Bolle.
Se Walt Disney scrivesse poesie in italiano
Se, per un gioco di affinità, i cartoni animati della Disney dovessero essere paragonati a poesie italiane – no, l’eventualità è persino troppo difficile da immaginare. È pur vero che Winnie the Pooh compare in un testo di Alba Donati (Tv, in Idillio con cagnolino, 2013) e che Raboni, com’è noto, definì Delio Tessa «il poeta che amava Walt Disney» (“Corriere della Sera”, 10 maggio 1958), tuttavia il connubio tra la poesia italiana e l’animazione statunitense non è dei più sentiti. Persino Raboni sceglieva Proust quando Patrizia Valduga si dedicava alla lettura di Topolino.
Certo, Paolo Zanotti ambienta a Genova almeno il romanzo postumo Il testamento Disney (2013), ma proprio a Genova era fallito trent’anni prima il progetto di una Disneyland italiana (“la Repubblica. Genova”, 12 dicembre 1984). Dora Markus possiede un topolino d’avorio bianco che purtroppo non è Topolino e, sebbene Dino Buzzati straveda per il buon Paperone (prefazione a Vita e dollari di Paperon de’ Paperoni, 1968), non ha dedicato nemmeno un verso al pennuto.
La collana “Classici della letteratura Disney” ha recentemente ripubblicato tutte le felicissime interpretazioni a fumetti del canone poetico nostrano (l’Inferno, l’Orlando, la Gerusalemme), eppure i poeti italiani contemporanei non sembrano ansiosi di ricambiare il favore.
Sì, Anna Banti riscontrava una certa somiglianza tra i personaggi di Calvino e i disegni di Walt Disney (Italo Calvino, in “Paragone-Letteratura”, III, 28, aprile 1952), ma si trattava pur sempre di testi in prosa perché invece, per quanto riguarda la poesia, la sagoma di Topolino compare appena in un verso di Magrelli (Sul nome di un’utilitaria della DDR che in tedesco significa «satellite», in Didascalie per la lettura di un giornale, 1999) – e compare oltretutto come documento dell’«ingenuità estetica» promossa dall’immaginario cute (Carpi, Nota sul cute nella poesia di Valerio Magrelli, in “Sincronie”, XII, 23, gennaio-giugno 2008).
Lo sforzo di rintracciare qualche altro caso di interazione fra i poeti e i cartoni –fosse anche un caso isolato o magari un po’ più lusinghiero– sarebbe comunque vanificato dall’ombra lunga delle condanne pronunciate da Salvatore Settis (Se Venezia muore, 2014) e da Vanni Codeluppi (Lo spettacolo della merce, 2000) nei confronti dei parchi a tema. Disney World è tacciato non solo di esoso consumismo ma di essere, a tutti gli effetti, il perverso rovesciamento del centro storico di Venezia o dei passages parigini.
La prosa italiana, insomma, fa del suo meglio e del suo peggio; la poesia pressoché tace.
Con l’articolo E Topolino inventò la letteratura (“Topolino Story”, allegato al “Corriere della Sera”, 30 marzo 2005), Paolo Di Stefano ha rilevato quanto siano diffusi gli abitanti di Topolinia nella narrativa italiana contemporanea (Veronesi, Mari, Nove…) mentre Giorgio Fontana ha dedicato a Paperopoli un intervento al Festival della Letteratura di Mantova 2016. La maggior parte dei poeti, al contrario, sembra evitare il confronto con la Disney. Persino Guido Catalano, che pur non si risparmia nulla, ma proprio nulla, liquida paperi e sorci sputando su «un cazzo di film di merda di Walt Disney».
Eppure le occasioni non sono mancate.
Eugenio Montale recensiva Un amore di Buzzati (“Corriere della Sera”, 18 aprile 1963), senza spendersi più di tanto nel commentare la sfilza di “Topolino” che appaiono nel romanzo e presagiscono il libro illustrato del ’69 (Romanzo a fumetti). Maria Luisa Spaziani si premura finanche di informarci che Montale era solito indossare un costume da bagno blu scuro, completo, con un topolino a strisce bianche e rosse (Montale e la Volpe, 2011), che disgraziatamente non deve aver giovato all’interesse del poeta per la Disney.
