Una frase lunga un libro #85: Brian Turner, La mia vita è un paese straniero, traduzione di Guido Calza, NN editore 2016, € 18,00, ebook € 8,99
*
Era come abitare in una bomba inesplosa.
Mi sono spesso domandato quali fossero le ragioni di un soldato, non potendo domandarmi le ragioni di qualunque guerra. Le ragioni di un soldato dei nostri tempi, uno che abbia combattuto nella ex-Jugoslavia, in Iraq e in Afghanistan, per capirci. Se mi fermo a pensare, ad esempio, ai soldati americani, immagino (ma in realtà registro le cose che ci hanno sempre raccontato) che si arruolino per due motivi; per il famoso “Volevo servire il mio paese”, e poi perché nelle piccole cittadine del Vermont, del Montana, della Virginia, dell’Ohio dove c’è poco lavoro e, soprattutto, niente altro da poter fare, le scelte per spostarsi o fare qualcosa sono veramente poche. Questo ci ha detto la storia, questo ci dicono il cinema e la letteratura. Se fosse tutto qui sarebbe ancora poco, qualcosa in più di incredibile e terribile ci racconta il poeta e soldato Brian Turner in La mia vita è un paese straniero (splendida la traduzione di Guido Calza). Ci sono due momenti in questo romanzo a frammenti, a strappi, che indicano qualcosa delle ragioni di Turner e forse di molti altri.
Il primo momento è indelebile, qualcosa alla quale non si può smettere di pensare. La scena vede Turner quattordicenne e suo padre (militare, così come suo nonno) intenti a costruire una bomba al Napalm, dietro casa, in California, negli USA. Questa è la formazione di Turner. La bellezza di questa scena assurda sta nel fatto che leggendola non percepiamo nulla di orrendo, ma solo comunanza e comunicazione tra genitore e figlio. Il Napalm è una tradizione di famiglia che viene passata, ci ho letto la stessa naturalezza di quando mio padre in un cortile mi insegnò il tiro all’ungherese. La bravura di Turner rende perfettamente la meraviglia di un momento terribile. L’altro momento è quello in cui Turner si arruola, per sfuggire a qualcosa o per ritrovarsi, o per continuare quella tradizione alla quale non può sottrarsi:
Firmai il foglio e mi arruolai in fanteria perché a un certo punto della vita dell’eroe, l’eroe deve dire Giuro.
Questa è la base e poi c’è il libro che è straordinario, pensato e costruito in modo insolito. È un romanzo, un memoir, un diario ed è un sogno, ed è reale, ed è un’andata mai conclusa, ed è un ritorno che non avviene mai fino in fondo.
I frammenti in cui è diviso il libro, più o meno brevi, semplicemente numerati, hanno qualcosa di mistico e meccanico allo stesso tempo. Possiedono il passo regolare della matematica e la dimensione onirica del sogno, in contemporanea. C’è un ritmo nella prosa di Turner, credo che venga sì dalla poesia (ha pubblicato due bellissime raccolte in versi) ma anche dalla regolarità dell’addestramento, dal passo di marcia. La memoria del poeta americano funziona come quella di uno che è abituato a preparare lo zaino in fretta e a non dimenticare nulla dentro la tenda.
A guerre finite il soldato è nel letto con sua moglie e sogna oppure pensa oppure ricorda, ma è tutto insieme. E sono immagini di guerra, riprese dall’alto. Di bambini che muoiono, di altri che vengono salvati. Di compagni che saltano in aria, di uomini che costruiscono bombe artigianali. Del giusto e sbagliato, del tutto sbagliato, del sempre sbagliato. Di uno che muore, di un altro che vive. Di altre guerre, quelle che hanno combattuto i padri e i nonni. Dell’assurdo e dell’indimenticabile. Di proiettili mai arrivati a bersaglio, di altri mai sparati, di altri ancora che tornano a casa con i soldati e stanno lì inesplosi sotto al cuscino, nel frigorifero, in una birra scadente e antiuomo.
Il punto è che, quando si torna a casa dalla guerra, tutto quello che è accaduto torna a casa con te. E tu sei colpevole e innocente ma sei comunque in gabbia: Turner scrive splendidamente e non fa sconti, nemmeno a se stesso. Scrivere e fare memoria sono i modi con cui cerca di tornare a casa. Un altro modo credo sia quello di amare, ed è per questo che quando sogna lo fa dal letto di casa, con sua moglie accanto; se ricordi te stesso che prende la mira è meglio farlo tenendo chi ti ama per mano.
Non so cosa si provi ad avere dei killer alla porta, ma so cosa si prova a essere uno di quelli che ti entrano in casa con il fucile spianato. Occhi dilatati e verdi da visione notturna. Adrenalina nelle vene. Il dito che fa scattare la sicura in attesa del conto alla rovescia. Con un detonatore in mano. Il corpo collegato a uno scoppio imminente. La notte che si spezza fra le mie mani.
È un libro contro la guerra? Non lo sono tutti? È di certo un libro sulle persone, sugli sbagli, sui rimorsi, su quanto ogni scelta individuale pesi sulla collettività. È un libro che prova ad aprire tutte le porte mentre cerca quella di casa.
*
© Gianni Montieri
2 risposte a “Una frase lunga un libro #85: Brian Turner, La mia vita è un paese straniero”
[…] Su Rivista Studio Su La Lettrice Rampante Su BooksHighway Su Senzaudio Su Zest Letteratura Sostenibile Su La Sala dei Lettori Inquieti Su DarvaxSu Crepuscoli Urbani. On reading, on writing Su Il Giro del Mondo Attraverso i Libri Su Il Libraio Su Poetarum Silva […]
"Mi piace"Piace a 1 persona
L’ha ribloggato su gianni montieri.
"Mi piace""Mi piace"