la meccanica fosse inarrestabile, e conducesse gli uomini, e non il contrario. Il progetto stesso di sterminio è inesorabile quanto osceno.
In qualche modo però, quel travalicamento, quell’assenza di limite di cui il Lager rappresenta il vertice, finisce per portare alla mente qualcosa dei nostri giorni. Qualcosa che è proseguito fino a noi, oggi. Poco dopo il Lager verranno Hiroshima e Nagasaki. È Levi stesso a ricordarlo: Se non ora, quando? si chiude il 7 agosto del 1945: è il giorno della nascita del primogenito del diciassettenne Isidor, ma sono anche i giorni dell’atomica sul Giappone. Ecco che un altro limite, avverte implicitamente lo scrittore, è stato superato.
Ci saranno ancora la Cambogia, il Vietnam, i desaparecidos, la Siria, l’elenco delle oscenità arriva a noi. Voglio dire che il limite, anche se non nella sistematicità e nelle proporzioni del Lager, verrà superato costantemente. Filosofi come Severino, Jaspers, ma prima ancora Adorno e Horkheimer, Weil, hanno messo l’accento sul ruolo della razionalità e della tecnica negli stati odierni. Prima ancora poeti come Leopardi, scrittori come Tolstoi, avevano evidenziato l’assenza di spirito e le illusioni dettate delle umane sorti e progressive insite nella nascente modernità.
Nessuna salvezza, nessuna redenzione. Se Dio non era ad Auschwitz nulla lascia presagire che un senso etico invece abiti il ventunesimo secolo. Intanto al terrore e all’omologazione coercitiva del totalitarismo il cosiddetto Occidente odierno sostituisce un sistema mediatico in grado di rappresentare la sua versione univoca del mondo, in cui l’individuo è integrato solo se “omologato” attraverso la funzione che svolge nella società. In una società questa volta frammentata però, di sradicati ed esclusi, dove l’essere umano non riesce a seguire né a partecipare ai processi tecnici che ci guidano; il risultato è l’indifferenza del mondo ricco per i problemi dell’umanità, e i metodi utilizzati nelle controversie internazionali, nei conflitti, il mare nostrum di morti annegati, di profughi, a cui siamo assuefatti da anni, sembrano davvero, con le dovute differenze, in debito filiale con l’indifferenza del Lager e l’omologazione del totalitarismo. Del Lager, dunque, oggi resta una crescente indifferenza per la sorte degli altri esseri umani e dell’intero pianeta. E forse è questo “mondo indifferente e venefico”, per usare ancora le parole di Rigoni Stern, insieme “alla stanchezza per quella lontana stagione del 1945”, a chiudere in anticipo gli occhi dello scrittore torinese Primo Levi.

 

© Sandro Abruzzese

Una replica a “Per un sillabario su Primo Levi”


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