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La Dea in attesa: recensione a “Sette giorni fra mille anni” di Robert Graves

 

R. Graves, "Sette giorni fra mille anni", Nottetempo 2015, traduzione di Silvia Bre.
R. Graves, “Sette giorni fra mille anni”, Nottetempo 2015, traduzione di Silvia Bre, postfazione di Silvia Ronchey.

Più la questione è sottile più mi rende felice.
Graves, Sette giorni fra mille anni 

Che si tenga attivo il servizio postale in Persia o che un esponente della Specie Impermanente dei Cammelli Polari ci tenga un discorso (1), che una linea stupisca un punto e si domandi se potrà mai essere stupita a sua volta da qualcosa di più complesso o che un ragazzo con il bagaglio linguistico di Shakespeare snellisca la sua lingua solo per maledirci, in rari momenti la letteratura raggiunge il suo punto più generoso come nella distopia, quando alla bellezza di leggere un libro si aggiunge la potenza di essere trascinati davanti allo specchio delle possibilità. “Specchio” era la parola usata da Lem di fronte ai mondi di cui eravamo in cerca – lui che con Solaris aveva unito la distopia dell’infinitamente grande a quella dell’infinitamente piccolo, dimostrando quanto l’interno di una cassa cranica potesse combaciare con il cosmo intero. La distopia, e ciò che le gravita intorno, è superficie riflettente in cui siamo tenuti a verificare la coincidenza con la nostra immagine, e fare i conti tanto con essa quanto con ciò che possiamo ritagliare; per sua natura, la distopia è un romanzo a tesi, ed esige una nostra presa di posizione, o di coscienza, all’interno della sua dialettica. Per questi motivi non si può, tornando a casa con un romanzo di Robert Graves in borsa, evitare di chiedersi: cosa accade quando una mente che nei suoi studi ha ricomposto una civiltà passata sotto l’egida della Dea decide di rivolgersi a ipotizzare un futuro?

Eppure sarebbe poco etico nei confronti della narrativa stessa vivere Sette giorni fra mille anni, appena edito da nottetempo, come una propaggine letteraria del saggio La Dea Bianca (1948), in cui la vastissima cultura e intraprendenza intellettuale di Graves gli permisero di riprendere le fila del discorso di Franzen fino a dare una geografia, un alfabeto, una progressione all’intreccio di popoli e miti che rispettavano il ciclo stagionale e l’osservazione degli astri in una maniera assai più unitaria di quanto si fosse mai sospettato, incardinando la propria fede in una Dea (madre, amante, assassina) che dispensava con lo stesso amore la nascita e la distruzione, e che aveva, prima di esserne spodestata, i suoi fratelli, figli e amanti necessari all’economia del ciclo vitale attraverso un consenziente sacrificio. Eppure dimenticare non è facile, né interamente giusto; il romanzo si svolge in Nuova Creta (dove l’antica è il centro gravitazionale della diffusione del culto), la Dea è amabilmente tornata, il suo protagonista – l’inconfondibile voce di Graves, scanzonata, cinica, curiosa – lascia che chi l’ha evocato dal passato gli racconti il funzionamento del nuovo mondo e le vicende che hanno portato al collasso del vecchio: il nostro, il mondo cristianizzato e industrializzato, considerato, agli occhi degli abitanti come a quelli infinitamente più alti della Dea, nient’altro che una blanda parentesi. Possibile, quindi, e anzi necessario godere del romanzo in se stesso, ma impossibile non inciampare nella strettissima connessione che lega la sua tesi all’universo disegnato ne La Dea Bianca.

R. Graves, La Dea Bianca, ed. Adelphi 2012, traduzione di Alberto Pelissero.
R. Graves, La Dea Bianca, ed. Adelphi 2012, traduzione di Alberto Pelissero.

Edward Venn-Thomas, dicevamo, il protagonista, viene evocato in un futuro lontano per un consulto riguardo alcuni problemi linguistici, una revisione del dizionario inglese. Ospitato a Nuova Creta, conosce un mondo suddiviso in cinque caste (capitani, archivisti, popolo, servi, maghi), con caratteristiche di un sistema religioso inequivocabile (dipingersi di blu, precisi riferimenti arborei, nomi come Nimue, Mari e Ana, la triplicità e nonuplicità della Dea e il suo mostrarsi in forma di gru), ma soprattutto un mondo dove le guerre vengono condotte con gentilezza e dichiarate perché un bambino preferisce i salatini dei vicini alla sua marmellata di susine; un mondo dove non esiste denaro ma tutto si prende al mercato in cambio di una preghiera e nessuno immagina di poter prendere più del necessario; un mondo dove non si ride mai con malignità, si affrontano i discorsi più imbarazzanti senza il filtro della discrezione e i capitani obbligano i bambini a giocare alle barchette nella maniera più funzionale possibile.

“Che importa se a loro piace o no? Sono giovani e devono imparare. L’obbedienza è la madre delle consuetudini; le consuetudini delle buone maniere; le buone maniere della pace.”
“E la pace?” ho domandato. “Di chi è madre la pace?”
“La pace è una vergine.”
“Allora siete fortunati. Da noi ha una lunga linea di discendenti: anzi, la sua genealogia gira in un circolo infinito. La pace è madre della prosperità, la prosperità dell’indolenza, l’indolenza della noia, la noia del male, il male del massacro, il massacro del terrore, il terrore dell’obbedienza – e così si ricomincia. Una, due, tre, quattro, cinque… sì, direi una decina di generazioni.”
“La pace è una vergine!” ha ripetuto con un tono più perentorio di prima.

