Anne Sexton, Il libro della follia
A cura di Rosaria Lo Russo
La Nave di Teseo, 2021
Recensione di Roberto Dall’Olio
«L’equilibrio tranquillizza, ma la pazzia è molto più interessante.»
Bertrand Russell
Il libro della follia è più di un libro: è la follia dentro un libro e, come è facile immaginare, il suo lessico va oltre le pagine e vorrebbe invadere il mondo, quel mondo che dentro al manicomio l’ha stipata… Una vita si pronuncia, si diffonde, si racconta in queste poesie e piccole prose che non assomigliano a nessuna esperienza poetica di mia conoscenza. È estremamente difficile entrare con l’empatia, l’unica possibilità per farlo, in questo reticolato di senso, dissenso, nonsenso, che rappresenta il testo della Sexton, la quale non abbandona lo stile confessionale che l’ha segnata come paziente e come poetessa.
Mi piacerebbe una vita semplice.
Invece tutta notte ripongo
Poesie in una scatolina.
È la scatola dell’immortalità,
Il mio piano rateale,
La mia bara.
Tutta la notte ali cupe.
Sbattono nel mio cuore.
Ognuna un uccello ambizione…
L’uccello…
Vuole. Voglio.
Caro Dio, non sarebbe meglio
Bersi una cioccolata calda?…
Devo prendere un nuovo uccello
E una nuova scatola dell’immortalità.
Di follia in questa ce n’è già abbastanza.
Dio è il grande uccello che può essere anche il padre terreno; entrambi rappresentano la potenza del potere maschile forse il fallo-logocentrismo di cui le scatole sono la metafora delle tombe dove riporre il meglio della vita e il senso dell’immortalità.
Anne Sexton è stata educata nel più severo calvinismo del Nord Est degli Usa e per tutta la sua tormentata vita ha lottato con questa morsa.
La follia è dentro quelle scatole. Ma le scatoline rappresentano forse anche il luogo della fertilità, il simbolo dei genitali femminili, il luogo della creatività a dispetto della aridità del potere costituito, della Legge del Padre-Dio-Grande Uccello. Autorità Psichiatrica. Scienza.
A sfavore del potere dei Medici, dei Dottori Sexton si pronuncia in Il dottore del cuore:
Basta, basta con la tua scienza, Doktor.
Non mi imburra… Però manda via il carcinoma di mia madre
Perché ho solo una tazza di lacrime di feto…
Non sono più la suicida…
Herr Doktor, non morirò più
Per fare dispetto a te. A te
Che sciaguatti nel mal di mare coi piedi per terra.
Chiaro il richiamo all’autoritarismo con l’uso del tedesco “Herr”, la tremenda richiesta di guarire la madre, la propria madre. Lei Anne che possiede solo le lacrime di un feto… le cose impossibili.
Ribellione verso un marchio, “la suicida”, e verso la morte, verso l’insensibilità, verso l’idea normativa della malattia.
La morte ritorna più e più volte in queste pagine ilaro-strazianti; la morte non so se sia un “vizio assurdo”, ma è lì: la “Signora vestita di nulla” accanto alla pazzia vera e propria morte sociale. Morte e demenza. Il segno che marchia appunto, “la butterazione”.
Ma non il silenzio… no le parole: «Sicuramente le parole continueranno,/ Perché sono, di ciò che resta, l’unica verità». La verità nella parola, nella vita. La menzogna nel marchio. Nella tassonomia. Nel silenzio opaco della autorità della Morte. La lotta tra verità e autorità. Tra poesia e malattia. Tra struttura e persona. Tra mondo del potere e la fragilità di una povera folle. Tra uomo e donna.
Non ci si arresti al più facile dei femminismi. Si vedano i versi stupendi di Madre e figlia, rapporto scarsamente considerato, indagato:
[…] Finito il calduccio di mamma.
Finita la tua infanzia […] Chiedo ragguagli e tu
Passi in rassegna eserciti… Ti chiedo ragguagli e tu
Tu stai per cucirmi un sudario,
Brandisci il pollo arrosto del lunedì
E lo sbudelli col pollice […].
Non c’è continuità non ideologia; la figlia è già ladra e assassina: sta uccidendo la propria madre. Perché così è e deve essere così per stare nel mondo con equilibrio. Il mondo fatto da picchiamogli e da americani riempiti di morti. Sexton accusa il suo Paese: «Noi siamo i bottegai della morte […] America/ Dove sono le tue credenziali?»
Prima noi, poi tu America. Non sono poesie apolitiche, ma impolitiche; tuttavia accusano l’America di non avere appunto le credenziali per essere il baluardo e la culla della democrazia moderna. Al contrario è portatrice di morte, sparge morte dentro e fuori di sè. Un atto di accusa che anticipa i tempi della critica ideologica, è abbandono alla verità e della verità al tempo stesso che Sexton segue e denuncia.
