
1) Paolo, comincerei chiedendoti del tuo libro uscito da pochissimi giorni, Leggere Seamus Heaney (Fazi, 2015), in cui ripercorri la vita e le opere del grande poeta – premio Nobel nel 1995 – recentemente scomparso. Sarei curiosa della genesi di questo libro, del metodo che puoi esserti dato sin dall’inizio per trattare un materiale così vasto ed estrapolare chiavi di lettura considerata anche quella che può essere, a volte, un’arma a doppio taglio: l’amicizia con l’autore.
Ho conosciuto personalmente Seamus Heaney nel luglio del 2009, nella città toscana di Cetona, sede di un premio prestigioso, la cui giuria aveva scelto lui come personalità internazionale e me fra i cinque finalisti italiani. Prima di allora, Heaney era per me solo uno degli ottimi poeti del panorama mondiale: avevo letto delle sue poesie, non moltissime, grazie alle traduzioni di Franco Buffoni. Ma aver conosciuto lui e sua moglie Marie mi ha introdotto davvero alla sua figura umana e artistica. Una volta pubblicato il mio saggio più impegnativo, L’idiota. Una storia letteraria, nel 2011, mi venne in mente di tentare una lettura complessiva della sua opera, che intanto prendevo a conoscere sempre meglio. Capii presto che avrei scelto come chiave di apertura l’essere Heaney un poeta dell’attraversamento, della cucitura, della difficile conciliazione fra gli opposti: una pietra di guado, o stepping stone, come ha riconosciuto lui stesso. Da questa idea centrale si dipartirono poi altre scoperte, come il rapporto fra Heaney e l’antica poesia anglosassone e irlandese, o con Virgilio o con il nostro Pascoli. Più volte parlammo di questa mia impresa. Purtroppo, la mattina del 30 agosto 2013, quando grazie ad amici irlandesi seppi della sua scomparsa, mi resi conto che avrei dovuto terminare il mio saggio senza il conforto del suo genio affettuoso. Le mie parole persero l’eco che la sua lettura avrebbe rimandato.
C’è poi dell’altro: riflettendo su questo mio libro, mi sono accorto che l’ho scritto anche per mettere a disposizione di autori e lettori italiani un contravveleno, una controproposta. L’Italia è afflitta da una – idealistica, hegeliana – dichiarazione di morte nei confronti della poesia, con tanto di sanzione accademica. Questo ha portato al discredito di tutti gli autori, anche di quelli onesti e valorosi, con tanti medio-poeti o verseggiatori che ne hanno approfittato per rifugiarsi nel piccolo narcisismo di un poetare quotidiano, crepuscolare, cronachistico, dimesso; o viceversa, per tendere muscoli che non hanno, alzando i toni. Proporre criticamente la poesia di Heaney, e la sua splendida saggistica, significa per me mostrare di quale entità sono i problemi che la poesia può superare e metabolizzare, e quale sia la sua “normale” grandezza, l’ampiezza delle sue soluzioni formali, la profondità del suo “pescaggio” nelle tradizioni. Credo insomma che il mio sia anche un libro militante, da mettere a disposizione della nostra cultura.
2) Molto di Seamus Heaney, oltre che del paesaggio irlandese che tu frequenti spesso (circa sessantacinque giorni l’anno, deduco per sottrazione dalla quarta di copertina di Fuori per l’inverno), compare nel tuo ultimo libro di versi, appunto Fuori per l’inverno, edito da Nottetempo nel 2014.
Devo la scoperta dell’Irlanda a mia moglie Daniela. Da diversi anni vi andiamo appena è possibile, durante le vacanze disseminate nell’anno. La frase che ho messo nella nota biografica del mio recente libro poetico – «Paolo Febbraro vive a Dublino, ma per ragioni affettive e di lavoro trascorre circa trecento giorni l’anno a Roma» – sembra uno scherzo, ma lo è solo in piccola parte. Il paesaggio irlandese, anche quello urbano, si è davvero sposato alla mia mente come pochi altri e in questi ultimi anni ha dominato la mia fantasia. In realtà, sento di essere un poeta della natura – non a caso, l’acme della poesia occidentale è stato toccato, per me, da Lucrezio – e così la mutevolezza del clima irlandese, la presenza dell’oceano, le ampie solitudini collinari si fanno lungamente inseguire dai ricordi e riemergono, durante l’anno lavorativo, dalla memoria involontaria. Come dicevo, la natura per me è più lucreziana che virgiliana, più violenta e metamorfica che educata e umanizzata dal lavoro (è ciò che mi divide, in fondo, da Heaney). Così, credo che i fenomeni naturali mi colpiscano maggiormente quando sono imperativi e insidiosi, impervi e alieni dall’uomo. È in quel caso che snidano le mie preoccupazioni, immaginano i miei sentimenti. Tuttavia, in Irlanda trovo anche una pace che in Italia non trovo più: un’accoglienza, una mancanza di volgarità, una temporalità e una sana distanza fra gli umani che mi seducono e mi addolciscono.
3) C’è un gruppo di poesie, specie nella prima sezione della raccolta, che è drammaturgica; penso a personaggi come l’eretico, Iscariota, Cavalcanti, Cassandra e altri, che prendono la parola verso interlocutori precisi o fumosi per un discorso o per un’invettiva. Testi dritti come frecce, perché è come se tu ti fossi lasciato scavalcare; ma da cosa? Dal personaggio con ciò che aveva da dire, o da ciò che solo quel personaggio poteva dire con esattezza?