È risaputo che l’icona dell’animazione americana abbia debuttato lo stesso anno in cui Montale pubblicava la seconda edizione degli Ossi di seppia (1928) e, infatti, il primo cortometraggio in cui figura Topolino, L’aeroplano impazzito, inscena un «volo senz’ali» paragonabile al volo negli Altri versi di Montale, perfettamente coevi (Vento e bandiere). La «folata» e le «spirali» investono tanto la topina Minnie quanto la protagonista della poesia ligure; «la raffica», che «incollò la veste» alla donna, riuscì a «modul[arla]» a immagine del vento come accade alla gonna di Minnie. Anche il secondo cortometraggio Disney, Steamboat Willie (1928), è ambientato in uno scenario simile a una poesia montaliana dello stesso anno (Delta). La nave di Topolino fischia solcando il fiume contro un cielo grigio, come «fischi[a il] rimorchiatore», presso la foce del torrente Bisagno nelle «ore bige» del poeta genovese.
Già su “Il Convegno” (VII, 11-12, 25 novembre-25 dicembre 1926) Montale aveva dato alle stampe I morti, ai quali «è tolto ogni riposo nelle zolle», perché «una forza li tragge» e «li volge», similmente a quanto devono subire gli scheletri nella danza macabra di un cortometraggio (The Skeleton Dance, 1929), che segue d’un anno gli Ossi Ribet. Tuttavia la possibilità di stabilire un incontro sul piano tematico non venne colta e il matrimonio fra la poesia italiana e l’animazione non si è consumato. Perciò il «Tritone» montaliano che «fuoresce dai flutti» alle «soglie d’un cristiano tempio» (Portovenere) avrà ben poco da spartire col re Tritone che lambisce il cristianissimo matrimonio della Little Mermaid disneyana (1989).
Non sono imparentate con Ariel nemmeno le «nuove Sirene» che Montale offre a Camillo Sbarbaro (Caffè a Rapallo), eppure la sirenetta e il dedicatario sono accomunati dall’incanto per le bolle di sapone. La principessa pisciforme gioca ammirata con la bolla trasparente con cui «si gingilla» anche lo Sbarbaro degli Oppi (Trucioli, 1920-1948); il poeta, a ben vedere, scoverà una bolla di sapone anche al posto del cuore delle prostitute in Vico Crema, a Savona, e pubblicherà nel 1966 il micro-volumetto Bolle di sapone.
La coincidenza non è poi tanto singolare perché, un anno prima della Sirenetta, usciva in Italia anche la quinta raccolta di Tiziano Rossi (Miele e no, 1988), che individua nella Schiuma «tonificante» l’avvertimento di «uno stupore che migra» agli occhi di «noi adulti a casaccio». Di lì a poco, Rossi citerà le vignette del gatto Felix (Fumetto, in Il movimento dell’adagio, 1993) ma continuerà a snobbare la Disney che, invece, insiste ripetutamente sull’immagine della vasca schiumosa.
Nei cartoni animati, il rito del bagno assume la forma di un cerimoniale preparatorio all’ingresso nell’età adulta, come nella poesia di Rossi. Un esempio lampante è il cucciolo Simba, lavato dapprima dalla lingua materna (The Lion King, 1994) e, in seguito, immerso nella pozza idrotermale quando sarà prossimo a regnare (The Lion King III, 2004). Lo stesso vale per il bagno iniziale (e iniziatico) di Mulan ancora acerba (1998): il rito verrà replicato nel corso del film – quando Mulan dovrà ritrovare la propria identità – perché la prima volta era stato inefficace nel trasformare la bambina in una donna.
Era stato ugualmente ingenuo anche il primo contatto di Bambi con l’acqua di uno stagno (1942), sotto la guida dello stesso Rospo che appare nei Trucioli di Sbarbaro; ma tale contatto sarà ripetuto quando il cerbiatto maturerà abbastanza da stabilire un rapporto col padre (2006).
