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I colli: Luzi e Zanzotto


Hanno dimostrato lunga fedeltà alla vita, Luzi e Zanzotto, mirando all’essenza, a «quel giro stretto di vita e volontà»[1] che è amore che tutto lega. Un’unica grande lezione, questa, calcatasi in loro una volta per sempre, e imparata nuovamente dopo ogni dimenticanza, sempre attraverso il fuoco acceso della poesia.
Sono dieci anni che Luzi è scomparso, quattro Zanzotto.
Si può forse finalmente dire, oggi, che Mengaldo sbagliava nell’avvertire nella poesia di Luzi l’esercizio di un «orgoglio travestito da umiltà»; e sbagliava ancor di più il critico milanese nel trovare in questo esercizio una sua presunta «quasi schifiltosità spirituale», degna di tradursi il più delle volte in un elegante ma in fondo deludente «preziosismo formale estenuato ed araldico.»[2]
No: all’umiltà invece, o meglio ancora a una collezione di sguardi umili, infatti, si è rivolto e continua a rivolgersi – possiamo dirlo, oggi – Luzi: «A me premono più gli uomini umili, gli emarginati, ma non tanto per una preferenza di tipo classista, ma perché io vedo in questi, più nudamente scritto, il loro destino, la loro inquietudine. Sono un po’ immagini archetipe in cui mi pare che si legga meglio il problema, il volto dell’umano, il mistero: in definitiva, il destino.»[3]
Lo stesso vale, seppure evidentemente in modo diverso, in Zanzotto: la sua poesia, consentendo che altre lingue rispetto a quella del soggetto ne venissero a comporre la voce, si è aperta e si apre ancora oggi a una simile umiltà di sguardi e di partecipazione.[4]
Più vicini di quanto per anni si è probabilmente creduto, quindi, il poeta fiorentino e il poeta trevigiano.
Certo, mentre una civiltà immota e antica ispira Luzi, una invece “maledettamente” trasformantesi è la crepa, o la faglia, aperta di continuo nella mente di Zanzotto.
Se per entrambi la scena terrestre è plasmata dall’avvertimento, anzi dall’incarnazione del dolore, per entrambi la poesia nasce − detto qui con parole di Zanzotto − «dall’entusiasmo e dalla sovrabbondanza del sentire… da una meraviglia adorante per qualche cosa che, nella sua bellezza o sublimità, chiama insistentemente alla sua esaltazione.»[5]
In Luzi la parola “vola alta”, “cresce in profondità”; in Zanzotto “s’incaverna” invece, come fa il cuore dell’amato Ungaretti, germogliando però da questa speciale profondità, per crescere e puntare poi anch’essa verso l’alto.
Ciascuno con i propri elementi: il fuoco, per Luzi; l’acqua in Zanzotto. Con le loro strade: quella di Luzi, diretta verso la pietas di una coralità di voci; quella di Zanzotto, dentro i nostri “conglomerati storici”, dal nome di Maria Fresu fino a inciampare «nel 3° millennio e nell’equinozio di primavera oltre ogni decibel kitsch estasi del kitsch.»
In Luzi il linguaggio non vuole farsi nuovo, ma divenire, plasmarsi: come in un itinerario volendo seguire, fino a somigliarle, le linee morbide e aspre dei colli della sua Val d’Orcia. Vi si appoggia, il poeta, li percorre questi colli. Ed è così inquieta la mutevolezza di Luzi: «La terra senza dolcezza d’alberi, la terra arida / che rompe sotto Siena il suo mareggiare morto / e incresta in lontananza […] sperdute torri, sperdute rocche […] non opera come ricordo, ma come ansia.»[6] Una parola, o meglio un’invocazione che rinvia alla Parola, che incarna un ineludibile «durissimo silenzio / tra noi uomini e il cielo.»[7] Un itinerario infinito, che porta stilisticamente in sé l’eco di una grande stagione del ventesimo secolo: il magistero dell’endecasillabo, la composizione e della misura in generale, dell’accentazione e del ritmo.[8]
Una sismografia, invece, il linguaggio di Zanzotto. L’io coi suoi nervi (io, «pronome che da sempre a farsi nome attende») diventa paesaggio, si forma e si sforma continuamente, continuamente specchiato in una natura-specchio, sempre presente e al contempo assente, dentro-dietro il paesaggio («Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio / qui volgere le spalle»). Fino a che il linguaggio stesso addirittura regredisce, sull’orlo dell’afasia, ridotto alla fragilità di un bilico, nel fastidio di parlare per arrivare oltre ogni possibile idioma.
Nervosismo che gli stessi colli della Sinistra Piave mostrano, increspati come sono e mossi sempre da “una bava di vento”. È Dolle, la sua aria, luogo e invenzione di luogo, prima ancora della mente che della realtà (proprio come una «luce di non tramonto, che pur si vuole / là oltre la più intensa idea di tramonto»). Vediamo una sacralità del paesaggio natio:[9] «questa artificiosa terra-carne», colli tesi a esistere anch’essi forse, come il poeta stesso, solo psichicamente, quasi fossero essi stessi perimetro della psiche.[10]
Ed ecco allora il punto: entrambi i poeti vogliono essere forma, la forma che i colli propri del proprio paesaggio sembrano loro dettare; e vogliono dare forma, che la poesia chiede di fornire alla visione per esistere, proprio perché la poesia è la messa in forma della visione.
D’altronde il melos, come ricorda in un prezioso intervento un poeta di oggi, Vincenzo Frungillo, «non è il bel canto, il melos è lo scontro, l’impatto, tra il senso individuale che si dà alle cose e il significato comune delle cose; il melos è lo spostamento. Ogni verso è l’impatto, è la messa in questione». E lo dice, appunto, a partire dalla consapevolezza dello “spazio” (che sarà allora corpo, carne e paesaggio): «Lo spazio poetico […] deve agire nella storia, e con la storia.»[11]
Da Luzi e da Zanzotto, due voci grandissime e inesauribili del secolo scorso, vediamo: la strada per la poesia è aperta.