Fin dal primo libro, Il secondo fine del 1999, mi capita spesso di scrivere poesie fra virgolette, in cui a parlare non è l’Io poetico ma un personaggio del mito biblico o greco, o della Storia, o ancora una proiezione di me che non so bene definire. Posso dire, ormai, che si tratta di un mio modo caratteristico. Da ragazzo, ascoltai ammirato l’album che Fabrizio De André scrisse su ispirazione dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che poi naturalmente lessi. Credo che da allora siano rimasti in me il desiderio e la possibilità di cedere la parola lirica a un personaggio che dal passato o dalle pagine di un libro rivela il bisogno di parlare ancora, riscrivendo la propria parte. In tutto questo riconosco naturalmente l’influenza dei personaggi danteschi, giganti poetici che dall’oltretomba fissano di sé e del proprio tempo un’immagine finalmente compiuta e decisiva. Pensandoci, mi viene in mente che in tutte queste poesie fra virgolette c’è una vocazione epica, drammaturgica e narrativa – da cui il titolo della prima sezione di Fuori per l’inverno, appunto “Romanzi storici”. E penso anche che tuttavia ciò non implica una rinuncia alla lirica, ma la necessità di un suo ampliamento. Naturalmente, questi personaggi prendono la parola tracciando in sé temi e problemi miei, ma lo fanno “in figura”, trasponendoli negli universali. Da una parte sono loro che utilizzano me per riapparire e declinare nuovamente la loro esemplarità, dall’altra sono io che approfitto di loro per rappresentarmi “oggettivamente”. Per utilizzare la tua immagine, ci scavalchiamo a vicenda.
4) Un altro gruppo, più ballerino tra le sezioni, riguarda quello che mi sembra essere un vero e proprio bestiario all’interno dell’immaginario di questo libro; la libellula, le bestie d’acqua e pelo d’acqua del paesaggio irlandese, il luccio. Hai una maniera molto varia, mi è parso, di trattare il mondo animale: ora il passo verso l’umanizzazione, o verso il simbolo, non si compie (o non del tutto), e l’animale resta tale; ora, come nel caso della lepre che chiude il libro, è un vero e proprio varco del pensiero.
Sì, dicevo prima del mio rapporto complesso con la natura. Che naturalmente è anche quella umana. La presenza degli animali credo si sia infittita, in questo nuovo libro. Non so per quale motivo, ma me ne sono accorto componendo i singoli testi in un libro. Simili a noi e da noi diversissimi, gli animali ci sembrano abbastanza vicini per poterli pensare e abbastanza intransitivi per doverci fermare interdetti di fronte a loro. Un’altra mia recente opera saggistica, il volumetto critico Primo Levi e i totem della poesia, aveva accentuato nelle poesie di Levi proprio la presenza delle figure animali come rappresentanti delle forze arcaiche che ci muovono. Quanto alla lepre, protagonista come dicevi del poemetto in romanesco che ho posto al termine del libro, è un mistero anche per me. La scena del poemetto la vidi in sogno e ne ignoro il significato, potrei solo ipotizzarlo dall’esterno, come qualunque altro lettore.
5) Ad essere drammaturgico e inserirsi insieme nel bestiario, il soliloquio di un animale: La parte del toro. Lì sono le parole del toro, che conosce forse Rimbaud ma non è che se stesso, a portare forse noi umani verso l’animale, verso la sua vicenda violenta che forse non ci accorgiamo somigliare alla nostra, verso il suo titanismo intrappolato in partenza.
La parte del toro è fra le poesie che mi ha fatto venire in mente il titolo dell’intero libro. Accerchiato e deriso, atteso da una morte puramente spettacolare ma non meno violenta, il toro decide di prestarsi e di andare all’attacco lo stesso. Fuori per l’inverno, insomma. È inutile, se gli altri ti fanno il vuoto alle spalle, cercare di rannicchiarsi in un tepore che non c’è più. In fondo, è quando un dito perde sangue che la mente si accorge di essere anch’essa un corpo.
*
La parte del toro
a Salvatore G. Fichera
«Sono scuro. Nulla sugli spalti ripete –
anche soltanto un velo – il mio colore.
Campi di foraggio sterminati,
ruminazioni al tramonto, la stagione
della femmina: e poi lo stordimento,
la cattura, l’arena
e questi ballerini velenosi.
Irritazione e trance: non sento più
lo zoccolo che mi pianta,
la terra che risaliva
nelle mie fibre dalle spighe rase,
la verde confusione orizzontale.
Potrei non muovermi.
Statua dei miei quintali,
basso il mirino delle corna
e fischio caldo delle nari.
L’aratro. La mangiatoia.
Ma balzano, i bipedi ammaestrati,
fanno sardonici inchini di mani.
Perdo sangue, m’hanno detto chi sono;
se muoio, è dentro un’allucinazione.
E allora andiamo».
*
© Giovanna Amato
Paolo Febbraro (Roma, 1965) è poeta e saggista. Ha esordito nel 1993 con la silloge Disse la voce, compresa nel Quarto quaderno italiano a cura di Franco Buffoni. Ha pubblicato i volumi Il secondo fine (Marcos y Marcos, 1999), Il Diario di Kaspar Hauser (L’Obliquo, 2003), Il bene materiale. Poesie 1992-2007, (Scheiwiller, 2008) e la plaquette Deposizione (Lietocolle, 2010). I suoi lavori critici più recenti sono Saba, Umberto (Gaffi 2008), L’idiota. Una storia letteraria (Le Lettere 2011), Primo Levi e i totem della poesia (Zona Franca 2013), e Leggere Seamus Heaney (Fazi, 2015). Collabora con le pagine culturali de “Il Sole 24 Ore”.
Una replica a “Intervista a Paolo Febbraro”
“la v e r d e confusione orizzontale”: sentire colorem, direbbe Lucrezio, ma il toro non percepisce i colori, se non come bestia alquanto umanizzata, cioè come Minotauro dantesco.
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