Camminare nella luce. Umberto Bellintani – Forse un viso tra mille (seguito dal carteggio con Primo Mazzolari). Passigli Poesia.
«La poesia non matura nel verso ma nel cuore» scriveva Primo Mazzolari in una lettera indirizzata a Umberto Bellintani. Era l’agosto 1953, anno in cui usciva Forse un viso tra mille (del poeta di San Benedetto Po). Da allora sono passati sessanta anni, ma la frase di Primo Mazzolari ha un valore che va al di là del tempo, e non solo per il suo destinatario.
È come se il prete di Bozzolo dicesse: «La poesia non è solo suono o inchiostro rappreso, anzi: è qualcosa che si porta dentro e che governa la vita di colui (colei) che la porta». Come se in sé contenesse pensiero e azione (e questo farebbe pensare, guardando alle biografie di Primo Mazzolari e di Umberto Bellintani, che più chiara espressione ne fosse il prete). Invece è proprio dal poeta appartato che scaturisce questa immagine, questa figura. Nel carteggio stampato insieme a Forse un viso tra mille, Umberto Bellintani si apre e parla della sua fede. Così scrive: «Se non riesco ad amare Dio, riesco bene ad amare Cristo perché à sofferto, ha amato, è stato crocefisso». Chiaro come il sole: il poeta dichiara di non avere una fede cieca e assoluta, caso mai crede nel figlio di Dio, perché «à sofferto, ha amato». È proprio nella sofferenza che conosce l’amore e nell’amore che conosce la sofferenza, che Primo Mazzolari e Umberto Bellintani coincidono, e attraverso cui va colto e letto l’impegno civile e morale della loro opera (religiosa e politica, nel caso del primo e, nel caso del secondo, discretamente poetica).
Eppure, leggendo Forse un viso tra mille, è quasi immediato, direi automatico rintracciare e trovare delle somiglianze con Diario d’Algeria del più noto e celebrato Vittorio Sereni. Perché, anche nel caso del poeta di San Benedetto Po, si può tranquillamente dire che in buona parte della sua poesia è entrata la storia. Eccone una prova: «Vedo un bimbo sfracellato dalla bomba,/ colle mosche negli occhi non più accesi,/ solo solo sul selciato. Non ha tomba,/ non la mano che lo posi in grembo ai fiori,/ non il pianto della madre: solo solo/ sul selciato, la manina senza fionda,/ distaccata, che lamenta un suo balocco».
Attraverso questi versi è leggibile anche la confessione fatta a Primo Mazzolari: «…non credo all’inferno e non credo a tant’altro che qui mi sfugge dalla mente. Questa vita terrena è infernale, diabolica…». L’uomo che qui ascoltiamo è quello che ricorda il soldato in guerra sul fronte Albanese e Greco, e poi prigioniero nei campi di lavoro di Gòrlitz, Dachau, Thorn e Petersdorf. Ma è proprio l’esperienza del «combattente» e del prigioniero, cioè di colui che ha conosciuto l’orrore e l’assenza di libertà che fornisce al poeta uno spiraglio di luce, di giorno nascente, di sofferta speranza, come in questa poesia: «Ma come non pensare/ che la vita non si chiude colla morte!/ Ma come poter credere/ alla morte del fanciullo nella fogna,/ agli occhi sbarrati, di vetro/ alla madre riversa tra le donne!// Ma è su questa strada, tagliata dai burroni e colle pietre/ dal sangue macchiate e dalle urla/ di gente crocefissa a schiere a schiere/ che l’ombra della notte si dirada». Ecco, sbalzandoci in una stagione di tenebra, il testo citato è altresì rivelatore di una duplice volontà, se così si può dire, quella di rendere testimonianza e insieme di una tensione a non lasciarsi sommergere dagli urti della storia.