Cristiano Poletti

[1] M. Luzi, Il gorgo di salute e malattia in Su fondamenti invisibili, Rizzoli, Milano, 1971.
[2] P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano, 1978.
[3] C. Toscani (a cura di), Quesiti a Mario Luzi, “Il ragguaglio librario”, XLI, 1974.
[4] U. Motta, Ritrovamenti di senso nella poesia di Zanzotto, Vita e Pensiero, Milano, 1996
[5] A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio (Conversazione con Marzio Breda), Garzanti, Milano, 2009.
[6] Si aggiungano queste parole di Luzi: «In realtà Pienza è il più bel paradigma per capire quante cose accadono là dove si dice che non accade nulla (…) una continua lezione di naturalezza e di verità», da Questa terra… quella luce, a cura di F. Pellegrini, A. Barbieri, I. Petri, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 1994.
[7] M. Cacciari, Insostenibile incarnazione, “Nuova corrente”, XLVI, 1999.
[8] M. Pagliara, L’endecasillabo di Mario Luzi (1935-1965), ITINERA 2005 (www.filosofia.unimi.it/itinera).
[9] M. E. Romano, La Dolle di Zanzotto, Riviste Edizioni ETS, Pisa, 2001.
[10] Nel ritratto filmico del 2009 a lui dedicato, ad opera di Mazzacurati e Paolini, il poeta di Pieve di Soligo dichiara di essere sempre profondamente sollecitato dal meteo. Una certa incidenza della luce anziché un’altra, un carico di vento improvviso che viene da lontano, la presenza o meno di neve, sono per lui essenziali: «…quasi quasi direi che il paesaggio è diventato un handicap. Riesco con difficoltà a scuotermelo di dosso, ecco. Ma c’è anche un fenomeno molto importante: che non arrivavo a scrivere versi se non dentro un preciso perimetro geografico. Fuori di quello non mi veniva un verso, non potevo scrivere nulla».
[11] V. Frungillo, Riflessioni su una poetica dello spazio in Poetiche per il XXI secolo, “L’Ulisse”, 18, 2015.

Una replica a “I colli: Luzi e Zanzotto”

  1. L’ha ribloggato su Antoscarperossee ha commentato:
    Ed ecco allora il punto: entrambi i poeti vogliono essere forma, la forma che i colli propri del proprio paesaggio sembrano loro dettare; e vogliono dare forma, che la poesia chiede di fornire alla visione per esistere, proprio perché la poesia è la messa in forma della visione.

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