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Intervista: Fabio Pusterla

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La poesia di Fabio Pusterla in un nuovo importante atteso libro, in uscita a settembre per Marcos y Marcos. Ecco l’intervista realizzata da Cristiano Poletti:

 

1. Cominciamo dal titolo, Argéman: “lingue di neve perenni sotto bocchette inaccessibili” ne sarebbe una definizione. Perché la scelta di questo termine? Da dove proviene, e che significato ha nella rappresentazione dell’opera nella sua interezza?

È sempre curioso e sorprendente il modo in cui le parole ci raggiungono. Questa, “argéman”, mi è stata regalata da un saggio giardiniere di una valle ticinese, Emilio Tognola, padre di una mia carissima amica e collega, che ogni tanto mi manda dei piccoli regali: una pianta, dei fiori, qualche ortaggio, a volte delle parole, perché sa che mi piacciono. “Argéman” deve essergli sembrata una parola abbastanza strana e misteriosa per attirare la mia attenzione, e così è stato; non la conoscevo, e del resto non la conosce quasi nessuno; ho fatto qualche ricerca, me la sono covata per un po’ e qualche tempo dopo è nata una poesia con lo stesso titolo. Più avanti, mentre i testi che avrebbero poi composto questo nuovo libro cominciavano a lievitare, mi sono accorto che proprio in questa parola, e nei suoi significati contrastanti, stava forse il senso di ciò che provavo a fare. L’argéman indica, è vero, una lingua di neve, con tutto ciò che questa immagine porta con sé (luce, candore, parola, speranza di un oltre, per esempio); ma indica anche il movimento che l’ha condotta a valle, frana o slavina, distruzione, catastrofe. E in questa ambivalenza credo di ritrovare il mio stato d’animo di questi anni.

 

2. Se è plausibile richiamarci al percorso poetico passato, quali altre “terre emergono” in questo nuovo libro?

Non so se posso rispondere; io naturalmente spero che emergano nuove terre, o nuovi lembi di terra; cioè nuovi frammenti di verità. Ma quali potrebbero essere? Saranno semmai gli altri a dirlo. Il mio sguardo, credo, non ha cambiato direzione, e continua a frugare nei luoghi che da sempre l’hanno attratto: margini, zone di contatto e di disagio, attriti. Forse, rispetto al passato, sento in me un accresciuto senso di smarrimento, e un accresciuto desiderio o speranza. Sembra un paradosso, e certo lo è. Viviamo in un’epoca paradossale.

 

3. Gli anni, l’esperienza. Ammettendo sia un libro una scadenza di sé, che Fabio Pusterla troviamo (o ritroviamo) in queste pagine? E soprattutto, oggi, rispetto al passato, cosa chiede di essere (o di continuare a essere) la sua poesia?

Ho forse già risposto poco fa. Gli anni ci sono, l’esperienza speriamo. Insomma, dietro le spalle comincia a esserci un percorso lungo, e se mi fermo a guardarlo ne ho quasi un senso di vertigine e di incredulità. Ma nello stesso tempo, lo stupore provocato dalle parole, dall’incontro tra le parole e tra le parole e la realtà, continua a contenere anche un germe di ingenuità, di freschezza, proprio come sono sempre ancora sorpreso dagli imprevisti che la vita ci riserva, nel bene e purtroppo anche nel male. Di nuovo un paradosso: come possono convivere il peso degli anni con la freschezza, l’esperienza con l’ingenuità? Eppure è così, o così a me pare. E questa è forse una caratteristica di questa fase. Un animale mi ha colpito, al punto da diventare poi uno dei centri di questo libro: la libellula. Il suo volo franto, ora leggero e veloce ora immobile e in surplace, mi ha fatto pensare a certi meccanismi del pensiero e della percezione, meno lineari di quanto a volte pensiamo. Ecco: provare a imitare il volo di una libellula. Questo mi piacerebbe saper fare.

 

4. C’è un ritmo particolare in cui si svela la voce di Argéman? C’è forse un canto che si può mettere in luce? E in via d’auspicio, che tipo di attenzione e di ascolto intenderebbe suscitare nel lettore?

Di nuovo, mi accorgo che ho già un po’ risposto chiamando in causa la libellula. La parola “canto” oggi è una parola difficile, impegnativa. Si può ancora “cantare” in poesia? Si può ancora “volare”? Non ne sono certo; ma se canto (o volo) può darsi, sarà un canto difficoltoso, che nasce da rovine e da macerie, e si dirige verso non si sa dove. Un canto che custodisca dentro di sé le scorie, le discordanze, tutto ciò che lo limita e che dovrebbe renderlo impossibile o improbabile, e che invece, misteriosamente, gli dà origine. Per questo in “Argéman” (ma lo stesso capitava anche nei libri precedenti, temo), ci sono anche testi duri, faticosi, dissonanti. Non so rispondere, invece, alla seconda parte della domanda, che riguarda il lettore: non intendo coscientemente suscitare nulla. Se c’è un lettore, saprà lui cosa fare e come.

 

5. Richiamarsi alla terra, nel cuore misterioso dei fatti; rimettersi alla via, stretta, che indica l’etica. È possibile individuare un nodo etico in questo libro? Se sì, quali ne sono i contorni?