La bolla e lo specchio d’acqua costituiscono quindi, nell’immaginario Disney, gli strumenti per entrare in relazione con il proprio corpo e costruire un rapporto tra l’età adulta e l’adolescenza. Corre sugli stessi binari l’episodio di igiene orale condiviso con la figlia da Magrelli (Mi lavo i denti in bagno, in Il sangue amaro, 2014): lavarsi, rendersi conto di chi si è, tessere una relazione con la giovinezza; eppure la poesia non interseca il cartone animato.
Il sapone Disney funzione come vettore di una maturazione: può sfidare e sopraffare il personaggio che sia ancora impreparato. Penso al nano Cucciolo (Biancaneve e i sette nani, 1937) che ingoia la saponetta e singhiozza fiotti di spuma. Le bolle colmano i vestiti dall’interno e si sostituiscono interamente al corpo del nano, trasformandolo in un fantoccio iridescente non diverso dal protagonista di Umberto Fiori: «una bolla d’aria nell’aria» (Voi, 2009). Cucciolo, emblematicamente muto, non riesce a esprimersi a livello interpersonale; le bolle zampillati dal suo corpo sono l’espressione di un infantilismo che ritorna, identico, nello sbuffo di bollicine con cui gioca Chicco, la tazzina-bimbo della Bella e la Bestia (1991).
Nel capitolo eponimo del saggio Il disagio dell’abbondanza (1987), Simon Schama ha seguito la conversione simbolica della bolla di sapone da icona dell’infanzia (gioco e leggerezza) a icona dell’infantilismo (presunzione e irresponsabilità). In questa seconda accezione, la bolla rappresenta una miniatura del mondo volubile ed effimero: è insomma un piccolo pianeta istantaneo, un emblema della vanità e della transitorietà di tutte le cose. La scena dei lavacri del cagnolino (Pocahontas, 1995) raffigura esplicitamente questa vanità, servendosi di un’iconografia vagamente settecentesca e francese, che tornerà puntuale nel film Marie Antoinette di Sofia Coppola (2006) e mi ricorda il «francesino» arrogante che soffia bolle di sapone nel primo capitolo del Giocatore di Dostoevskij (1866).
Le bolle di sapone sono quindi sia lievi che vanesie: sono un ammonimento nei versi di Trilussa («So’ bella, sì, ma duro poco», La bolla di sapone, in Le cose, 1922), sono un gioco affettuoso nei versi di Sanguineti (n. 8, Cataletto, in Segnalibro, 1982) e sono infine vacua illusione in una lettera di Parronchi a Sereni (29 dicembre 1946, in Un tacito mistero, 2004). Nell’animazione Disney, rappresentano la veste della leggerezza, di cui bisogna spogliarsi mediante un bagno simbolico al termine dell’infanzia, così da passare da sirena a bipede, da tazza a bambino o da ragazza a donna. I protagonisti di Aladdin (1992) e Pinocchio (1940) subiscono immersioni drammatiche, spediti negli abissi o nel ventre della balena, ma in entrambi i casi il ruolo del magico soccorritore è inequivocabilmente segnalato dalla schiuma: il genio della lampada si insapona mentre il grillo parlante è letteralmente chiuso in una bolla. Anche Semola supera la prova del sapone col magico soccorso di Merlino (La spada nella roccia, 1963) e, maturando, potrà essere infine incoronato, secondo un percorso parallelo a quello di Hercules (1997).
L’eroe greco disneyano deve affrontare il tuffo nell’Acheronte per poi trasformarsi da mortale in dio e incrementare la propria posizione, come già avevano fatto Aladdin –da mendicante a principe– e Pinocchio –da burattino a bambino. Le bolle evidenziano insomma un test ancora più insidioso della consueta prova finale cui l’eroe e l’eroina devono sottoporsi, e l’insidia consiste proprio nell’ordinarietà del gesto (pulizia personale o domestica) che si tramuta in un momento d’incanto, attraverso la «fragile bolla di sapone, fatta unicamente per entrare un momento sulla scena e poi per sempre sparire» (Shakespeare, Riccardo III, at. IV, sc. IV).
