Anna Toscano, Una telefonata di mattina, La vita felice, 2016, € 12,00
di Anna Pavone
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«Dove sei, Auguste?» chiede il dott. Alzheimer alla signora Deter, visitandola per la prima volta. «Qui e ovunque» risponde lei, e poi ripete «mi sono persa, per così dire.» Il primo caso studiato di morbo di Alzheimer è una delle voci che agitano pensieri e memorie di Una telefonata di mattina, recente silloge di Anna Toscano.
E sono proprio due versi di parole in bianco e nero, «Confondevi i luoghi, le persone,/ il tempo, il tuo nome» (Auguste), che creano la condensa attorno alle altre poesie. Riportando la storia di Auguste nel “qui” e “ovunque”, nella scrittura che si dipana attraverso un ordine che si deve a chi ha perso la strada, la Toscano non vuole restituirle la memoria, quanto condividere un’assenza e una perdita: «le cose/ non hanno più un nome/ sono solo cose» (Quando il sole nella precedente Doso la polvere). E mischia “ora” e “allora” in un continuo rimando di tempi e di memorie.
I versi dell’intera raccolta scivolano spediti fino al gradino della chiusa, in cui si inciampa e si ferma il respiro; la punteggiatura misurata crea il chiaroscuro, l’ironia stempera il dolore come le assonanze e le rime, e niente si impiglia per caso. La tensione sale, si quieta, torna a salire, ma non esplode. Era esplosa in Doso la polvere, grumo di dolore non sciolto, non disteso. Forse non a caso lì il verbo “stendere” era usato una sola volta, e in terza persona: «Siviglia è fili a stendere» (Siviglia è un filo). Qui torna invece più volte, e quasi sempre in prima persona. Stendo la pelle, le creme, il bucato. Come se quei fili tirati da una parte all’altra, su cui stendere panni e dolori ad asciugare, trovassero il puntello nello sguardo da lontano delle città. Nonostante la solida struttura di scansione tematica, i confini sono fluidi e non è raro imbattersi in poesie che scivolano da una parte all’altra, che scappano dalle mani per non incasellarsi.
L’apertura del libro è affidata a Io con le parole che, nel mettere subito a fuoco parole e cose, le filtra attraverso l’unica lente possibile: “io”. Una poesia che fa cose, fa parole. Fa cose con le parole. Che modella le forme, i suoni, le città, le assenze. E le cose sono piene o vuote, sono bauli in cui mettere le sillabe, scatole di scarpe, armadi a muro, pigiami rosa in cui attendere la morte, stive per stipare migranti, vasi, tasche. Sono stanze svuotate di parole e parole che le svuotano, sono case disabitate che non rispondono più, sono assenze che si fanno cose e cose che si riempiono di quell’assenza: frittelle, temperamatite, messaggi mai spediti e mai arrivati, gonne. Assenze reali e acuminate a cui dare del tu. E poi c’è il tempo, che contiene sempre.
In Doso la polvere i mesi battevano e chiedevano ragione, isolati nella loro identità. Marzo, maggio, settembre. Ora lo sguardo si allarga alle stagioni e le scolora. Una primavera troppo corta, un autunno dentro cui scivolare, un’estate con la pioggia, un rumore atteso «della fontana/ a dire che l’inverno/ è finito» (Aspetto ogni giorno). Il filo del tempo fa srotolare tutta la raccolta, e non solo la prima parte. Ma sono tempi che franano l’uno nell’altro. C’è il presente del fare, del dialogo con l’assenza, del tamponare il tempo, dell’attesa, del guardare e vedere. C’è il condizionale, che punge la volontà con i suoi “vorrei”: «Il cuore? Lo vorrei/ dentro una scatola da scarpe in un armadio a muro» (Un tempo), quello che si àncora al dovere: «tutto dovrebbe girare all’inverso» (Mi muovo) o che dimora nel passato: «Lo dovevo sapere che si vive senza pretese» (E dovevo saperlo).
Ma questo passato, quasi mai remoto, sempre vicino, è fermo perché è «qualcosa che è sempre stato» (Stanotte ho sognato), è un luogo in cui è «già stata» (Portami dove) e in cui chiede di essere riportata. Un passato che si sofferma sul tempo, che ne appiana i tratti, come i ricordi, come le rughe, perché i pensieri sono al presente anche quando pensano il passato, il “qui” – così tanto più frequente del “lì” – ha una valenza non solo spaziale ma anche temporale. E c’è un futuro. Che però è virtuale, come se fosse un altro tempo del passato. Quello che si assicurano i vecchi portandosi a casa appagati il calendario dell’anno nuovo già a novembre, cercato in farmacia o al supermercato. O un futuro che è memoria negata: «Chi la racconterà domani/ la storia dei migranti di oggi» (Chi la racconterà). Le domande ci sono, compaiono altrove, ma non qui. Forse perché immediatamente prima c’era la storia di Auguste e della sua memoria perduta. Memoria che diventa ponte tra le persone e i luoghi, nella memoria che li può nominare.
«Il futuro non esiste/ il futuro non arriva nella mia città» (Nella mia città in Doso la polvere) è quello stesso futuro che sovrasta ancora Venezia nello squarcio della diaspora: «tornerò e ti troverò mutata?» (Non ti ho), un ordine minacciato e confuso che compare anche in Baires: «Non ritrovi mai/ strade piazze chiese librerie/ nella disposizione in cui le lasci.» Il futuro è un viaggio fermo, senza approdo nei «vaporetti mai arrivati a destinazione», un futuro immaginato nel “dopo” di questo tempo: «Vedo questo luogo, lo vedo dopo» (Vedo questo luogo), una casa vuota e impolverata. Disabitata come l’anima. Luoghi che possono esistere solo se fermi nell’allora: «mica era come ora,/ era/come allora» (E poi ci sono i luoghi) con il verbo al passato isolato e amplificato dentro un unico verso. Questo continuo rimandare e rimbalzare tra “qui” e “lì” fa scivolare i luoghi nel tempo: «Portami dove sono già stata/ dove c’è un buon tempo» un tempo sospeso nell’unico verso della raccolta che non ha compimento: «Portami dove sono già stata/ dove tutto ha un senso/ dove non c’è bisogno di» (Portami dove). Punto. Nient’altro.
Una sospensione già misurata in Doso la polvere nei versi di Ultime cose «ma tu no non salire su quel treno/ senza avermi raccontato ancora di quella volta che.» Punto.
Ancora un luogo, un tempo e un “tu”. Lì a chiudere la poesia, qui a cedere il passo alla ripetizione, come un refrain, di «Portami dove sono già stata.» Un “ora” e “allora” che si intrecciano anche nell’ultimo verso di Mi muovo: «Allora forse domani torno, ragazza.» Una virgola. Una pausa piccola. Talmente piccola che il fiato potrebbe non fermarsi e continuare, ignorare la pausa, la virgola, il vocativo, la dedica. Talmente piccola che potrebbe decidere di rincorrere il pensiero appena sentito: «Comunque fili la narrazione/ tutto dovrebbe girare all’inverso», invertire l’ordine del tempo.
E domani tornare ragazza.
Dove sei, Auguste? Qui e ovunque. Mi sono persa, per così dire.
Mi confondo, perdo l’orientamento:
essere ovunque e in nessun posto
la domenica pomeriggio.
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© Anna Pavone