Da questo dialogo con la sua guida del momento Edward dovrebbe cogliere la nota stonata che infetta la sua utopia come una peste. Pronuncia la parola, ma ancora non si rende conto che il nodo è lì: il male. Beneducato fool, il suo tono è quello del provocatore sottile, ma il ruolo che gli interessa è quello dell’osservatore; se è a disagio nelle dinamiche del suo mondo ospite lo è in maniera svincolata da ogni coinvolgimento. Ha i suoi (pochi) affetti e soffre per i loro destini, ma anche in questo caso non può fare a meno di studiare, e con una certa stizza, che i loro dolori non vengono da sventure ma da compassati rituali di buona educazione. C’è un languore nella società che lo ha accolto (e che lui ha turbato con un carico di sentimenti che non le appartiene) che deriva dalle stesse fondamenta su cui poggia: una gentilezza terminale, un completo senso dell’onestà e del dovere, e la perfetta ignoranza della malizia e del male. Si compiono, certo, sacrifici grati alla Dea, ma tutti all’interno del recinto del sacro, e tutti per amore: la ritualizzazione della violenza è tale che tutta la violenza residua è assorbita, e la ritualità per prima non è considerata tale. L’amore è sublimato, platonico, questione liquida e gestita con trasparenza; perfino la riproduzione si svolge in un clima di sorridente aleatorietà dei corpi.

Dell’amore Graves parla con chiarezza e a lungo, ne La Dea Bianca: la parola poesia sta al poeta come la parola amore all’amante, dice, e non c’è ispirazione, non c’è preghiera alla Dea che non passi attraverso la furia dell’innamoramento per una donna che in quell’attimo sia la Dea stessa. Parlando di Keats e della sua La belle dame sans merci, Graves dà dell’amore, della poesia e della Dea la più formidabile delle descrizioni:

Il viso della belle dame aveva dunque la strana bellezza pallida e affilata di quello di Fanny, ma era anche sinistro e beffardo: rappresentava sia la vita che Keats amava (nelle lettere a Fanny egli la identificava con l’Amore e con la Vita), sia la morte che temeva. […] Vi è un terzo elemento in questa figura d’incubo: lo spirito della Poesia. Il maggior conforto che Keats trovava nelle sue tribolazioni, la sua passione predominante, l’arma con cui più sperava di aprirsi un varco verso l’amore di Fanny, era l’ambizione poetica. Ma la Poesia si stava dimostrando una signora crudele. […] Che la belle dame rappresentasse a un tempo l’Amore, la Morte per tisi (la lebbra moderna) e la Poesia è confermato da un attento esame delle storie che ispirarono questa poesia. È come se Keats avesse saputo per intuito, più che per diretta conoscenza storica, che alle loro radici c’era lo stesso antichissimo mito.

Un mondo che non preveda questo percorso di strazio verso l’estasi è dunque un mondo disabitato dalla Dea. Per quanto gli abitanti di Nuova Creta possano credere il contrario, il loro mondo è un incubo; il ritorno della Dea non può sembrarci che falsato; la completa assenza del delirio (del delirio al di fuori di una ritualità gentile) non può essere che distopia. E quale ruolo abbia Edward, e quale idea abbia di questo momento storico la dama dal naso aquilino (anche in questo caso, del resto, i secoli possono essere nient’altro che una parentesi) è materia sotterranea di questo libro che unisce il giallo alla pura avventura, la trattazione mai accademica (strepitosi i duetti tra i contegnosi esperti e un protagonista al vetriolo) alla narrativa fantastica.

Sarebbe un peccato, insomma, leggere Sette giorni fra mille anni come una leggera giunta a La Dea Bianca; eppure, dall’altro lato, molta della sua leggerezza andrebbe persa se non la si comparasse al grande impianto di studi da cui è scaturito. Si potrebbe, più saggiamente, affrontarlo come un libro trascinante come una scatola magica, e assieme agghiacciante come una sala di specchi, perché non c’è modo migliore di sentirci ghiacciare che nel sottofondo di una leggerezza ben dosata.

© Giovanna Amato

(1) Opere citate:

Montesquieu, Lettere persiane, I ed. 1721.
Genna, Discorso fatto agli uomini dalla specie impermanente dei cammelli polari, :duepunti 2010.
A. Abbott, Flatlandia, I ed. 1884 (it. Adelphi 1996)
Huxley, Il mondo nuovo, I ed. 1932 (it. Mondadori 1933)
Lem, Solaris, I ed. 1961 (it. Nord 1973)
Graves, La Dea Bianca. Grammatica storica del mito poetico, I ed. 1948 (it. Adelphi 2002); la citazione interna è da ed. 2012 p. 489.

6 risposte a “La Dea in attesa: recensione a “Sette giorni fra mille anni” di Robert Graves”

  1. L’ha ribloggato su trattiessenzialie ha commentato:
    Splendida recensione sull’ultima opera dell’immeso Robert Graves.
    “Dell’amore Graves parla con chiarezza e a lungo, ne La Dea Bianca: la parola poesia sta al poeta come la parola amore all’amante, dice, e non c’è ispirazione, non c’è preghiera alla Dea che non passi attraverso la furia dell’innamoramento per una donna che in quell’attimo sia la Dea stessa.”

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  2. Conoscenza e suggestione. Quando nel mito si annida il futuro qualcuno cerca di anticiparlo con fretta utopica,qualche altro di resuscitarlo dal passato per reazione al triste presente. Per es. alcune previsioni di Graves sembrano essersi atuate o sul punto di esserlo: pericolo atomico, maschilismo bellico,rimonta del femminile, emergere della naturalità….Stiamo a guardare?

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