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Anna Maria Carpi – Quando avrò tempo (recensione)

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Anna Maria Carpi – Quando avrò tempo – Transeuropa  2013

 

“QUANDO AVRÒ TEMPO dico / e so che non l’avrò: / mai l’afferro o lo fermo, / non mi sta in mano il tempo, / palpita stride becca vola via.” I cinque versi che aprono la nuova raccolta di poesie di Anna Maria Carpi, testi scritti tra il 2010 e il 2012, dichiarano da subito chi sarà il compagno e l’antagonista di questo viaggio poetico: il tempo. Le ore, le giornate, segnate nella loro indispensabilità e nella loro pochezza. Timer di gioia e malinconia. Ore strizzate e sgocciolate a tirar fuori tutto quel che resta. Ciò che occorre a far vita di quello che della vita è stato e di quello che ne rimane. Questo libro è il proseguimento temporale, poetico e logico de “L’asso nella neve” (Transeuropa 2010), in particolare delle poesie della prima parte di quella raccolta (le inedite di allora). La poetica di Anna Maria Carpi si potrebbe definire con: L’urgenza della domanda e della comprensione. Domande che i versi scandiscono (anche con i molti punti interrogativi materialmente presenti) tra l’Io della poeta e il mondo che osserva con sguardo tenace, curioso, bisognoso di scambio. Il mondo sono i fatti ma sono – soprattutto – gli altri. “I cari altri” invocati dalla Carpi fin da “Compagni Corpi” (Scheiwiller 2004) e ben presenti qui: “[…]ma le case scintillano, / tutte abitate, / sento gente che va fra ciarle e risa, / i cari altri. // A due passi da me e non mi vedono, / non sanno che ci sono, / che sogno e in sogno parlo con loro, / e che non c’è la morte / se non ci viene tolto di parlarci.” (pag. 57). Citiamo questi versi per la loro oggettiva bellezza e perché ben collegano i temi del tempo e degli altri con l’altra grande domanda di questo libro: La morte. Domanda destinata (come tutte quelle che la Poesia pone) a rimanere senza risposta, ma grazie al talento della Carpi ad aprire a molte riflessioni e ad altre domande, circondandoci di stupore. C’è una consapevolezza della morte, una curiosità, a tratti, un’ansia della morte. L’attesa guardando al tempo che si consuma e l’allontanamento attraverso la rielaborazione di tutto quello che è stato e che non è stato, di quello che ancora potrà accadere. Anna Maria Carpi è un’adulta che ancora conserva una curiosa ingenuità. Quell’ingenuità che in poesia vale quanto (se non di più) della saggezza. Ed è onesta. Vediamo la morte come entra nei versi: “è questo debole / scintillìo di essere me, me sola, / e non voler la fine.” (pag. 36). “Questo mediocre morire ad ogni istante / è la sorda tortura / di ciò che avremmo / dovuto essere per non dover morire.” (pag. 37).  “Così a me tramonta / ogni vita: distinguo ancora forme / e colori, ma già sotto di me / il mondo è nebbia.” (pag. 38). “Non c’è gioco per noi, noi giù nel tempo / per le vie del quartiere. / Foglie, una cosa sola, solo qualche fruscio, / un giacere comune, ultimi battiti, / poi una terra quiete.” (pag. 39). L’elemento di novità di questi testi rispetto a quelli de “L’asso nella neve” è che le domande sulla, e della, morte non rimandano più, se non marginalmente, a quella sull’esistenza di Dio, quasi come se la poeta avesse esaurito quella spinta di curiosa attesa verso il dopo. Come se fosse più importante il prima, il momento stesso del trapasso, rispetto al fatto che dopo ci sia o meno un continuo, un altrove. Quello che verrà sarà quiete ma che non venga troppo presto, che si possa restare ancora in questo trambusto di volti, di cose, di treni, di case, di incontri. La comprensione nella poetica della Carpi non è tanto riferita al “farsi comprendere” (pure molto radicato) ma al “comprendere”. L’autrice ha una brama di capire, di comprendere, fortissima e su quel desiderio costruisce la sua scrittura. Comprendere è anche contenere: la sintesi fulminante della poesia della Carpi racchiude una vita, un disagio in pochi perfetti versi. Questo è un dono. “Quando avrò tempo” è un libro molto bello, arguto e consapevole. Un testo che mentre attraversa i grandi temi citati in precedenza non dimentica di usare l’ironia, di concedere grazia, di aprire gli occhi sulla speranza. Si può ondeggiare tra malinconia presente e qualche rimpianto senza vivere di ricordi, senza paura di mettersi a nudo. Di essere poeta. “In verità sono una clandestina, / sono una sans papiers / e mi fa tremare / quanto di me dichiaro.”

© Gianni Montieri

Nota: recensione scritta per il Premio Castello di Villalta

per leggere alcuni testi del libro potete andare Qui

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