Il nodo etico mi pare inevitabile: usiamo delle parole (ci arroghiamo il diritto di farlo) e tentiamo di verificare se queste parole hanno un fondamento e un futuro, cioè se provengono da una concreta esperienza esistenziale e cognitiva e se possono toccare la mente di qualcuno. Il rapporto tra le parole e la coscienza di sé mi pare uno dei fondamenti del pensiero etico; e dunque dal mio punto di vista la poesia non può che essere radicalmente etica; una poesia non etica sarebbe un puro spettacolo pirotecnico, e conosco poche cose più noiose dei fuochi d’artificio. Poi, attorno a questo concetto di base, si addensano temi, motivi, figure; e può darsi che in questo libro alcuni elementi siano più visibilmente “civili”, come si usa dire con termine che non amo alla follia: sotto sotto, c’è l’attraversamento di un periodo storico, politico e culturale, oltre che privato. Un periodo, a mio giudizio, non fulgido, purtroppo; ma nel quale possiamo scegliere se continuare a vivere intensamente oppure arrenderci.

 

6. Con riferimento sia alla tradizione sia alla memoria (o alla riparazione della memoria): cosa resta da fare, oggi, a un poeta?

Troppe volte mi è capitato di rispondere citando appunto Saba. Continuo a pensare che le sue parole rimangano validissime, e non richiedano parafrasi o metamorfosi. Quanto alla memoria, non c’è dubbio che essa sia oggi (un oggi che dura ormai da qualche decennio) seriamente in pericolo; eppure, e forse anche questo è un filo che attraversa Argéman, me ne accorgo solo ora ripensandoci, molte delle cose che “oggi” ci appaiono a volte così nuove e quasi incomprensibili (la riemersione di una barbarie, per esempio, di una violenza linguistica e fisica visibile un po’ ovunque, le meschinità della politica ufficiale, e così via) hanno visibili radici nel passato recente e anche meno recente. Ma anche nei processi memoriali svola irregolare una libellula: non ricordiamo tutto, ma sprazzi, frammenti, e proprio per questo a volte i ricordi ci appaiono così abbaglianti e sorprendenti

 

7. In che rapporto sta la poesia di Fabio Pusterla con le altre arti?

Mi capita spesso di collaborare con artisti, soprattutto pittori e incisori, e in questo libro si trovano numerosi esempi. Il maggiore riguarda un amico pittore, Luca Mengoni, a cui si deve l’incisione di copertina; ma poi ce ne sarebbero parecchi altri. Il dialogo con le altri arti è per me piuttosto importante, e proprio su questo argomento qualche anno fa ho pubblicato con Elisabetta Motta il volumetto “Colori in fuga”; ma in cosa consiste, al di là delle occasioni concrete, delle conoscenze o delle amicizie? Non è facilissimo rispondere; tuttavia penso che il cuore della questione sia nel concetto di “immagine”: l’immagine può manifestarsi, è ovvio, nella pittura, nella fotografia o nel cinema; e tuttavia credo sia essenziale anche in poesia, e forse persino nella musica. La sua forza, la sua intensità, stanno nel suo essere svincolata da un continuum (di cui pure si intuisce vagamente l’esistenza), nel suo apparire improvvisa e lancinante. L’immagine, il fotogramma, la breve sequenza: cose che si intrudono nella nostra orizzontale quotidianità, accendendola.

 

8. Quali consigli si sentirebbe di dare a un “giovane” poeta, o a un “giovane” scrittore?

Non mi piace dare consigli, come non mi è mai piaciuto riceverne. Tanti anni fa, quando tutto mi pareva confuso e difficile, una grande maestra, Maria Corti, mi diceva di avere pazienza e fiducia, perché “la moneta buona scaccia quella cattiva”, ma ci vuole tempo. Devo avere ascoltato in silenzio quelle parole, con un senso forse di vago fastidio e di diffidenza: come credere ancora a una simile banalità, mi dicevo, subito vergognandomi di averlo pensato? Oggi tutto continua a sembrarmi confuso e difficile, anche più di allora; e tuttavia non posso negare che Maria avesse in fondo ragione. Nei limiti che sappiamo, e che riguardano la situazione generale della poesia e della (buona) letteratura in un mondo di merci e clienti, cioè nei limiti di un esilio che ci riguarda tutti: chi vuole scrivere davvero, dovrà mettere in conto un lungo periodo di difficoltà e di buio. Non è neanche detto che questo periodo possa aver fine prima della nostra, di fine. Ma la poesia può essere una piccola luce che ci guida. Se non è così, forse è inutile continuare.

 

6 risposte a “Intervista: Fabio Pusterla”

  1. Bella, profonda intervista: uno spaccato della poetica e dei suoi presupposti, delle linee/rotte e della percezione “larga”, antropologica di un libro. E di un autore che è sicuramente una delle voci più alte, sensibili e lucide della poesia contemporanea. Un “uomo-farfalla”, un uomo che muove e sposta l’aria e le anime, lo chiamerebbe Bauman.

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  2. Vero. Bella intervista, che denota lo spessore dell’uomo, oltre che del poeta (e nel caso di Pusterla, come accade per i grandi, le due cose sono inscindibili).

    Francesco t.

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  3. Ciao, che voi sappiate c’è qualche anticipazione in rete delle nuove poesie di Pusterla? Grazie, saluti. Giuseppe

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