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Poesia latinoamericana #8: Rosarios Castellanos

Poesia latinoamericana
Grandi autori del secolo XX

L’ottavo appuntamento con la poesia latinoamericana è dedicato a Rosario Castellanos, poeta messicana. Prosegue con lei questo viaggio attraverso le voci e le terre della poesia latinoamericana dello scorso secolo; viaggio che anticipa il prossimo progetto antologico di Raffaelli Editore, curato da Gianni DarconzaMario Meléndezun’antologia di voci poco note, le più, ai lettori italiani. Una buona occasione per colmare un vuoto e aprire un dialogo. [fm]

Rosario Castellanos

ROSARIO CASTELLANOS

 

Traduzione di Gianni Darconza
Selezione di Mario Meléndez

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Rosario Castellanos (Messico, 1925 – Israele, 1974). Poetessa, narratrice, saggista, drammaturga e diplomatica. È stata una delle voci più rilevanti della poesia messicana del secolo XX. Per il suo lavoro ha ottenuto importanti riconoscimenti, come il Premio Xavier Villaurrutia (1961), il Sor Juana Inés de la Cruz (1962), il Premio Carlos Trouyet per la Letteratura (1967) e il Premio Elías Sourasky per la Letteratura (1972). Tra i suoi libri di poesie si segnalano Trayectoria del polvo (1948), De la vigilia estéril (1950), Al pie de la letra (1959), Lívida luz (1960), La tierra de en medio (1969), Materia memorable (1969), e Poesía eres tú (Opera poetica completa, 1972).

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PRESENCIA

 

Algún día lo sabré. Este cuerpo que ha sido
mi albergue, mi prisión, mi hospital, es mi tumba.

Esto que uní alrededor de un ansia,
de un dolor, de un recuerdo,
desertará buscando el agua, la hoja,
la espora original y aun lo inerte y la piedra.

Este nudo que fui (de cóleras,
traiciones, esperanzas,
vislumbres repentinos, abandonos,
hambres, gritos de miedo y desamparo
y alegría fulgiendo en las tinieblas
y palabras y amor y amor y amores)
lo cortarán los años.

Nadie verá la destrucción. Ninguno
recogerá la página inconclusa.
Entre el puñado de actos
dispersos, aventados al azar, no habrá uno
al que pongan aparte como a perla preciosa.
Y sin embargo, hermano, amante, hijo,
amigo, antepasado,
no hay soledad, no hay muerte
aunque yo olvide y aunque yo me acabe.

Hombre, donde tú estás, donde tú vives
permaneceremos todos.

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PRESENZA

Un giorno lo saprò. Questo corpo che è stato
il mio albergo, la mia prigione, il mio ospedale, è la mia tomba.

Questo che unii attorno a un’ansia
di un dolore, di un ricordo,
diserterà cercando l’acqua, la foglia,
la spora originale e persino ciò che è inerte e la pietra.

Questo nodo che fui (di collere,
tradimenti, speranze,
barlumi repentini, abbandoni,
appetiti, grida di paura e abbandono
e allegria che risplende nelle tenebre
e parole e amore e amore e amori)
lo recideranno gli anni.

Nessuno vedrà la distruzione. Nessuno
raccoglierà la pagina inconclusa.
Tra la manciata di atti
dispersi, disseminati a caso, non ce ne sarà uno
da mettere da parte come una perla preziosa.
E tuttavia, fratello, amante, figlio,
amico, antenato,
non c’è solitudine, non c’è morte
benché io dimentichi e benché io muoia.

Uomo, dove ci sei tu, dove tu vivi
resteremo tutti quanti.

PARÁBOLA DE LA INCONSTANTE

 

Antes cuando me hablaba de mí misma, decía:
Si yo soy lo que soy
y dejo que en mi cuerpo, que en mis años
suceda ese proceso
que la semilla le permite al árbol
y la piedra a la estatua, seré la plenitud.

Y acaso era verdad. Una verdad.

Pero, ay, amanecía dócil como la hiedra
a asirme a una pared como el enamorado
se ase del otro con sus juramentos.

Y luego yo esparcía a mi alrededor, erguida
en solidez de roble,
la rumorosa soledad, la sombra
hospitalaria y daba al caminante
-a su cuchillo agudo de memoria-
el testimonio fiel de mi corteza.

Mi actitud era a veces el reposo
y otras el arrebato,
la gracia o el furor, siempre los dos contrarios
prontos a aniquilarse
y a emerger de las ruinas del vencido.

Cada hora suplantaba a alguno; cada hora
me iba de algún mesón desmantelado
en el que no encontré ni una mala bujía
y en el que no me fue posible dejar nada.

Usurpaba los nombres, me coronaba de ellos
para arrojar después, lejos de mí, el despojo.

Heme aquí, ya al final, y todavía
no sé qué cara le daré a la muerte.

PARABOLA DELL’INCOSTANTE

Prima quando mi parlavo di me stessa, dicevo:
se io sono quello che sono
e lascio che nel mio corpo, che nei miei anni
si verifichi quel processo
che il seme concede all’albero
e la pietra alla statua, sarò la pienezza.

E forse era la verità. Una verità.

Ma, ahimè, mi destavo docile come l’edera
per attaccarmi a una parete come l’innamorato
si appiglia all’altro con i suoi giuramenti.

E poi io spargevo attorno a me, eretta
in solidità di rovere,
la rumorosa solitudine, l’ombra
ospitale e davo al viandante
− al suo coltello acuto di memoria –
la testimonianza fedele della mia corteccia.

Il mio atteggiamento era a volte il riposo
e altre il rapimento,
la grazia o il furore, sempre i due contrari
pronti ad annichilirsi
e ad emergere dalle rovine dello sconfitto.

Ogni ora soppiantavo qualcuno; ogni ora
me ne andavo da qualche locanda smantellata
nella quale non trovai neppure una pessima candela
e nella quale non mi fu possibile lasciare nulla.

Usurpavo i nomi, mi coronavo di loro
per scagliare poi, lontano da me, il bottino.

Eccomi qui, ormai alla fine, e ancora
non so che faccia darò alla morte.

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SER DE RÍO SIN PECES

 

Ser de río sin peces, esto he sido.
Y revestida voy de espuma y hielo.
Ahogado y roto llevo todo el cielo
y el árbol se me entrega malherido.

A dos orillas del dolor uncido
va mi caudal a un mar de desconsuelo.
La garza de su estero es alto vuelo
y adiós y breve sol desvanecido.

Para morir sin canto, ciego, avanza
mordido de vacío y de añoranza.
Ay, pero a veces hondo y sosegado
se detiene bajo una sombra pura.
Se detiene y recibe la hermosura
con un leve temblor maravillado.

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ESSERE DI FIUME SENZA PESCI

Essere di fiume senza pesci, questo fui.
E vado rivestita di schiuma e ghiaccio.
Affogato e rotto porto tutto il cielo
e l’albero mi si consegna ferito.

A due rive del dolore aggiogato
va il mio fiume a un mare sconosciuto.
L’airone dalla sua palude è alto volo
e addio e breve sole poi svanito.

Per morire senza canto, avanza cieco
morso da vuoto e nostalgia.
Ah, però a volte profondo e placato
si ferma sotto un’ombra pura.
Si ferma e riceve la bellezza
con un lieve fremito meravigliato.

Una replica a “Poesia latinoamericana #8: Rosarios Castellanos”