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Giovanna Amato, “Terzafascia”: romanzo

Romanzo-reportage di Giovanna Amato sul precariato della scuola, prefazione di Anna Maria Curci, FusibiliaLibri editore. Per altre info, qui. Ma intanto, perché privarsi di un assaggio? Buona lettura!

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Quando avevo la loro età, sedevo sulle stesse piccole sedie di legno tenute insieme dalla torsione di una sbarra di ferro cavo. Erano sedie così leggere che bastava avere uno zaino troppo pieno perché la tracolla le trascinasse a terra.
Mi rendo conto di non aver più messo piede in un’aula di scuola media dagli anni Novanta. Cerco con gli occhi le penne a scatto multicolor, i walkman sotto i banchi, i quaderni con i personaggi di Beverly Hills. Ma siccome so che anche Cicerone si lamentava della decadenza dei costumi rispetto alla precedente generazione, mi limito ad accogliere con tenerezza i loro zaini trolley, i diari dei Gormiti e la penna laser di cui al momento ignoro la funzione ma che sarà grande protagonista delle nostre litigate in futuro.
Dico tenerezza per intendere quel ghigno isterico di panico che mi sfigura mentre la bidella mi presenta alla classe.
Dico bidella per evitare l’offensiva locuzione di collaboratore scolastico coniata solo per far passare come offensiva la parola bidella.
Dico classe per riassumere ventinove persone tra i dieci e i dodici anni (tredici maschi, sedici femmine) con diverse storie personali ed esigenze private nei confronti delle quali il mio compito è portarle a un grado omogeneo di competenze, fiducia e conoscenze riguardo ad alcuni settori della formazione umana.
Ingoio il mio buongiorno. Soprattutto, dico generazione non sapendo di cosa parlo, non avendo mai capito a che punto scatti la separazione (mi hanno spiegato che è una forbice di venticinque anni ma non ho capito mai a partire da chi), e so soltanto che supero di poco il doppio dei loro anni e che tra l’altro ho vaghissimi ricordi di tutto quello che mi è successo prima di aver compiuto la loro età.
Sono ancora tutti in piedi in attesa mentre io mi avvio verso la cattedra e la bidella si chiude la porta dietro le spalle, mi accorgo che la mano mi trema e che mi sono infilata in una situazione da cui uscire pulita è impossibile, sto rubando soldi allo Stato con la mia incompetenza e potenzialmente rovinando il futuro di un’intera fetta di preadolescenza di questo paesino. Il sindaco dovrebbe interdirmi la discesa dal treno, domani. Inoltre ci sono svariati reati che potrei commettere prima che la campanella suoni tre volte: bestemmiare in classe, far emergere le mie idee politiche, perdere il registro che stringo convulsamente sotto il braccio, litigare con un essere umano che con un po’ di sforzo e in un altro punto geografico del pianeta potrebbe essere mio figlio.
Non vorrei sembrasse che tutto questo viene pensato a capo chino, mentre mi dirigo come al patibolo nel silenzio di una classe che già subodora la possibilità di fare di me pasto da vermi. Sono rapida, anche se mi vedo au ralenti, e mi aggiusto i capelli dandomi una parvenza di controllo prima di inchiodare le mani ai lati del registro di classe e posare quello personale in un angolo della cattedra.
«Buongiorno.»
Sulla mia spalla destra un angelo in miniatura simile alle porcellane del Duca di Martina mi sussurra che sono ventinove, e ho con loro un’ora a disposizione. Non varrà con l’altra classe, dove le ore saranno due, ma si badi per ora a tenere i buoi nella stalla e si impieghi questo tempo, l’intero tempo, a fare conoscenza, due chiacchiere, rompere il ghiaccio, permettere a questi bambini traumatizzati da un cambio di docente di tornare a casa e dire Che bello, mamma, domani lavoreremo alacremente, così dice la professoressa, ma oggi è stata tanto buona con noi e ci ha chiesto cosa vogliamo fare da grandi.