Improvvisamente la poetessa scatta nel privato, dentro il suo doppio e parla di Anna. Anna la matta non è la matta, non lo è mai stata: è una povera Crista, che soffre sulla croce della follia e dell”abbandono (del Padre, della verità, della Giustizia, della Pace, Guerra).
La scrittura resta per Sexton l’unica via di liberazione o di sopravvivenza come emerge anche nella lirica Anna che era matta, nella quale la poetessa Sexton dialoga con la donna Anna. Chiede a Anna se è stata lei Sexton a farla impazzire; e le chiede perdono, le chiede disperatamente di dirle che non sia stata lei; e la implora di prenderla dentro, di cucire la scissione tra Anna e Sexton… ma non è possibile: Anna è stata sepolta e le chiede di scrivere, di scriverle.
In Sognando le tette compare un confronto con la madre e le sue tette, tette tagliate dal chirurgo: «Alla fine ti hanno tagliato le tette/ E il latte si è versato/ Sulle mani del chirurgo/ Che le strinse a sé./ Io gliele ho prese/ E le ho piantate./ […] questi cari bianchi pony/ Possono fuggite al galoppo, al galoppo/ Ovunque tu sia.» Il Chirurgo come Macbeth tra latte e sangue, vita e morte, ancora.
Le donne sono vittime degli amletici uomini di potere che non hanno sangue nelle mani, ma latte e tette. Le tette fertili si possono piantare per fare crescere nuova linfa, nuova vita; diventare pony e fuggire al galoppo verso la sparizione.
Questa passione secondo la Madre e secondo Anna si ritrova pienamente nelle poesie dedicate “Ai Padri” ma, soprattutto, in quelle che Sexton scuce dalla passione di Cristo: le poesie cristiche che occupano la parte finale del testo.
Anne Sexton o piuttosto Anna si identifica con Gesù e con la sua vicenda terrena a cominciare da Gesù lattante: «Maria, le tue grandi/ Mele bianche mi fanno felice […] chiudo gli occhi e ti succhio come fiamma./ Cresco. Cresco. Divento bello cicciottello […]. No. No/ Tutte balle./ Sono piccolo/ E mi tieni./ Mi dai il latte/ Siamo una cosa sola/ E sono felice.»
Ancora una volta la felicità è la ricomposizione in “una cosa sola”. Se la modernità doveva essere scissione, secondo l’annuncio di Hegel, qui si trova pienamente nel vissuto di una donna lacerata la scissione del mondo moderno che Gesù chiama a sè ancora con la metafora del latte come sangue e come seno e congiunzione, ritorno all’uno.
Religione, sesso, politica, amore, etica e famiglia, maschi e femmine, medico e paziente, malattia e normalità. Tutto l’ordine simbolico e sociale viene sottoposto a scosse telluriche dal linguaggio apparentemente delirante della poetessa, che culmina appunto nelle Carte di Cristo, nella sua identificazione cristica a partire dal rapporto tra madre e figlio, tra Gesù e Maria, al “lavoro” sociale del Maestro nel suo rapporto con il simbolo del peccato, il sesso fatto mercato e cosalizzato incontrando la meretrice: «La meretrice stava accovacciata/ Con le mani tra i rossi capelli./ […] Le pietre venivano a lei come api alle caramelle/ […] gridava: “io, mai! Io, mai!” […] Gesù […] Alzò una mano e le pietre/ Caddero a terra come ciambelle./ Alzò un’altra volta la mano/ E la meretrice venne a Lui e lo baciò./ Egli […] la incise due volte su ciascun seno/ Spingendo sui pollici finché il latte sgorgò/ Da quei due bubboni di meretricio.»
Una stupenda poesia di passaggio dal sangue al latte, dalla morte pesante alla vita leggera e sullo sfondo il duro paragone tra i seni e i bubboni pestiferi del peccato. Il peccato, sempre il peccato che tortura.
Dicevo della Morte: la morte e il ritorno alla vita di Lazzaro. Simbolo della trasfigurazione, della metamorfosi estrema; il passaggio a ritroso dallo stato inerziale a quello cinetico, dalla fine a un nuovo inizio… ciò che Sexton augura a sé stessa attraverso le parole, i discorsi della follia. Ma quale follia più sconvolgente è quella della Croce? E del timore dell’abbandono? Di avere vissuto inutilmente, dell’assurdità del dolore così strettamente connesso al vivere, alla vita umana e non solo?
Domande antiche riviste al buio della camera oscura della follia ove esse trovano un esito spiazzante, senza collocazione nello spazio e nel tempo, in una dimensione amputata. Irrimediabilmente.
© Roberto Dall’Olio