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Roberto R. Corsi, Cinquantaseicozze

cinquantaseicozze

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Roberto R. Corsi, Cinquantaseicozze, italic, Ancona 2015

Narrano un’esistenza in versi lunghi, constatazioni asciutte e proiezioni spietate − soprattutto del sé − le Cinquantaseicozze di Roberto R. Corsi. Nell’andirivieni, in alta e bassa stagione, così come fuori stagione, tra città e litorale − siamo sulla Firenze-Mare − schiudono le loro valve e, se non mostrano perle (altrimenti non sarebbero cozze),  alzano il sipario, quinte, fondali e  liquido d’immersione compreso («salamoia amniotica»). su una commedia umana con grassi, vezzi e vizi in eccesso, illusioni maleodoranti già prima di sfiorire, riti sociali forzati e small talk tanto ridicoli quanto pervasivi. L’io lirico stesso non esce indenne da prove generali, prime assolute e repliche; il suo distinguersi, tuttavia, sta nella mobilità del punto di vista e nel variare di toni e azioni: il bisbiglio dalla buca del suggeritore, l’affaccendarsi nei camerini e dietro le quinte del servo di scena, l’esperto lavoro di forbici e filo del costumista, la prospettiva e il trompe-l’oeil dello scenografo, il corsivo delle indicazioni di regia, lo struggimento dell’attor giovane, il cerone consumato del caratterista.
Impepata à la comédie humaine con poeta che inforca «la maschera salmastra» della sua conoscenza, soprattutto del dolore e della paura. È una conoscenza, questa, che attraversa i registri più distanti tra di loro, che lascia dominare  la corda ironica, ma sa scrivere memorabili sezioni della suite in tonalità minore. È una conoscenza, ancora, che si nutre della passione per la migliore tradizione liederistica, in un ricchissimo confluire di voci e apporti: un esempio per tutti è l’attacco Ich bin der Welt abhanden gekommen (“Sono ormai perduto al mondo”, nella traduzione di Luigi Bellingardi), uno dei Rückert-Lieder per voce e orchestra, con la musica di Gustav Mahler e il testo di Friedrich Rückert, poeta tedesco. La maschera salmastra mostra i segni delle immersioni ripetute nelle acque degli scrittori amati ed è strumento ottico formidabile,  inaccessibile ai noncuranti, ai gitanti dell’esistenza pervicacemente ignari. L’essere nel tempo, il suo situarsi nella storia è motivo conduttore e condotto con maestria, pungolo costante per la coscienza, ‘calmieratore’ di emozioni altrove alle stelle, come dimostra in maniera esemplare la “cozza” III. Chi legge si imbatte, all’interno dei versi lunghi,  in segmenti indimenticabili, dalla potenza singolare di suono e significato e dalla sicura precisione metrica: «la scia glaciale della propria assenza», «sarà lo scender dell’autunno», «si prende scorno e cura dei miei resti». «l’avida fola della permanenza»,  «distendersi una nebbiosa salvezza», «Qui l’a priori non ci può far male». (Anna Maria Curci)

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III.

La radio semina ricorrenze civiche nel deserto; io
rivedo i tuoi sguardi clorofilla che a sprazzi hanno irrorato giorni spessi.
Umidi dei vent’anni mi annunciarono di via D’Amelio, ed eravamo
casti e sapevi del fieno attorno casa; poi burrascosi in venuzze, specchi
ustori di Alice nel meraviglioso mondo bancario all’alba del nuovo
millennio, sprezzavano a Genova quei miei comunisti di merda
se Giuliani è morto, dicevi, qualcosa avrà pur combinato,
male non fare paura non avere (refugium peccatorum).
Poi facevamo una pace generosa e m’affilavo nella tua carne come l’illusione
ultraterrena sa innestarsi nell’occaso, gentilmente deflorando la foschia.
Di noi per fortuna non resterà nulla, i quarant’anni son tazze riposte all’acqua fredda
del calcolo, galassie in moti diametrali, sgranate da qualunque
storia risoluta nello schivarci, orrore grosso di stragi mangia
orrore piccolo del tuo delirio borghese rampicante, della mia vulvocentrica viltà.

XV.

Il mare di fine settembre, gioiosamente desolato se si eccettua
una fiorescenza di logali ghe barlano gon l’aggèndo fordemarmino,
m’offre a scialo un cristallino spettacolo d’amante conquistato, aperto.
Dentro lo scrigno germina la rappresentazione del dolore,
il suo trasmettersi con leggiadria di piccole stocastiche meduse,
oppure con la strisciante ma in fondo bonariamente curiosa
grettezza lancinante della raganella, come qui chiamano la tràcina.
Nei muggini guizzanti attorno ai piedi, ansiosi che si smuova il ricco fondale,
nei passeri a caccia di briciole, nei gabbiani sfacciatamente in scia al peschereccio
(se li vedessero i poeti, quelli veri, per primo Miguel Torga!)
c’è tutta la corsa al vivere e il modello della grazia impetrata:
guardalo come s’insinua biforcuto, ammorbandoli, nei gangli della natura.
Ma il senso profondo della mia storia lo ritrovo nel sublime ctenoforo:
un puro trasparente innocuo carezzevole tendere al nulla,
all’agio della deriva e al rampicar di debolezze incolmabili,
questo pascersi per scivolamento nelle fauci sproporzionate,
immobile e gelatinoso come la vita che mi è risparmiata,
mentre nessuno crede ormai alle segrete iridescenze
ed è già in vista, incontrastata da slanci, la nemesi della battigia.