Sotto l’aspetto stilistico, forse non è ozioso dire che Umberto Bellintani sembra sfuggire a qualsiasi ubbidienza educativa formale: ha letto Montale, ma non ha molto (o poco) di ermetico; è rintracciabile Ungaretti, anche se più nei temi, che per il linguaggio e la sintassi. E, se prima se ne rilevava una qualche somiglianza, l’autore di Forse un viso tra mille si differenzia anche da Vittorio Sereni. Anzi, senza tema di sbagliarsi, si può affermare che non ha né padri né maestri, e nemmeno fratelli. È poeta anomalo ed eccentrico, ma vero e genuino. Lo si coglie nella precisa e partecipata composizione di una specie di mitografia rurale (cosa compiuta analogamente da Andrea Zanzotto più o meno negli stessi anni): dopo la guerra e la prigionia c’è il ritorno e l’abbraccio con «antoni e lena», cioè con la gente che lotta per la sopravvivenza e per la quale è più difficile vivere onestamente (la stessa gente per cui si spende Primo Mazzolari come prete). Il ritorno è anche adesione totale a un luogo, a tutte le sue presenze (comprese quelle animali e vegetali), vale dire a Gorgo e al suo paesaggio. Chiari appaiono a questo riguardo i versi in cui Umberto Bellintani dice di sé: «Sono un topo di campagna, sono il grillo/ che nel cuore mi ricanta ogni sera/ se l’ascolto dal paterno focolare».
Tuttavia, non insisteremo sul versante geografico di appartenenza, dal momento che è l’esperienza filtrata attraverso la memoria e gli affetti ad essa associati (connessi) che caratterizza buona parte di Forse un viso tra mille. In particolare, ciò che a noi sembra una specie di personale «amarcord» mortuario, attraverso cui Umberto Bellintani torna e ripensa da poeta all’infanzia, come a qualcosa che «danna». Ne scaturiscono ritratti che tolgono il respiro e incantano per la bellezza delle immagini e la levità di una voce capace di modulare e fare proprio: «…un suono di clarini nella viva/ notte che s’appiena di canti e carole» (Saverio fanciullo assorto).
Leggendo alcune poesie, per altro, si ha come l’impressione che sia avvenuta una frattura profonda nel momento in cui il poeta è stato gettato nel flusso della storia, al punto che l’attaccamento e la fedeltà alla prima stagione della vita lo porta a scrivere: «I veri amici sono morti ad uno ad uno/ e chi da morte non mi chiama non ha il volto/ che amavo, il volto dell’infanzia». Eppure, come si accennava in precedenza, Umberto Bellintani trae linfa dall’essere stato sbalzato non solo in un altro mondo, ma in un altro clima. Da luoghi non cercati nascono così poesie distillate con sapienza e malinconia sognante, quasi dolce nell’allestire ritratti e paesaggi che sono come visti con gli occhi chiusi, essendo soprattutto frutto di una rielaborazione interiore: Ecco, allora, Sulla riva del Vojussa: «Vaga memoria che ritorni a un fiume veneto,/ tu mi rammenti quell’isola di pace/ dove un soldato approdando si disarma/ e sulla sabbia si distende, scrive un nome./ Ma sul tuo giorno calpesta questo giorno/ dal piede intriso del sangue della guerra, / ed altro è il fiume, conteso, della morte». Va detto che qua e là nei versi di questa stagione riecheggiano pulsazioni ritmiche, toni e arie di certi Lieder schubertiani e mahleriani, che riempiono il cuore di una mestizia infinita: «So del tuo volto arato dalle lacrime,/ e tu sapevi di me, del mio gioire/ in riva all’acque più verdi delle erbe,/ allor che al sommo spaccato della canna/ la prigioniera salamandra si torceva.// Ora nessuno saprà di quali dune/ la sabbia rode la carne che m’hai dato./ Ma questa quiete mi riposa come in seno/ posavo allora la mia guancia e tu cantavi/ al tuo bambino» (Stelle nel deserto).
Tornando al carteggio, è interessante notare che Umberto Bellintani dichiara che in lui Cristo è caduto e il prete lo esorta a leggere la Prima Lettera di Giovanni. È quello che abbiamo fatto anche noi, così da scoprire che «se camminiamo nella luce, siamo in comunione con gli uni e con gli altri». Non sappiamo se il poeta ha ritrovato Cristo dopo la lettura della Prima Lettera di Giovanni, ma è certo che la sua poesia è quella di uno che con il cuore «vuole misericordia, infinita misericordia».
© Renzo Favaron