Dante muore a Ravenna settecento anni or sono, la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Un anniversario importante, che su queste pagine non può passare inosservato. «Poetarum Silva» intende commemorarlo, il 14 di ogni mese, attraverso le pagine di autori che gli hanno reso omaggio, trasformandolo in personaggio della loro scrittura critica, narrativa, poetica.
Dante e Immanuello Romano
Storicamente gli italiani di fede ebraica, rispetto alla letteratura, avevano due strade: o scrivere in giudeo-italiano (una lingua con peculiari caratteristiche attiva soprattutto nel centro e nel sud del nostro Paese) oppure esprimersi, come il resto della popolazione, in italiano. Nel primo caso, gli studiosi parlano di “letteratura giudeo-italiana”, nel secondo di “letteratura italiana degli ebrei”.[1] Quest’ultima ha avuto, nei secoli, un percorso irregolare, in cui alcune isolate personalità si alternavano a lunghi periodi di silenzio.
Dai primi sonetti di Immanuel Romano (sec. XIV) alle elegie settecentesche di Salomone Fiorentino, l’itinerario di tale produzione risulta non solo molto frammentato da vaste parentesi di silenzio, ma, anche nei momenti di partecipazione ebraica più disponibile, caratterizzato soprattutto dalla presenza di singole, talora straordinarie, personalità, quali Leone de Sommi a Mantova o, a Venezia, Leon Modena, Sara Copio Sullam o Simone Luzzatto, le cui voci sono spesso rimaste poi prive di un vero e proprio seguito culturale.[2]
Interessa qua parlare di Immanuel Romano, in quanto unito da singolari legami intellettuali – e da una probabile reale amicizia – con Dante Alighieri. Immanuel Romano, alias ‘Immanu’èl ben Shlomò ha Romì, alias Manoello Giudeo, vissuto fra il Duecento e il Trecento, è da molti ritenuto il maggior poeta ebreo del Medioevo, poiché è riuscito a fondere e ad amalgamare in modo originale la grande tradizione poetica giudeo-spagnola con la poesia in volgare italiano, sia stilnovistico che giocoso. Un ingegno flessibile, abile e arguto, capace di introdurre nei suoi versi in ebraico un nuovo sistema metrico fondato su quello italiano e di arricchire la poesia in volgare italiano con temi, espressioni e vocaboli ebraici. Lo potremmo definire un poeta felicemente anfibio, molto stimato negli ambienti intellettuali del tempo. Per quanto riguarda il volgare, è autore di quattro sonetti e una “frottola” dal titolo Bisbidis, che gli hanno valso un piccolo spazio accanto ai poeti del Trecento di ispirazione realistico-giocosa.[3] In ebraico egli scrisse, oltre a molti commenti biblici, una sorta di prosimetro dal titolo Machbaròth – composizioni, suddiviso in ventotto sezioni di argomento vario, che si concludono con un immaginario viaggio nell’oltretomba su imitazione della Divina Commedia dantesca.
Immanuello nacque a Roma intorno al 1265, figlio del rabbino Shlomò, della famiglia Zifronì e probabilmente esercitò la professione medica. Esule dalla sua città dopo il 1321, fu ben accolto nelle città dove trovò rifugio: Fabriano, Gubbio, Perugia, Orvieto, Ancona, Camerino, Fermo e Verona. La sua presenza nella città scaligera più o meno nel periodo in cui Can Grande della Scala accoglieva anche Dante ha suggerito la suggestiva ipotesi che fra i due ci sia stata una reale amicizia. Le opinioni in proposito sono controverse: in passato i lavori di Modona, Debenedetti e Cassuto hanno escluso un legame diretto tra i due, mentre alcuni saggi più recenti di Giorgio Battistoni propendono invece per una contemporanea presenza alla corte scaligera e per un effettivo legame di stima e di amicizia. In tempi ancora più recenti, Fortis suggerisce l’ipotesi che la scuola filosofica romana sia il substrato comune sia di Immanuello che di Dante.[4]
Altra questione controversa è la reale identità del misterioso Daniele, novello Virgilio, che scorta l’autore nell’ultima machbéreth dal titolo Ha-Tofet ve-ha-Eden (Inferno e Paradiso). Come accennato sopra, si tratta di un’opera che si ispira apertamente alla Divina Commedia. La stima e la devozione nei confronti di Dante, di cui si ha prova certa nel “botta e risposta” poetico con Bosone da Gubbio[5] in occasione della morte dell’Alighieri, hanno forse indotto Immanuello Romano, oltre che a scrivere una machbéreth a lui ispirata, anche a fargli fare da guida nei regni dell’oltretomba? Secondo le conclusioni di Giorgio Battistoni,[6] tale domanda non può che avere una risposta affermativa. Sono quindi dedicate a Dante le commosse parole di Immanuello quando, in Paradiso, si trova davanti un trono pronto ad accogliere quel fratello di poesia a lui tanto caro:
E avvenne che quando udii tali parole ricordassi l’eccellenza di mio fratello Daniele
che mi aveva guidato sulla strada della verità, che aveva raddrizzato il mio sentiero
e che mi era stato vicino quando ero fuggiasco;
sacro diadema posto sulla mia fronte,
vita della mia carne, della mia vita e del mio spirito,
[E quanto alle] Narrazioni della sua grandezza,
e della sua generosità ed elevatezza,
e del suo intelletto e del suo giudizio,
e della sua umiltà e della sua giustizia,
le estremità della Terra erano colme della sua lode.
E dissi all’Uomo che mi reggeva la destra:
«Deh, mio Signore,
mostrami il luogo di Daniele mio fratello e il suo posto,
e qual è la casa che costruirete per lui e qual è il sito del suo riposo»
Ed egli mi rispose: «Sappi per vero che il suo grado è assai elevato:
le estremità della Terra erano colme delle sue lodi;
e per quanto il tuo grado sia troppo basso per giungere a lui,
in quanto egli ha perdonato il peccato di molti ma colpisce i peccatori,
poiché l’Intelligenza Superiore sapeva che senza di te non avrebbe trovato pace e tranquillità,
elevò la tua tenda presso la sua tenda;
e per quanto il tuo valore sia inferiore al suo,
sapendo la Sapienza che egli troverà diletto al tuo fianco,
egli sarà per te come Mosè e tu sarai per lui il suo Giosuè,
affinché quando vedranno che le vostre anime aderiscono e che non si separano, tutti dicano:
«Possono due persone andare insieme se non si sono date appuntamento?»[7]
[1] Cfr. Umberto Fortis, Manoello volgare. I versi italiani di Immanuel Romano (1265-1331?), Salomone Belforte & C., Livorno 2017, pp. 9-13.
[2] Ivi, p. 14.
[3] Remo Fasani sostiene che a tali opere vadano aggiunte Il Fiore e Il Detto d’Amore, fino a quel momento erroneamente attribuite a Dante (Cfr. Remo Fasani, Il Fiore e Il detto d’amore attribuiti a Immanuel Romano, Longo editore, Ravenna 2008).
[4] Cfr. Umberto Fortis, Manoello volgare, cit., pp. 21-26.
[5] Cfr. Ivi, p. 25.
[6] Nell’introduzione a Immanuello Romano, L’Inferno e il Paradiso, (a cura di Giorgio Battistoni), Giuntina, Firenze 2000.
[7] Immanuello Romano, L’inferno e il Paradiso, cit., pp. 86-87.