Crisi della dialettica
Ci sono due modi di sentire e concepire il mondo, che stanno da sempre in aperta, fatale e insolvibile contraddizione. Si possono riassumere in due formulette. Esiste, da una parte, un’attitudine profondamente religiosa, un sentimento contemplativo e creaturale della vita, per il quale non c’è altro valore o bene, non c’è altro idolo da adorare che non sia la Vita. Generalmente questa attitudine la si appiccica ai santi, ai poeti, o a nature magnanime e sublimi. Il dono della musica, il piacere della libertà, la perdizione di se stessi sono attributi essenziali di questa perfetta imitazione evangelica. E spesso, per ritrovarla, non c’è bisogno di richiamarsi a campioni di stoffa suprema, basta scendere tra comuni creature, tra pochi felici che consumano esistenze splendide di una loro vile magnificenza, vissute senza risparmio dell’anima. Scioperata ed errabonda, umile e peccatrice, assomiglia, la vita di queste persone, all’esistenza randagia degli animali, a quella lussuosa dei fiori. Vite di poveri, ma capricciose come e più di quelle dei ricchi. I gigli dei campi, gli uccelli del cielo esprimono lo stesso tipo di religiosità: qualcosa di simile all’idea “decadente” della poesia, sublime accettazione della “vita” da una parte, rifiuto e indifferenza del “mondo”, dall’altra. Per essere tra costoro, bisogna essere insieme adulatori e peccatori, vittime e ribelli. Bisogna sentire la vita come ciclo di perpetua lode ed eterna distruzione. Bisogna opporsi al falso razionalismo, alla falsa vernice della “realtà”. Sarebbe un errore chiamare “mistici” questi pochi felici, dotati di spirito francescano, maledetto e “poetico”. Li incontriamo ogni giorno. Siamo, costoro, noi stessi.
Così, nel suo accento profetico, al cospetto dell’eterno, Tolstoj poteva scrivere, un giorno, che «bisogna amare la vita, amarla anche nel dolore, perché la vita è tutto, la vita è Dio e amare la vita è amare Dio». Ma c’è un altro modo, altrettanto religioso, e dicono più severo, di concepire il mondo. Quello che insegna a non adorare per niente la vita, ma, al contrario, a disprezzarla, e a metterla, nel conto degli oggetti che ci appartengono, come la cosa più ottusa e più vile. La vita è stupida, inesistente, pasticciona: una donnetta isterica, a mezzo servizio, che non merita idolatrie o sacrifici. Altro che amarla. Bisogna tenerla a distanza, invece, cercare, tutt’al più, di utilizzarla, trattandola come una materia servile, come uno strumento, cercando di sostituire ai suoi falsi e peribili valori illusori un bene ancora più chimerico, più illusorio, ma eroico e prometeico: bisogna darle un senso, inseguire finalità costruttive, inventare la bussola della Realtà. Così San Paolo poteva scrivere: «Se compri un oggetto, compralo come se tu non lo comprassi; se ti sposi, sposati come se tu non ti sposassi». Per essere nel vero, bisogna vivere senza vivere. Alle premesse dell’amore, si devono sostituire le premesse della politica. Stabilire con la vita un rapporto tattico, tenersi sulla diffidenza. È su queste premesse, insieme calvinistiche e gesuitiche (quale stretta di mano si sono dati, i due grandi antagonisti!) che è sorta, o almeno si è solidificata per sempre, sembra, di successo in successo, la società borghese, la civiltà industriale e moderna. È giusto prendersela con la tecnologia, col neocapitale, col benessere, con la follia rimossa dei funerei istituti “borghesi”? È giusto, ma soltanto a patto che si riconosca che siamo, questa civiltà, noi stessi.
Nel calderone della storia c’è stato sempre spazio, si sa, per tutti gli opposti, la civiltà occidentale è dialettica. Qualche filosofo medievale si sta ancora chiedendo, nella tomba, se sia da preferire la vita attiva o quella contemplativa. Mentre santi e poeti creavano i perpetui modelli dello Spirito, mercanti o pionieri volgari scoprivano continenti e inventavano motori. È vecchio dilemma faustiano, come Leonardo che dimenticava volentieri tele e cartoni, per darsi tutto a pensare come potessero bonificarsi le paludi pontine. Temo che la dannazione dell’uomo sia proprio in un paradosso, nel fatto che vivere significa smentire a ogni passo l’unilateralità dei due opposti modi di sentire. Appena si comincia a vivere, si comincia a costruire tutto ciò che non ha valore. Ma ci si può anche chiedere, come fa Elsa Morante nella sua Canzone degl F. P. e degli I. M., da che parte stia la felicità.
Elsa Morante non ha dubbi. Trascinata da un impeto dantesco, con una voce straziata ma piena di grazia, con un istinto del gioco sorridente che non trova oggi uguali, divide il mondo in reprobi ed eletti: da una parte i Felici Pochi, le cui «contraddizioni non esistono finalmente – altro che nei nostri pettegolezzi provvisori», e dall’altra i meschini Infelici Molti d’ogni paese. Anticipatrice dei beats addirittura negli anni Cinquanta, sorella di Antonio Delfini, la Morante non si sente di convalidare la dialettica della civiltà occidentale. La vive invece in termini di alternativa, di crisi. Felici, bellissimi e allegri sono soltanto quelli che hanno imparato a perdersi. E mentre li commemora, come è strano e naturale, la voce del poeta si intenerisce, si riempe di tristezza. Poi sale a note più alte, stridule: la canzone si trasforma in un poemetto arrabbiato, in un urlo di protesta.
Ho letto da qualche parte, o ho sentito dire, che la Morante possiede un cervello virile. Può darsi. Ma quello che di veramente virile colpisce in lei è un dono superiore e diverso, e lo si vede anche da questa canzone, che sa ridere di se stessa. È quella grazia, quella leggerezza buffonesca, quella gentilezza e capacità di lazzo irriverente, che così raramente le donne possiedono. Di mettersi i pantaloni, qualsiasi donna è capace. Di prendersi gaiamente sotto gamba, nel più vivo dolore, nessuna.(1968)
© Cesare Garboli, Crisi della dialettica, da La stanza separata, Milano, Scheiwiller, 2008.