XIX.

Inforco la maschera salmastra e lungo il ritmico aggrapparsi alla placenta
delle bracciate so distinguere Rhizostoma pulmo, Echiichthys vipera
e Carybdea marsupialis il cui solo apparire desta ansiose ritirate.
So catalogare il male, il dolore. Conosco la Fuga a tre soggetti,
l’incompiutezza della prova che deriva da un nemico perentorio – la morte, la paura.
Poi arriva il turista di turno, meglio ancora la coppietta a sbaciucchio:
s’infila in acqua ciecamente, senza attrezzi, fa il suo bel bagno,
esegue una volta di più l’antico pasoliniano passo a due
tra ferma (magari ben difesa) ignoranza e navigazione piana.

XX.

Batte un maestrale violento: lasciando trame eterne sulla rena elide
il calpestio del fine settimana, il divertimento gridato a sprezzo,
i fiorentinmilanesparmigianreggianpratesi al mare. Adesso
l’ingegneria del vento per me solo alza veli sottili a livellare
l’orme. Tempo mezz’ora e tutto tornerà inviolato.
Giunta a casa, la gente alimenta con zuppe di farro
l’avida fola della permanenza.

XXVII.

Alzarsi di scatto dal tavolo apparecchiato della memoria
gridando “anch’io ho amato”, trangugiando
sugo e respiro. Ma era follia, differenza, maledizione, piede d’argilla,
ansia di riempimento che perdura. Te ne accorgi
appena inizi a pensare a parole lenimento, come cellule
totipotenti, epitelio d’assoluzione o azione: al primo contatto con l’azoto dei giorni queste
si seccano, non trattengono il senso. Similmente, nuotando, scorgi a volte
un bagliore sul fondale però manchi di polmoni:
ti agiti per la scoperta ma proprio non riesci e manco provi
ad andare in apnea, star lì a macerare pinneggiando non darà disciplina
coraggio o allenamento. Devi lasciar perdere,
dirigerti più in là, sia quel che sia. Scavare una trincea. Gioiello o tappo
smaltato di bottiglia, se ne giaccia lì immemore, dentro qualche sinapsi inascoltata.

XXXVII.

Non posso tralasciare questo fascismo da spiaggia
serpeggiante perfino nel cervello plastilina dei bimbi al gioco del pallone
(quindici anni in due) che non sapendo come offendersi si urlano del “comunista”.
Poi gli adolescenti di oggi con sciarpe inneggianti alla buonanima; calciatori, cantanti
più giovani di me intenti nel saluto romano oppure a snocciolare
a un giornalista struzzo i “valori” del ventennio; rampolli gorgheggianti in camicia nera
e ubiquo razzismo in aerosol che ogni tanto crea il “folle”. C’è una legge
a vietar tutto questo ma non basta, non tiene,
la legge non esiste se non quando fa comodo a noi, noi non paese,
noi sciopero dei ricchi/avvocati/farmacisti/calciatori,
noi uno contro l’altro, noi torri di San Gimignano, noi articolo quinto,
noi che un buono è un coglione e una merda un forte da ammirare, noi sopraffazione
noi battesimo noi indottrinamento del germoglio, tienilo stretto
che non scappi e tappagli la bocca mentre noi lo marchiamo.

XLV.

Ich bin der Welt abhanden gekommen,
sono nel nessundove del niente che realmente desidero.
Non tange il circostante e il ricordo ha la veniale costanza di certo lambrusco
salamino, frizzante ultraleggero. A poche ore dalla fine d’anno
tornano in testa gli affanni di gioventù, quando il cupio
dissolvi, il voler ritrarsi dallo sciame
era cosa nefanda, da affogare in articolate invenzioni, triangolando
l’essere altrove. Ora l’età fa neutra la solitudine e, pur nella smorfia
di un nulla che non appare perché era già qui (ha scostato con palmo deciso
il religioso fondotinta), l’ansia decelera. Due balle agli amici, giusto
per non sentire rozzi fondati compianti, ed ecco distendersi una nebbiosa salvezza.

LI.


(a Giorgio Caproni)

Celebrerò i tuoi cento sulla soglia
del mare-materiale,
lasciando l’indicibile e il frasario
al maestrale ianuario.

Qui l’a priori non ci può far male.

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robertocorsiRoberto R. Corsi, nato a Ferrara nel 1970, vive a Firenze dal 1982. Nel 2007 ha pubblicato la raccolta di poesie L’indegnità a succedere (Esuvia) e nel 2010 l’ebook All’orza (LaRecherche). Il suo sito/blog di scrittura è http://robertocorsi.wordpress.com

5 risposte a “Roberto R. Corsi, Cinquantaseicozze”

  1. Complimenti all’amico Roberto di cui apprezzo moltissimo i versi diluviali qui raccolti in un mazzo odoroso di vita, realtà pulsante e allagante, il tutto rilegato dal sarcasmo nient’affatto bonario, civilmente corrosivo e profondamente sofferto che caratterizza non solo la sua scrittura ma anche la sua personalità. E colgo l’occasione per ringraziarlo di nuovo del dono ricevuto.
    mdp

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  2. Un volume, quello di Roberto R. Corsi, che a ogni lettura semina indizi e dispiega ricchezza di toni. Ringrazio Marco Di Pasquale per il suo commento e tutti coloro che si sono soffermati sui versi tratti da “Cinquantaseicozze”.

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