Il diavolo sulla spalla sinistra mi incita alla “nullafacenza” fino alle vacanze di Natale, tanto poi sarò uccel di bosco e non è che si siano comportati diversamente tutti i supplenti che ho conosciuto nella mia lunga carriera di studente. Lo faccio rotolare giù dalla spalla con una piccola scossa del collo.
«Buongiorno», rispondono in coro.
Qualcosa nell’insieme di queste voci ha stonato. Sento odore di coturni, cerco la fonte della stonatura e non devo faticare molto, perché un’adulta, giacca grigia e foulard attorno al collo, si alza da una delle sedioline e mi viene incontro tendendomi la mano.
«Sono Mariella, l’insegnante di sostegno di Daniele. Siamo in compresenza.»
Compresenza vuol dire che un’adulta sarà presente al momento in cui commetterò qualche oscenità rivelatoria della mia profonda inettitudine e io non potrò giocare alla mia parola contro quella di una classe di minorenni. Le stringo la mano (Piacere Olivia) e mi avvicino al registro di classe. So che devo firmare e dove devo farlo, i bambini mi suggeriscono gli assenti, io dico Andiamo con calma così leggo tutto l’elenco e ci conosciamo. Loro obiettano Poi se qualcuno arriva in ritardo non glielo segna. Accetto il punto e scrivo i nomi dei tre ragazzi che mancano, invidiandoli profondamente per fosse pure una scarlattina che in questo momento sta deturpando i loro visini sofferenti.
«Non ti devi preoccupare di fare lezioni differenziate per Daniele», mi dice Mariella sottovoce. «Ci penso io a mano a mano che spieghi.»
Sollevo lo sguardo verso Daniele, che ride con un pennarello rosso in mano ed è subissato di fogli plastificati che escono da un quaderno ad anelli. Vorrei chiederle che problema ha ma rinuncio, sia perché non mi sembra il caso sia perché ho il dubbio che un Docente dovrebbe identificare qualsiasi tipo di disturbo a prima vista. Mi domando se c’è la possibilità che qualcuno come Daniele non abbia un insegnante di sostegno. Mi domando anche quali disturbi non ne prevedono uno. Quel giorno non so niente di BES e DSA, di Piani Didattici Personalizzati e Piani Educativi Individualizzati: so che sono stata scaraventata in una classe senza che nessun organismo e nessuna preparazione preliminare mi parlassero di regolamenti sull’insegnamento differenziato. Non so nulla di profili dinamici funzionali e mi rendo conto per la prima volta dell’ovvia presenza di dislessici e di spettri autistici (non nel senso di fantasmi con problemi ma di infinite varietà di patologie gravi cui non sono abilitata a far fronte) in una classe di ragazzini.
Una bambina mi distrae dai miei pensieri chiedendomi se può bere un sorso d’acqua. Brandisce la bottiglietta e assorbe il mio sguardo perplesso illuminandosi di gioia quando le rispondo Certo.
«In realtà» mi sussurra Mariella all’orecchio «non potrebbero bere, poi dopo vogliono andare in bagno.»
Non faccio in tempo a domandarmi dove sia il problema (lo scoprirò con calma) che Mariella aggiunge: E non potrebbero portare bottigliette d’acqua, possono diventare armi.
Mi rendo conto, oltre alla surrealtà di talune circolari didattiche non in linea con i principali insegnamenti della Bibbia sul comportamento da tenere con gli assetati, di quale lavoro preliminare il mondo della scuola avrebbe dovuto fare su di me prima di far tintinnare la campanella. Ho bisogno di qualcuno a cui dire, qualcuno che non sia compromettente, un cactus ad esempio, che fino a ieri scrivevo articoli per un mensile di critica letteraria e questo non suoni come vanto ma come ufficiale spiegazione della mia ignoranza sulle dinamiche da tenere in classe. Ormai la boa di attracco alle mie paure, il momento in cui scorrerò i nomi dal registro e lascerò la parola ai miei giovani pupilli, galleggia in un punto sempre più lontano circondata da meduse e gattucci.

(da G. Amato, Terzafascia, FusibiliaLibri 2017)

Una replica a “Giovanna Amato, “Terzafascia”: romanzo”