Anche Pascoli identifica la voce dell’«infante» con lo svanire di una «bolla a fior d’acqua» (Sogno d’ombra, in Myricae, 1891-1903) e la contrappone alla voce dell’anziano, stabilendo una traiettoria intergenerazionale. Ma nel caso in cui l’immersione rituale non funzioni al primo tentativo, i personaggi corrono il rischio di restare ingabbiati nella bolla, quindi in una condizione transitoria e precaria che sfavorisce la maturazione. Dumbo (1941) subisce un primo battesimo nell’acqua insaponata e un secondo battesimo nel vino, che provoca allucinazioni e coinvolge nuovamente il ruolo del soccorritore magico (un topolino).
La tinozza, attorno alla quale ruotano entrambi gli episodi, funziona come accesso possibile a una crescita personale, non diversamente dalla Vasca montaliana in cui ribollono le varie ipotesi di vita «a fior della» sfera «liscia» (Ossi di seppia, 1925).
Il bagno di Dumbo in compagnia della madre è una scena lacrimevole che contrasta col futuro arresto dell’elefantessa. La separazione forzata potrebbe richiamare l’attaccamento di Vivian Lamarque, che prega la nebbia di «non sparire come le bolle di sapone, come le persone» e le chiede di «resta[re] abbracciata come madre» (Non svanire come le persone, in Madre d’inverno, 2016), o il desiderio di adesione di Stefano Dal Bianco: «l’amore non esiste esiste solo il desiderio e quante sono, belle / di mamma, belle di papà, le bolle di sapone» (Bolle di mamma altrove, in Prove di libertà, 2012).
Altro rapporto difficile con la figura materna è quello di Cenerentola (1950), che –nella trasformazione da sguattera a principessa– passa attraverso due scene di abluzione: lavata prima dagli uccellini (!), si specchia poi nelle bolle di sapone aggiustandosi i capelli. È curioso che l’atto supremo di vanità –guardarsi riflessa– avvenga durante l’espletamento delle faccende domestiche, che restano l’incubo della Disney come, del resto, di Natalia Ginzburg (Mai devi domandarmi, 1970). Vanitoso, infatti, è anche l’apprendista stregone Topolino (Fantasia, 1940) che dovrebbe lavare il pavimento e invece rischia di annegare a causa delle inarrestabili scope incantate, che causeranno danni persino alla Bella addormentata (1959).
Dobbiamo forse supporre che la Disney provi nei confronti delle pulizie casalinghe lo stesso timore che la poesia italiana sembra nutrire verso i cartoni animati, a cominciare da Emilio Tadini (Cartoni animati, in L’insieme delle cose, 1991). Eppure è celebre il testo in cui Saba afferma che «i versi somigliano alle bolle di sapone» (Commiato, in Cose leggere e vaganti, 1920), in sintonia con le piscine che «schiumano di sapone» nella poesia di Elizabeth Bishop (Pleasure Seas, in The Complete Poems, 1983). Nel 2010 Michele Emmer vinceva il Premio Viareggio per la Saggistica con Bolle di sapone, tra arte e matematica (2009), giusto qualche anno dopo la costruzione della “Bolla” di Renzo Piano a Genova, al posto della Disneyland mancata (2001). Ma gli innumerevoli punti di contatto sono stati sprecati e benché Quasimodo e Sereni siano apparsi su “Topolino” (rispettivamente: nn. 751 e 1156 del 1970 e del 1978), la poesia italiana non è parsa finora interessata a stabilire un dialogo col disegno animato. Bernardo Pacini, che ha composto un’intera raccolta dedicata all’animazione televisiva, ha comunque preferito i Pokemon alla Disney (La drammatica evoluzione, 2016), per giunta senza ritrarre Squirtle che emette almeno un fascio di bollicine.
Nel 1973 la Disney sponsorizzava lo spot di Mr Bubble per un bagno spumoso. Nello stesso anno Montale pubblicava il Diario del ’71 e del ’72, disegnando l’«arabesco» del Tuffatore e chiedendo «pietà per le pupille, per l’obiettivo/ pietà per tutto che si manifesta», tranne che per la Disney.
© Samuele Fioravanti
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